Indice generale degli autori presenti

Raffaela Acampora, Nicola Accettura, Aceval (cura di), Fernando Acitelli, Felix Adado, Domenico Adriano  (2), Maria Afa Tiranti, Giorgio Agnisola  (2), Stefano Agosti, Ghassane Amarsal, Brandisio Andolfi   (2),  Vittorino Andreoli, Jeph Anelli (2), Antonio Angelone, Alberto Arbasino, Franco Arminio, Dino Artone (3), Dino e Alfonso Artone, Asoic Naic (Licia Rotunno)   (2), Corrado Augias

Pierdomenico Baccalario, Alessandro Baldacci, Balestrini/Giuliani/Barilli/Guglielmi (cura di), Giorgio Barberi Squarotti, Lorenzo Beccati, Marco Bellotto, Anton Nike Berisha (3), Donatella Bisutti, Luigi Bonanate, Carmine Brancaccio  (3), Franco Brevini, Franco Buffoni  (3), Lino Busà, Laura Buscemi   (2), Raffaele Bussi

Adele Caccia, Mario Calabresi, Marcello Caliman  (2), Andrea Camilleri   (2),  Giuseppe Campolo, Mario Capanna, Annamaria Capasso, Alberto Cappi, Claudio Carbone (2), Cristina Carbonelli, Rodolfo Carelli, Marcello Carlino  (4), Delio Carnevali, Giuseppe Cassieri, Michel Cassir / Houda Kassatly, Fulvio Castellani  (2), Ennio Cavalli, Elide Ceragioli, Dante Cerilli (2), Guido Ceronetti, M. Benedetta Cerro  (3), Davide Certosino, Aldo Cervo  (2), Sandra Cervone   (2), M. Chaibeddera, Paolo Ciampi (e Barbieri)  (2), David Cibecchini, Domenico Cipriano, Lorenzo Ciufo, Salvatore Coccoluto, Colonnese (cura di), Pasquale Cominale  (2), Sergio Corbino, Mariano Coreno, Helia Correia, Andrea Cortellessa, Renzo Cremona  (3)

Luciano D’Agostino, Federica D’Amato, Leone D’Ambrosio   (7), Romina D’Aniello, Fabrizio De André / Alessandro Gennari, Filippo De Angelis  (3), Domenico Defelice, Rosalba De Filippis, Angela De Leo, Emanuele De Luca, Erri De Luca, Gianluca De Lucia, Rossella de Magistris, Francesco De Napoli, Manacorda / De Nicola (cura), Diego De Silva, Maria De Vivo, Giulia Di Biase, Manfredo Di Biasio  (4), Paola Di Biasio, Rodolfo Di Biasio (4), Simone Di Biasio, Giuditta Di Cristinzi (3), Ida Di Ianni (4), Di Ianni / Di Martino (cura di), Franco Di Mare ,  Raffaele Di Monda, Pasquale Di Nitto (2), Stelvio Di Spigno (6),  Georges Drano (e Nicole Stamberg)

Magnus Enzensberger / Alfonso Berardinelli,  Giuseppe Errico

Vincenza Fava, Beppe Fenoglio, Marilena Ferrante, Giustino Ferri, Renato Filippelli (2), Riccardo Finelli, Gino Fiore  (2), Paolo Fiore, Jason Forbus (2), Gaetano Forte, Gabriele Frasca, Rossella Fusco

Miro Gabriele, Laura Gabrielleschi (3), Matteo Galdi, PierPaolo Giannubilo, Nicola Gardini, Bruno Galluccio, Laura Garavaglia, Alfonso Gatto, Brigidina Gentile, Gentili (cura di), Antonio Ghirelli, Daniele Giancane  (5), Stefania Giancane, Maurizio Giancaspro, Angela Giannelli (3), Edvige Gioia (4), Simone Giorgino,  Maria Giusti (2), Renato Greco, Rogelio Guedea, Anna Guidi, Ottorino Gurgo

Alberto Hérnandez, Nazim Hikmet

Amerigo Iannacone   (11), Celeste Ingrosso, Vanina Iodice, Giovanna Ioli, Pasquale Iorio, Rita Iulianis, Alessandro Izzi

Helena Janeczek,  Ibrahim Kadriu,  Jack Kerouac, Amanda Knering

Raffaele La Capria (2), Gerhard Leibholz, Letizia Leone, Daniel Leuwers, Vittorio Lingiardi, Tommaso Lisi, Marco Lodoli, Marcello Loprencipe, Antonio Lubrano, Silvana Lucariello, Luciano Luisi (2)

Pasquale Maffeo (10), Dante Maffia, Valerio Magrelli  (2), Ida Maina,  Giorgio Manacorda, Giuliano Manacorda, Simone Marcacci, Cinzia Marchese, Franco Marcoaldi, Michele Mari, Pasquale Martiniello, Anna Rita Mascio, Antonio Masi, Emma Mazzuca (2), Roberto Mazzucco, Alda Merini (2), Luigi Merola (2), Salvatore Mignano  (2), Carmen Moscariello  (5), Besnik Mustafaj

Yourika Nakaema, Nicola Napolitano  (5),  Francesca Nardi, Nobel (autori vari), Vittorio Nocella  (2)

Piergiorgio Odifreddi, Nirvana Ortese, Monica Osnato

Paolo Pagli, Giuseppe Pagliara, Francesco Palmieri, Felice Paniconi, Adriana Panza   (2), Gianluca Paolisso, Antonietta Pastorelli  (2), Octavio Paz, Elio Pecora  (2), Daniel Pennac, Francesco e Marco Perillo, Alessandro Persechino, Alessandro Petruccelli  (4), Adriano Petta (2), Petta / Colavito, Raffaele Piazza, Pierini / Morreale (cura di), Nando Pierluisi, Antonio Pietropaoli, Pisanti T. (cura di), Ugo Piscopo  (4), Alberto Prandi, M.Assunta Prezioso, Angela Procaccini

Mario Quintana

Giovanni Raboni, Claudio Raggi, Antonio Raimondi, Fabrizia Ramondino  (2), Ermanno Rea, Emilio Renzi, Renzo Ricchi (9), Alessandro Riccioni, Antonio Riciniello, Enrico Rosati, Fryda Rota, Clelia Rotunno, Paolo Ruffilli, Anna Ruotolo, Saggese / DiNapoli (cura di)

Edoardo Sanguineti  (2), Stefano Sansoni, Goliarda Sapienza (2), José Saramago, Eugenio Scalfari, Gabriella Scamardella, Laura Schioppa, Giuseppina Scotti  (4), Massimo Scrignoli, Chiara Scrobogna, Silvestro Sentiero, AnnaLuce Sicurezza, Martina Silvestri, Ambra Simeone  (3), Gabriella Sobrino  (3), Grazia Sotis, PierGiacomo Sottoriva, Antonella Sozio, Antonio Spagnuolo, Spagnuolo (cura di), Maria Luisa Spaziani, Mario Specchio, Giuseppe Spinillo

Juri Talvet, Francesco Tanzj   (2), Rossella Tempesta, Andrea Temporelli, Fernando e Walter Tommasino, Roberto Tortora, Lucilla Trapazzo, Shmuel Trigano, Pina Tucci, Silvano Tummolo

Raffaele Urraro, Gerardo Vacana, Vacana (cura di), Nicola Vacca, Nasos Vaghenas, M.Rosaria Valentini, Chiara Valerio, Jordi Valls, Antonio Vanni (2), Simona Venezia, Giuseppe Vetromile, Bonifacio Vincenzi, Felice Vinci, Justin Vitiello

Gustavo Zagrebelsky, Lucio Zannella, Gianluigi Zeppetella  (2), Visar Zhiti, Lucio Zinna, Stefan Zweig

Sansoni – Scotti – Scamardella – Sicurezza – Silvestri – Sotis – Sozio – Spinillo – Talvet – Sottoriva – Tanzj – Tempesta – Temporelli – Tortora – Tommasino – Trapazzo – Trigano – Tucci

Stefano Sansoni, Dipinto, L’Autore Libri

Una straordinaria determinazione espressiva sostiene la prova di questo Dipinto. Il giovane autore mostra indubbie capacità nel reggere una lettura del (suo) mondo asciutta e disincantata: “cose di me”, “cose vere” (… “e solo questo momento per sentirmi libero…”) – inutile cercare di seguirlo dove non c’è, dove non vuole (ancora) essere, nell’ambito cioè della poesia riconoscibile. Anche se qualche ascendenza ironicamente accettare la si potrebbe accertare, ma è nelle corde naturali di Sansoni, filtrata dalla sua scanzonata metrica esistenziale. Probabilmente è così che vive, come scrive (“mi tingo d’essere”, dice) – forse però è pur vero che questo suo Dipinto è tale poiché è un libro di esordio, segnato come tale dall’ansia di apparire, di mostrare e dimostrare quel che si è. I suoi vent’anni però non sanno di sfrontata esibizione, non hanno, di certi più fortunati ventenni, i toni presuntuosi della facile affermazione. Gli sviluppi della sua creazione lirica saranno senz’altro meditati e cantati con altro verso. C’è da aspettarsi, a giudicare dalla sua voglia di giocare (consapevolmente però), ben altre prove appena sarà certo di possederne le necessarie abilità formali e le giuste chiavi di lettura. Sa bene, il neofita scaltro, che crescere è travaglio – aspetta di imparare a soffrire, poi ce lo dirà. Intanto già si presenta in questa stanza con una nuova silloge, dal titolo alla Kerouac: Piccole luci di smog, densa di umori beat e ricca di spunti notevoli sul piano linguistico ed espressivo. Guarda un po’ indietro, magari per prendere lo slancio, in umiltà al servizio di una lezione irrinunciabile, quella di chi ha creduto nel sogno della parola grimaldello di coscienze.

 ***

Gabriella M. Scamardella  Te lo dico in versi  Graus editore

“Versi concisi, essenziali, fulminanti” – così nella nota di presentazione di F. Ramondino: questo secondo piccolo libro di Gabriella Scamardella segna in realtà un deciso scatto sulla difficile via dell’espressione sentimentale che l’autrice ha deciso di seguire. Te lo dico in versi, infatti, perché altrimenti mancherebbero le forze: può essere questa una chiave di apertura dell’intimità poetica di una donna alle prese con silenzi e desideri, speranza e piacere. Più consapevole delle proprie abilità e disposta a farsi leggere nelle pieghe del suo essere (con i problemi e le difficoltà del suo essere ma pure con la fiducia di chi offre la sua voce ad una voce amica), Gabriella Scamardella scarnisce le sue liriche riducendo al minimo le parole impegnate – ma i risultati della sua ricerca sono efficaci. Potrebbe bastare un esempio: “Amandoti imparerò ad amare amorevolmente l’amore. Se non mi amerai non farò nulla. Continuerò ad amarti. Anche se indicibile era l’amore” – inutile segnare i versi (spesso una parola sola): conta il ritmo, franto, e le cadenze, esaltate nell’insistenza della paronomasia. Malgrado l’apparente semplicità, la secchezza del dettato, non c’è però aridità di sentimenti o sensi: se si contano le occorrenze di certi lemmi, si ha anzi la chiara percezione del tessuto compositivo di questo libricino. L’autrice si dà a singhiozzi, quasi, con pudore, eppure con fermezza la sua parola si schiude e cerca ascolto. Amore, desiderio sono parole che ricorrono spesso, come voce, silenzio, luce… quasi tutte le brevissime composizioni hanno per tema la manifestazione dell’io, nelle sue timide movenze esistenziali e nei rari momenti di esaltazione. Gli accenni al reale, al quotidiano, sono anch’essi filtrati dalla lente minimalista del privato che si affaccia a una finestra mai del tutto convinta ad aprirsi. Ma in versi è possibile dire – dal profondo e per sempre – quel che si deve, e si vuole e a volte lingua mortal non dice.

***

Giuseppina Scotti, Cento frasi d’amore non spedite, Nuova Impronta

Chissà se conviene sempre, se fa più o meno male, spedire una lettera o una semplice frase d’amore, se almeno consola chi la spedisce, se non è troppo tardi… Queste Cento frasi d’amore di Pina Scotti (53 anni, grossetana ma ligure di origini, autrice di una decina di libri) non hanno avuto in realtà il tempo di essere inviate al destinatario; rimangono quindi la testimonianza di quel che sarebbe stato l’amore, nelle aspirazioni troppo in fretta frustrate. “L’amore è cardine su cui girano le porte del creato” scrive la curatrice Palitta. Ed è per questo, allora, che “Vorrei volare con te / dove non c’è memoria”… forse proprio per chiudersi alle spalle le porte del mondo, il mondo cattivo che la “fanciulla” Pina teme per la sua cattiveria? Un epistolario dà sempre l’impressione di una intimità violata, può anche accendere pulsioni nascoste nel gioco dell’imitazione – qui, cento frasi diventano un vademecum che può sorreggere la pena della vita, quando almeno ci si rifugia nel sogno e nell’illusione di una presenza.

 ***

Scotti.jpg

Giuseppina Scotti, Le buste gialle, Innocenti

L’amore non ha tempo, non ha tempi, non ha età, non conta gli anni. Una “storia d’amore” è in se stessa un ossimoro, poiché appunto la si vuol chiamare storia ed assegnarle quindi tempi (di origine, svolgimento fine: passato, presente, futuro), mentre all’amore compete la dimensione extratemporale, esulando il suo dominio dal comune intendere delle cose terrene che – esse sì, purtroppo – passano e finiscono. Tutto questo lo sa, Giuseppina Scotti, autrice di un piccolo toccante libro d’amore, Le buste gialle, che a suo modo sviluppa una intesa d’amore vissuta (ci lascia credere di averla vissuta) eppure indefinibile. Un paradosso… ma bisogna crederle: a lei davvero l’amore ha dato spazi ultraterreni, davvero le ha parlato con voce oltremondana, le ha detto di cose invisibili, inconoscibili. Scrivendo lettere d’amore al compagno (quanto realmente accanto a lei o immaginato non è dato sapere e importa poco saperlo), al sogno che le ha fatto scoprire un risveglio nuovo nella sua esistenza – finalmente “donna” – Giuseppina ha composto un rosario di perle, finissime nella politura, commoventi nella bellezza che emanano. Prevale il sentimento, certo (all’amore non si comanda, si sa), ma in queste lettere spedite in buste gialle c’è pure più volte l’espressione di un’amara consapevolezza, latente e lancinante insieme. Poiché l’amore, scaturito e vissuto nel profondo, vorrebbe farsi storia, vorrebbe diventare vita reale, vorrebbe avere visibilità nel mondo comune e così perdere (per averla contaminata e sciupata nel contatto) la propria sublime aura di condizione dell’anima, felice e appagata per essere tale. La scrittrice di queste lettere però (ossimoro o paradosso importa poco anche questo), malgrado potrebbe causare a quell’amore un pericoloso aumento di fisicità e quindi di corruttibilità, non commette un tale abuso: Giuseppina Scotti conserva un candore (di artista e di donna) e un’onestà si direbbe etica, che consentono al suo sogno di non svilirsi, e fissarsi invece come un prezioso gioiello incastonato in un diadema ancora più prezioso. E lei, custode accorta, ce lo mostra soltanto per farsi dire che è stata brava a non gualcire un così bel momento, mettendolo sulla carta e facendocene partecipi, un lungo momento fuori del tempo, in un mondo tutto suo – in cui potremmo accedere solo se capaci di far pulito il nostro animo, dimenticando la banalità del quotidiano.

***

Pina Scotti, Una donna. I suoi ambienti, Centro Iniziative Culturali

Questa raccolta di versi, l’ottava pubblicata da Pina Scotti nel­l’arco di un’e­spe­rienza letteraria ormai quasi ven­tennale, sembra vo­glia situarsi – almeno ri­spetto all’ul­tima Armonia di accordi – in una re­gione lirica meno a­spra, per un abbassamento di tono (del tono più lirico appunto) che è comun­que a vantaggio di una recu­perata e rin­vigorita vena paesag­gi­sti­ca, da sempre componente prima della sua poe­sia, così legata alla pittura. La sua tavolozza poetica, sempre più consapevole, qui è re­spiro di armo­nia (sì, anche qui, “armonia di ac­cordi”, fra ‘io’ e ‘fuo­ri’) che inter­na­mente si frange e singhiozza: per­ché è vero che c’è meno psicologi­smo di su­perficie, ma non certo meno introspezione. Squadernando l’album dei ricordi, Pina Scotti ripercorre e ri­co­struisce i diversi itinerari dell’animo, mentre assesta e riassa­po­ra me­morie e sug­ge­stioni, consentendo così (anche a lei stessa! in un mo­mento magari di pausa dal vortice dei giorni comuni) di leggere – o rileggere – una vita specchiata – e conservata – nei quadri di quel mu­seo spontaneo che è la natura intorno a noi. È un paesaggio/stato d’animo? È piut­to­sto lo stato d’animo del poeta che (ri)crea il pae­saggio perché vi si possa ri­conoscere… Così nel tramonto del paesaggio agrigen­tino, tra i “ruderi inerti” ove si levano “voli neri di corvi”: sulle ma­cerie del­l’e­si­stenza un nu­golo di pensieri, non potendo evitare che il sole muoia (ultimi fuo­chi della gioia), cerca di “ghermirne un ul­timo lembo”. Come nella Locride ideale, arcadica e pacificata – fuori del tempo, fuori del presente! – che si dona “come frutto da aprire assa­porare e desi­derare per sempre”: che peccato non poter conservare anche nella realtà l’immagine che pen­siamo sia quella ‘giusta’. Spesso il gabbiano è simbolo di libertà, ma è – insolita­mente – un “ti­mi­do gab­biano” quello che “cerca ancora il suo nido” nella sel­vag­gia “Mon­tecristo”, un’altra immagine ‘interna’ che diventa pae­saggio: è l’ispira­zione che langue e va in cerca di un ubi consi­stam (e sia pure la “ci­sterna” di “S. Gimignano” in cui si gettano “le ore più belle”), con­geniale riposo alle pene del cuore. Molti altri esempi si potrebbero proporre, ma si fini­rebbe per to­gliere al lettore sensibile il piacere di scoprire, di cogliere nuda l’anima del po­eta. Che vor­rebbe essere “li­bera” come i “Cavalli di Maremma”, ca­pace di uscire vit­to­riosa dal “viluppo intricato” in cui ci avvolge e co­stringe la vita, trasformandoci, spesso, in “tronchi morti” alla de­riva, se non sappiamo scoprire e cogliere a tempo il senso che la vita stessa impone ai nostri giorni. La generale delicatezza espressiva di questa silloge che Pina Scotti dedica ai “suoi ambienti” è minata comunque da sottili con­tra­sti, ver­bali (alcune ardue scelte lessicali) e psi­cologici insieme: amore e morte, vita e mor­te. C’è la pre­senza inquieta della deca­denza, del di­sfarsi del­la materia al suo interno, proprio quando la si vede più viva e vitale, come si avverte la caduta, la fine di un senti­mento nel quale pure si è riposta ogni fidu­cia. Anche la lingua, il fluido eloquio (libertà in fieri), con l’uso abba­stanza frequente del participio, de­no­ta il tenta­tivo/desiderio di non perdere contatto con il reale quoti­dia­no, alla cui concretezza si affida la paura di non saper essere presente, di non avere abba­stanza forza per agire – o reagire, come lo schiaffo continuo della vita richiede. Al­meno se il poeta non si fa vittima della sua penna, se una donna – ed è il caso di queste poesie – sappia come leggere se stessa nei suoi spa­zi, nel mondo che vive e fa suo (paziente raccolta di carto­line), e sappia quindi rimanere padrona di sé in quegli spazi, oltre il tempo, ma non certo rimanendo ‘ancorata’ (come “la nave di Ulisse”) al ‘sogno eter­no’… [1991]

***

Giuseppina Scotti, I porti dell’anima, Edizioni Eva

Non l’ha fatto a caso, Giuseppina Scotti (niente succede per caso, in poesia), non ha costruito a caso questa esile raccolta di testi, dando ad essi, a tutti, un titolo morfologicamente equivalente e disponendoli nell’ordine alfabetico, appunto, dei titoli… Ora possiamo chiederci perché e cercare una chiave logica, oppure seguire il percorso poetico che la poetessa ci offre, facendoci semplicemente guidare sulla strada che ha scelto di percorrere alla ricerca – sembra – di una sua “verità” (ed è il titolo dell’ultimo testo). Una verità che potrebbe poi essere condivisibile, certo, ma è e deve restare la sua proposta, il suo gioco esistenziale. Manca però la “bontà”, all’inizio, che avrebbe degnamente aperto la silloge – e chi conosce l’autrice, la sua disponibilità e la sua dedizione al mondo dell’arte, sa che è una delle sue più vive qualità. Come lo è del poeta che, se non è buono, non sa darsi, e la poesia è dono. Si leggono, navigando per questi porti dell’anima, strani accostamenti e addirittura illuminanti coppie di titoli (tanto per rimanere ad esaminare la struttura dell’esile libro, comunque denso, malgrado la scarna offerta): sarà sempre un caso che ci siano affiancate “Felicità” e “Fragilità”, “Incredulità” e “Irrealtà”, “Vacuità” e “Verità”? Dobbiamo pensare che per caso l’iniziale “Complessità” vada a sfociare nella “Verità” finale? Conoscere Giuseppina Scotti da tanto tempo e ritrovarla, ri-conoscerla in queste poesie, è il sigillo della certezza che non muta verso: con lei si va dritti al cuore, sempre, in un abbraccio di freschezza e bellezza, poiché bella e fresca è sempre la sua maniera di esprimersi. I porti dell’anima sono quelli in cui la vita ci sospinge, a volte facendoci sbattere sul molo, incauti o distratti, a volte fortunati se ci attende un amico o un’anima buona con una lanterna nella notte buia…  Un “ciottolo lanciato a perdersi nel vuoto” è l’avventura del vivere (in “Felicità”), un dado che non smette di volteggiare facendoci ansiosi di conoscere il verdetto: la poesia scruta oltre il nostro sguardo quotidiano e vaga in cerca di approdi in cui rifugiarci. Il dubbio è in fondo la vita stessa (come dice Pina, in “Spiritualità”): non c’è bisogno di scomodare i filosofi, ma è proprio la capacità di farsi domande sull’esistere che ce lo rende amico, e il poeta è anche capace di darsi risposte, di vincere quel dubbio e conquistare una sua ragione, una dimensione in qualche misura soddisfacente. Se si volesse evidenziare qualche tema, le molle che spingono l’arte in versi di Giuseppina Scotti, qui troveremmo un intimo scatto, “in impeto di sentimento costruito dal nulla” (“Nullità”), verso un cielo più puro, un bene più raccolto, “in nudità d’anima immersa in pensiero divino” – per festeggiare una ricorrenza anagrafica importante (non si dice l’età di una donna, ma di un poeta sì), non si poteva fare un regalo più importante: questa silloge di versi è uno dei vertici nella produzione poetica di Pina, e va gustata augurando a lei un sereno anniversario e ai lettori di cogliere insieme a lei la tangibile manifestazione della sua generosa interpretazione dell’essere donna e poeta. [2015]

Pubbli 4

***

Giuseppina Scotti, Armonie di accordi, Ghigi

“Giuseppina Scotti sa dire con semplicità quanto urge nel suo cuore”: così era scritto in una motivazione di Giuria di un concorso letterario. Basta per essere poeta? “Ma la poesia della Scotti è una vera poesia della con­sola­zione” (si può aggiungere con le pa­role di Giuseppe Rossi Bel­lin­campi in premessa a Quando l’anima sospira, la prima pubblica­zione di Giuseppina). Poesia della consolazione è un’espressione feli­ce­mente ambi­valente: Pina consola e si consola, nella poesia, soprattutto ne ha avuto il conforto che non sempre altrimenti la vita le ha dato. Per­ciò, sia pure con ritmo ral­lentato rispetto ai primi anni della sua car­riera letteraria, continua a scrivere ed a pub­blicare – otto libri di versi in sedici anni sono comunque una buona media, tenuto anche conto che la Scotti non firma soltanto testi poetici, ma si occupa di saggistica storica e critica d’arte. Colori di paesaggi, dunque, e calore di momenti strappati al tempo con sofferta cu­pidi­gia: sono i temi dominanti della sua poetica, fedele ad una sua cifra espressiva che rare incri­nature permette di scorgere ma non è priva di  cuspidi dolo­ro­se. Poco preoccupandosi degli “schemi” che pure certo conosce, ha cercato di non uscire dal suo schema di vita, una serena, saggia accet­tazione dell’ora fuggente, che le ha con­sentito di non perdere la vena madre malgrado i problemi esisten­ziali a lungo abbiano inquinato (ma non corrotto) la freschezza ori­ginale: quell’ieri che si vorrebbe rivivere per viverlo me­glio, come avrebbe meritato. Perciò il rifugiarsi continuo nei paesaggi amati, luoghi del presente e luoghi della memoria, ma tutti ugualmente ac­carezzati con lo sguardo di mamma bambina che le è rimasto, in qualche modo ‘fanciullina’ (se si vuole scomodare Pascoli) e ‘crepu­scolare’, anche, malgrado certi scatti addirittura surrealisti, nella sua versificazione più recente. Ci sono testi, in Armonia di accordi,  che esplicitano con immediata chiarezza la posi­zione (di) poetica dell’autrice, un piccolo vademecum personale che si offre però a chiunque abbia ben tese le orecchie del cuore al cuore del poeta, perché sol­tanto se lievita parole, la poesia è pane, è nu­trimento a chi sa come cibarsene. Fuor di meta­fora, non dovrebbe essere difficile uscire da certe metafore – perché siamo tutti un po’ custodi del nostro museo ideale, al tempo stesso siamo il reperto e la teca in cui questo si conserva – fuor di metafora l’arte è paga di sé,  il poeta è contento di esserlo e in quanto tale di offrirsi, anche soffrendo, a chi paziente si offre, anche soffrendo, all’analisi  che in sintonia di sen­timenti il poeta compie di sé e dell’altro, in accordo continuo. Qui la parola è sofferenza, spina irosa  e graffio nella carne della pagina, che si fa campo vergine in cui incidere il se­gno passeggero (da non per­dere!) dell’esistenza, della propria esistenza e dell’altrui che insieme (in armonia di accordi!) si fa propria, quasi per esorcizzarne il male che l’attanaglia – e il poeta è ancora “sacerdote a dio crudele”, mai sazio del sacrificio di sé, perché spesso è l’altro che riesce a liberarsi mercé il sacrificio dell’artista, il quale da parte sua, quasi sempre, si dona, vittima consa­pevole di una salvazione che non sempre lo ri­guarda [1993].

 

***

Anna Luce Sicurezza, La sala Antonio Sicurezza nel palazzo municipale di Formia, Palombi

Un cognome pesante prima o poi spinge a compiere azioni di rilievo, come a scaricarsi di una ingombrante eredità – figli o nipoti, presto o tardi provano a percorrere strade già percorse… Anna Luce Sicurezza ha il cognome del nonno pittore, ed è anche docente universitaria, oltre che studiosa di arte rinascimentale. Era quasi inevitabile che toccasse a lei scrivere questo libro, curando così la conoscenza di uno dei posti più belli del sudpontino, senz’altro il più bel locale pubblico dell’edificio comunale formiano. Antonio Sicurezza lo conobbi e posso dire di aver goduto della sua stima (e conservo con la sua firma il più bel ritratto che mi sia stato fatto) – era amico di famiglia ed ero di casa a casa sua. La sala a lui dedicata nel palazzo municipale di Formia raccoglie una ventina di quadri tra i più belli della sua produzione: scorci formiani, nature morte, uno tra i nudi più significativi, volti espressivi di giovani e vecchi. Di tutte le opere Anna Luce dà conto in maniera critica, senza però abusare di stilemi accademici. La fresca vena coloristica del nonno, la sua immediatezza descrittiva (frutto di studio severissimo) si può anzi dire che sia trasfusa nel linguaggio sciolto e comprensibile della nipote (segno di accurata competenza e insieme di rispetto per il lettore). Se ci sarà un museo comunale a Formia e sarà intitolato a Antonio Sicurezza, questo piccolo ma importante libro di sua nipote Anna Luce ne sarà stato il fonte battesimale.

***

Martina Silvestri Quello che resta Volturnia

 Le ingenuità, qualche caduta di tono in un libro così articolato come Quello che resta, sono giustificabili, certo comprensibili, tenendo conto della giovane età, dell’inesperienza – deve ancora farsi furba, Martina, e diventare più scaltra. Un artista cresce se ha dentro la spinta necessaria, la voglia per superare la naturale inclinazione a contentarsi. L’augurio che si può fare ad un’esordiente è quello di crederci ancora, di crederci di più, crederci sempre. E rischiare, ovviamente, anche le banalità e le eccessive semplificazioni, ma provare continuamente a migliorarsi. Mai contentarsi di un risultato se può essere elevato il traguardo raggiunto. Avanti, dunque, e – parafrasando Manzoni all’incontrario – senza giudizio, poiché a volte nell’arte anche il giudizio è pericoloso, nonché inutile. Serve a cominciare un’impresa, non sempre aiuta a terminarla. E questo la giovanissima autrice di Quello che resta mostra di saperlo, se ogni tanto si abbandona a qualche libertà di forma, lieve azzardo espressivo, insomma lo sa come si può scrivere liberandosi dagli schemi – osando di più, raggiungerà più adeguati livelli poetici. Intanto, come si direbbe a scuola, deve impegnarsi a fondo, deve applicarsi allo studio, e avrà senz’altro alla sua portata l’obiettivo che già intravede. Questa tiratina da professore non le deve suonare come un rimprovero, poiché invece intende convincerla – più che incoraggiarla (il coraggio mostra già di averlo a sufficienza, se non altro per aver deciso di pubblicare addirittura un libro alla sua età, un libro complesso nella struttura e nei temi proposti). Il brutto di chi comincia, nel campo della poesia, è che si stanca subito; è un peccato: chi comprende di potercela fare ha, direi, il dovere di farcela. Verso se stesso, prima di tutto (anche per non sprecare i doni naturali e le forze impiegate), ma pure nei confronti dei lettori ai quali ha scelto di confessare la propria esistenza in forma poetica. Quello che resta, in questo libro, per fortuna è la sensazione di una brava ragazza capace di inventare e dare forma ai suoi sogni, di una studentessa che ha fatto tesoro dei suoi studi (e auguri per quelli che farà): Martina Silvestri infine ha davanti una strada per la quale ha deciso consapevolmente di avviarsi – possiamo aiutarla a capire che ce la può fare, possiamo testimoniarle già la nostra complicità di lettori. E però la dobbiamo mettere in guardia dai facili entusiasmi, qualora le dovessero venire; la dobbiamo avvisare che ogni svolta di strada è in agguato la delusione – soprattutto per la mancata risposta di coloro ai quali vuole rivolgersi. [2007]

***

Grazia Sotis, Letture comparate, Caramanica

Saggi sparsi e messi insieme seguendo un filo tematico che li tenga in un progetto unitario di ricerca – queste Letture comparate di Grazia Sotis (editore Caramanica, collana “Messaffuoco”) sono comunque un affascinante rompicapo. La professoressa della Loyola University esibisce tutta una serie di conoscenze e competenze nel campo, il suo campo di attività critica essendo appunto quello della letteratura comparata – e costringe, nelle sue ardite peregrinazioni che spaziano in due secoli di letteratura, a fare davvero i salti mortali (è un ossimoro: sono salti che danno la vita) fra i più diversi problemi di ermeneutica – infine, scopre la poesia come viaggio nel cuore del mondo, alla scoperta di sé. Le Letture comparate in questo libro (solo una parte, sottolinea l’autrice, della sua vasta opera critica) sono undici: più articolate quelle dedicate a “Soluzioni iconiche nelle due traduzioni italiane di Leaves of grass di Walt Whitman” (di Gamberale del 1907 e di Giachino del 1950); “La poesia del colore nel Purgatorio di Dante”; “Horcynus Orca e Moby Dick ovvero La lotta con Proteo” (attraverso Bonaviri, Cambon, Petronio, Vittorini); “Montale traduttore e interprete del Billy Budd di Melville”. Più sintetiche ma non meno intense e partecipi sono “Gioco come improvvisazione ne Il gatto con gli stivali e Sei personaggi in cerca d’autore: un’ipotesi” (uno stimolante confronto Tieck / Pirandello: “Ma che gioco! qui si recita sul serio”…); “Computer e letteratura” (sull’uso dell’informatica nell’analisi dei testi); “Il muro di Gutemberg” (un libro di Cassieri); “Flaminio Di Biagi: Sotto l’arco di Tito, le Farfalle di Gozzano” (sul ruolo sociale della poesia gozzaniana, illuminante pure sulla posizione della stessa Sotis: in queste Letture, infatti, lei dichiara amori e comunioni spirituali con tutti gli autori analizzati); “La funzione della parola nella poesia di Pasquale Maffeo: Diciture” (e Maffeo è il curatore della collana Messaffuoco, al quale peraltro è dedicato il primo numero della collana stessa: Maffeo. Itinerari di ricerca di Giuseppe Napolitano). Completano l’indice del libro: “Il suicidio di Saffo trattato da Grillparzer, Leopardi e Pavese” e “Il Mitomodernismo: Aurora Borealis di Massimo Maggiari”. In questo diario di viaggio in Alaska (simbolo di un primitivismo da riscoprire in sé) la poesia è “invocazione” e “preghiera; le parole nascono come bolle nella mente del poeta, pronte ad esplodere in un sentimento di paura e di sbigottimento” – qui emerge l’orfismo del poeta cosmopolita (risente di Montale e Whitman, degli Inuit e di Emily Dickinson): il poeta esploratore di terre incognite, che siamo noi nel nostro nasconderci a noi stessi, e “la poesia è un dono fatto al mondo”, affinché ci si possa riconoscere.

Sotis.jpg

 ***

Pier Giacomo Sottoriva I 50 anni della via Flacca, Regione Lazio

Un libro monumento per un monumento alla storia. Il ponderoso tomo (360 pagine) che la Provincia di Latina e l’APT della stessa provincia hanno pubblicato per ricordare l’avvenimento è di quelli che non solo arricchiscono una biblioteca, ma danno senso alla vita di chi lo legge, poiché consente di rievocare i tempi ancora non troppo lontani che nel libro stesso vengono celebrati. Si tratta del volume La Via Litoranea Flacca 1958-2008, curato dal Direttore dell’APT di Latina, Pier Giacomo Sottoriva con i significativi contributi di Baldo Conticello e Nicoletta Cassieri. La via Flacca – voluta fortemente, subito dopo la II Guerra mondiale, dal giovane sindaco di Gaeta Pasquale Corbo per rompere l’isolamento dell’ormai ex città fortezza – collegò Terracina a Formia, attraverso Sperlonga e Gaeta, lungo una direttrice Roma-Napoli alternativa alla Via Appia (rimasta poi in effetti incompleta, malgrado il mezzo secolo trascorso). L’avvenimento è dunque la ricorrenza del 50° anniversario dall’apertura della Flacca. La Provincia considera da sempre questa strada  un suo fiore all’occhiello, e con particolare favore ha accolto l’idea di Sottoriva di ricordare quel febbraio del ’58 con la stampa di un volume che raccontasse l’antefatto, le questioni politiche e burocratiche, i sette anni di lavori e i notevoli eventi artistici collaterali che videro balzare Sperlonga agli onori della cronaca internazionale. Proprio allora infatti ci fu la scoperta (nel settembre del ’57 poco lontano dal centro abitato) della cosiddetta Villa di Tiberio con l’annessa grotta con piscina, nella quale si trovarono i resti dell’imponente gruppo marmoreo di Ulisse e Polifemo. A raccontare queste ultime vicende, dettagliatamente e con molta emozione, è il soprintendente archeologico dell’epoca, Conticello. La attuale direttrice del Museo di Sperlonga, Nicoletta Cassieri, fa infine la “Storia di una strada litoranea e di un parco archeologico perduto” (quello che si sarebbe dovuto istituire a Formia): è il resoconto di un fallimento politico che è pure una perdita incalcolabile dal punto di vista artistico.

***

Antonella Sozio, Il sole e l’azzurro, Edizioni Eva

Il tuo visino dissipa ogni nebbia… Si potrebbe assumere questo dolcissimo verso come esergo, e farne insieme la chiave d’ingresso nel libro e nell’animo dell’autrice. Antonella Sozio è felicemente nonna e scrive per il nipotino Lorenzo poesie d’amore senza ritegno, senza paura di esporre i sentimenti – vive nella sua poesia una storia intensa (ancor più intensa perché il piccolo Lorenzo vive dall’altra parte dell’Oceano e ancora più lontano), una storia fatta di momenti assaporati nel farsi parola e condivisi pertanto per fare innamorare anche il lettore dell’oggetto del suo amore.  Opera (quasi) prima, di suggestioni forti, Il sole e l’azzurro, questo regalo che da nonna a nipote segna l’ingresso nel mondo della carta stampata e vuole quindi rimanere come testimonianza non occasionale. La poetessa venafrana – finora apparsa in riviste o in pubblicazioni collettive, dopo un libretto poco più che giovanile – ha deciso di esordire nelle sue vesti che più riconosce sue. Il libro che ci presenta ha una propria completezza, anche se raccoglie i testi senza un ordine apparente: il filo conduttore è il desiderio di comunicare a Lorenzo quanto profondo sia il potere della sua presenza nel mondo – per ora quello degli affetti familiari, augurandogli certo di essere presenza viva nel mondo che lo accoglierà tra non molto, e addirittura (in un apotropaico rovesciamento di ruolo) lo farà artefice di una nuova dimensione esistenziale per gli stessi autori della sua esistenza: sarò messe solo se tu sarai seme. E si può chiudere questa nota di presentazione con un’altra citazione esemplare, che è un’altra ancora di salvezza, e una subliminale dichiarazione d’amore (e ce ne sono diverse nel piccolo libro che Jason Forbus ha tradotto con affetto paterno oltre che con la sensibilità poetica nota a chi conosce la sua poesia): mia luce sempre in fondo al pozzo dei giorni.

***

Giuseppe Spinillo I tempi del bradipo

Cominciamo a ragionare e contrario (ma per costruire un percorso di lettura da condividere) non certo per fare critica gratuita… Cominciamo col dire (poiché parliamo di un libro di poesia va detto) che la scansione dei versi va un po’ per conto suo, ma nel complesso funziona e quindi la sua logica c’è… come c’è la consistenza tematica, come c’è la rabbia del dire, che una volta – sosteneva Giovenale – faceva il verso. Certe congiunzioni e preposizioni e articoli impiccati a fine verso certe volte – se proprio non sono artifici necessari – lasciano un po’ perplessi. Magari a lui serve fare così – o non gliene importa (comunque importa poco se c’è un testo che vale – e qui i testi hanno valore). Con questa premessa un po’ tortuosa, entriamo nei Tempi del bradipo di Giuseppe Spinillo e leggiamo che sono definiti “appunti di viaggio”: la poesia è sempre un viaggio, più spesso in se stessi o verso se stessi; a volte fuori o in cerca di… di chi c’è, o persino di sé, di quel sé che dentro non c’era! Altra premessa tortuosa, non se ne esce: è che il viaggio della poesia, o nella poesia, è così, è proprio – come dicevano i Beatles – a long and winding road…  D’altra parte, un libro che ha un titolo così poco invitante, nel senso che allude a tempi lenti, va letto con lentezza, va gustato con successive approssimazioni… prende il suo tempo (e lo merita, poiché vi sono parecchie poesie che invitano all’approccio, col quel loro ritmo da canzone scanzonata). La prima poesia della raccolta di Spinillo ha un titolo (e un inizio) vagamente beffardo, se non deve considerarsi tautologico o almeno provocatorio: è ovvio che “la poesia resta sempre la stessa”, cosa potrebbe o dovrebbe diventare. Ma se si avverte il bisogno di dirlo, di sottolinearlo, di ricordarlo, un motivo senz’altro c’è ed è evidente nel testo stesso, che è un elenco di funzioni che la poesia ha (o si pensa che abbia o si suppone che posa avere) “genuina e verace, mai sazia e mai fino in fondo capace…”; “non la puoi abbandonare come un cane fedele lei torna…”. A proposito di scansione, qui il ritmo sa di rap, di ballata scattosa, e forse è quello giusto, dato il tono ironico del contenuto. Ancora una volta si vorrebbe contestare il titolo del libro: un bradipo ha il senso dell’umorismo? Beh, il simpaticissimo Sid, protagonista dell’Era glaciale, sì, ce l’ha… I quattro testi che seguono quello proemiale, dedicati ai quattro elementi, sviluppano il concetto iniziale: la poesia è se stessa, ma lo è anche se cambia stile o stato, o modo di esprimersi, addirittura se cambia destinatario: valga ad esempio almeno la prima: “Del fuoco”. Gli “spiriti liberi” del testo successivo sono gli amici del poeta (e si chiude questa specie di prologo anche se non è segnato come tale), spiriti liberi sono i dedicatari ideali di un libro di poesia, quelli “che non prendono né danno lezione…” perché il poeta ama quelli che non sanno “vivere senza creare”, quelli che lanciano messaggi alle stelle, ai gabbiani… Infine, “Infiniti ritorni”, che è uno dei testi fondamentali di questo libro, perché (paradosso/ossimoro del titolo) dà misura – ancora – di un viaggio che è un ritorno senza partenza, come appunto è la poesia (lo scrisse anche Caproni, una volta): continuamente rientriamo in noi, a scoprire che stavamo là, illusi di aver conosciuto il mondo che era solo il nostro specchio.

***

Rossella Tempesta, Passaggi di amore, Edizioni della Meridiana 

Ha dovuto aspettare un anno, la vincitrice del Premio”Penna” 2006 per l’inedito, ma l’attesa valeva il bel volumetto che le è stato pubblicato dalle Edizioni della Meridiana con la prefazione di Elio Pecora. Passaggi di amore è uscito nella collana “tutt’altro” diretta da Andrea Ulivi e Walter Rossi. Quarantenne pugliese ma ormai napoletana per famiglia e lavoro, Rossella Tempesta non è alla prima prova edita e ha pure diverse frequentazioni di riviste e associazioni culturali. Si è fatta conoscere e conosce molto bene l’ambiente. Continua a lavorare come dovesse dimostrare di saperlo fare, non ancora contenta dei risultati, degli esiti raggiunti. Questa plaquette di una trentina di testi (articolati in quattro sezioni, la più ampia quella che dà il titolo al libro) definisce alcune caratteristiche evidenti nel suo fare poesia. Temi e stilemi si affermano netti e dichiarati come per meglio imprimersi nel lettore, chiamato a partecipare alla formazione di una esistenza riletta e trasmessa oltre il reale farsi quotidiano. L’equazione vita-poesia qui è risolta: la vita, nei suoi frammenti, nei suoi episodi, con le sue presenze, con i sentimenti che tutto muovono, qui si fa verso e strofa, qui è tessuto da dipanare con accortezza da parte di un lettore consapevole. La lingua usa un registro alto, anche difficile, a volte, eppure la tessitura è di facile approccio, la secchezza di certi versi è riscattata dall’armonia del verso successivo. Rossella Tempesta, disposta, dice, a “sperdermi persino, ma non a seppellirmi nella tua assenza…”, ha bisogno di “gratitudine e passione” e sa di meritare l’attenzione che chiede; ha fotografato, filmato la sua vita e “quasi ferma, o in un rallenty” adesso la sviluppa per i nostri occhi, perché possiamo ripercorrerla con lei. Ecco, sono questi i “passaggi di amore” che ci offre: non sarebbe giusto negarle, con la nostra confidenza, la “faccia allegra” della nostra comprensione.

***

Rossella Tempesta, Libro domestico, Ghenomena

Rivolgersi alle donne, per affermare una esigenza di nuova pulizia, di nuova etica, forse, nella quale appunto le donne parrebbero meglio disposte. Quella sperata è una sorta di ecologia della mente, perché una generazione migliore sappia discernere le ragioni della ragione – si direbbe una ratio fondata sulla parola, sulla necessaria nuova comunicazione verbale, sulla comunione spirituale che la parola consente soltanto fra persone libere, fra persone consapevoli di un ruolo, quello dell’uomo che non sia succube del suo mondo. Anche se – ma è detto con malcelata retorica e contrario – “se rinasco… chiedo d’essere… qualunque cosa tranne l’uomo”. La tentazione è forte, rabbiosa: cedere alla natura e “trovare tutte campagne, un mattino” – un sogno, certo, ma quanto sarebbe bello, ogni tanto, sognare davvero e svegliarsi in una dimensione nuova, fantastica perché paradossalmente terrena, lontano da qui…La poesia di Rossella Tempesta è in questa sua spirale di sentimenti che si avviluppano spesso su se stessi senza scorgere sembra sentieri più semplici a percorrersi, eppure necessari da percorrere, quasi a doversi (o volersi, chissà?) purificare dalla stessa natura femminile, che non sempre è accettata né – come pur dovrebbe essere – considerata bella in sé e per gli altri. Il dettato lirico risente all’apparenza inguaribilmente di questa precarietà, ma in realtà riscatta nella parola tutta la difficoltà di esistere connaturata e acquisita. Nella poesia di Rossella vivono al tempo stesso due esigenze contrapposte: quella della donna, che mal sopporta una condizione umana in generale e femminile in particolare difficile da gestire in un’epoca come la nostra artefatta e spesso squallidamente esibizionistica, e quella della poetessa consapevole del ruolo in qualche modo salvifico o almeno propositivo della parola scritta, del messaggio poetico. Un poeta donna ha il compito, forse il dovere, appunto, un’esigenza di nuova etica, di chiamare a raccolta gli spiriti migliori, e tra di essi certamente le donne in maggioranza – se sapranno evitare (loro!) le sirene ammaliatrici di una società fondata sull’apparenza – affinché si (ri)costruisca un’ipotesi di alternativa alle menzogne e alle illusorie prospettive cui dobbiamo riconoscere oggi, il più delle volte, la forza, la capacità del convincimento. “Un volo pazzesco”, ci attende, a voler uscire dalle ambasce del quotidiano, diretti oltre la siepe finalmente superabile di slancio, quando fossimo pronti, e convinti, “con un po’ di coraggio”, a cercare di là “un’altra anima, e dire basta a questa sofferenza”, riappropriandoci del meglio che siamo: la nostra innegabile dimensione divina. Sì, ancora “si può sperare una resurrezione” (poiché la “rivoluzione” del titolo è solo spirituale, intellettuale), se ci rende conto che “l’amore era la scelta”, la più giusta, la più umana che ci avvicina all’indescrivibile dentro di noi. E allora, “la parola – il nostro marchio deriso – la parola invada a fiumi le strade, la parola parli della ragione”.

 ***

Andrea Temporelli, Il cielo di Marte, Einaudi

Esordire nella “bianca” di Einaudi, per un giovane (sia pure “un giovane poeta che si colloca all’incrocio fra diverse scritture” – come viene seccamente presentato Andrea Temporelli), è un viatico senz’altro lusinghiero, non da tutti, peraltro, e già questo è un traguardo. Il cielo di Marte è un piccolo libro – trenta poesie – denso di umori letterari e di attenzioni prosastiche, fitto di allusioni colte e insieme aperto al colloquiale, in una tessitura elastica, nella misura del verso e nella struttura della stanza che sono di tradizione italiana. Ci sono slanci di notevole impatto lirico: “gioia che non sarai se non ne muori” è uno dei versi più belli – chiaro e disperato, lucido nel presagire, armonioso nell’ossimoro. Il tempo in questo “cielo” è avvertito malinconicamente: “tutti i libri lasciati a stagionare/ in soffitta, scommetti/ che a rileggerli adesso rideresti/ per tutto quel viaggiare senza meta?” – sì, è facile anche ridere del passato, ma subito dopo si avverte che “è la distanza che insegna a carpire/ la luce delle cose…”. Forte è la consapevolezza di essere/esistere nel mutamento, anche se “non riusciamo a comprendere il viaggio/ senza fine delle cose già viste/ e nominate appena”. In un giro di versi che è spesso un avvitarsi di situazioni, Temporelli propone di solito un poemetto riflessivo più che narrativo: prevalgono stilemi di tipo etico, moralistici quasi, o ironici nel farsi pedagogici. Giovane, ma sa il fatto suo questo poeta che, mentre avverte il fastidio di convivere con “i potenti del mondo”, non ha paura di esclamare: “Talvolta questo accade, certo, e tu/ non ne hai né colpa né/ merito. Accade questo, ogni giorno”. Terribile conclusione minimalista ma solo per finta: dietro (o davanti) c’è tutta l’aria di saperla lunga – c’è il sorriso compiaciuto di chi ha già la presunzione di aver capito tutto. E si permette di giocare anche con “dio”.

***

Francesco P. Tanzj, Un paradiso triste, Tracce

Il vecchio Cuore (il libro, intendo) non batte più. Nemmeno la vecchia scuola c’è più – forse ci sono rimasti professori vecchi, ai quali non importa più tanto la formazione del cittadino colto (come si diceva una volta) e però rimangono lì dentro poiché fuori, dopo, non si riconoscerebbero, non avrebbero quel minimo di etichetta che pure li soddisfa. Francesco Tanzj, come il suo alter ego, il professor Ferri protagonista di Un paradiso triste, è uno che ancora crede di poter dare qualcosa alla scuola, e ci rimane volentieri, ma qualcosa vorrebbe cambiarla anche lui, o non avrebbe scritto un libro come questo (e già il titolo ossimoro la dice lunga sulle sue intenzioni e sulle aspettative dello scrittore che è in lui). Tanzj scrive di scuola come uno che ci sta dentro e tira anche noi dentro quello che scrive, non soltanto perché sa scrivere, ma appunto perché ci fa credere che quello che scrive è vero e può succedere anche a noi. In copertina la nota editoriale afferma che “Paradiso triste [chissà perché senza l’articolo] è lo spaccato spontaneo e non mediato [mi pare ripetitivo] di un microcosmo che tutti noi attraversiamo o abbiamo attraversato almeno una volta nella vita”. Ecco, sta tutta qui la differenza tra lo scrivere sulla scuola o nella scuola: chi ci è passato una volta, scrive di/sulla scuola con la sua distinta preparazione specifica e scrive un trattato comunque degno di attenzione; un professore ci sta dentro, ci vive a lungo, gli capita anche una volta l’anno una storia come quella che Tanzj racconta in questo suo Paradiso, e quindi scrive di/nella scuola con impegno che è partecipazione e comunicazione di sentimenti. Un paradiso triste ha diverse chiavi e spie di lettura: innanzi tutto, proprio il titolo, che torna in una espressione, “tristemente dolce-mente soli”, nella quale si ribalta in un chia-smo che è anch’esso un ossimoro. Eliminando infatti i termini omologhi della proporzione, si ha che il paradiso è essere dolcemente soli, cioè una dimensione privata e appagante in quanto tale. Il desiderio di solitudine nasce poi come reazione all’opprimente mondo di relazioni che ci costringe ad avere sempre una maschera di circostanza – uscire, cioè svoltare in altre dimensioni esistenziali, cioè de-vertere, alla latina, è quello che il filosofo Pascal, uno dei più citati nel libro, chiamava divertissement. Il racconto di Un paradiso triste è condotto a tre voci: ci sono tre personaggi che lo fanno in prima persona, a loro volta raccontando cose successe anche agli altri negli incontri, più o meno casuali, che animano improvvisamente la vicenda. Questa ha dunque tre stili, tre toni, tre registri espressivi, a seconda dell’io nar-rante (il tono di Giulio, però, sale nell’evol-versi della sua narrazione, mentre il ragazzo fa esperienza di vita e si confronta col suo mondo). I protagonisti sono il professore di filosofia di un liceo romano, il suo alunno Giulio De Santis, giovinetto in crisi di crescita, di identità, di sentimenti e sua madre Gabriella, insoddisfatta ex-sessantottina sposata ad un altro perdente come lei. Il nucleo della storia, molto compatta, si srotola in pochissimi giorni intorno a un episodio grave ma determinante per la formazione o la riconsi-derazione del carattere dei tre personaggi. È significativo che Tanzj, ormai molisano, abbia scelto Roma, sua città natale, come scenografia: una grande città nella quale più si avvertono e si manifestano i contrasti generazionali e le crisi ideologiche dei nostri tempi.

 ***

Tanzj

Francesco P. Tanzj L’oceano ingordo dei pensieri, Tracce

Francesco Tanzj è poeta di occasioni. Lo dice anche lui, scrivendolo come sottotitolo (“Poesia d’occasione”) dell’Ode al mare e ai poeti vaganti (scritta fra Agnone e le Tremiti in occasione del primo viaggio della “nave dei poeti”, nel 2006 – ed è l’ultima poesia di questa raccolta: già sei anni senza versi, ma siamo abituati ad attendere a lungo i suoi scritti). È poeta di occasioni, di grandi occasioni che lo convincano della necessità di raccontarle, di confessarle, di gridarle ad alta voce a qualcuno che possa, voglia, sappia ascoltare e partecipare. Ecco perciò comparire “Bye bye Allen”, “Genova 2001”, e chiedersi, nel “Resoconto” del 2008 (forse l’ultimo testo scritto in poesia da Francesco): “La bellezza: potrà salvarci una volta ancora? Forse, ma la gente, per lo più non ha molto tempo per scrivere poesie”… Ecco perché bisogna alzare la voce. “Ad alta voce” si intitola infatti il dvd che contiene “poesia, musica ed altro”: è così che Francesco scrive, quando la parola lo raggiunge e chiede con forza di essere comunicata. È così che la sua poesia si esprime, alta nei toni, decisa nelle espressioni. Non è intimista, non è colloquiale, ma cerca ascoltatori che abbiano orecchie per intendere… Ai quali parlare anche d’amore, e di fantasie perdute, ma non in cerca di consolazione, piuttosto in una dialettica intesa che faccia scaturire una volontà nuova di andare avanti, magari dopo il meritato riposo, ogni tanto, dopo uno sforzo prolungato, quando ci si vorrebbe concedere al sonno (“I’m only sleeping”, e lo scriveva vent’anni fa!), e “dormire superando d’un balzo giorni e stagioni / per quest’opaca cerebrale ossessione d’esser solo / sognando sensazioni antiche”… La postfazione di de Jorio è un grande affresco, una lettura puntuale dei libri di Francesco, della sua poesia, criticamente affettuosa poiché vi si cerca non il pelo nell’uovo ma la quadratura del cerchio – e la si trova! come solo un amico può fare, seriamente ma non senza un briciolo di umana partecipe emozione. È sorprendente, visto che dura da quarant’anni, la sostanziale omogeneità espressiva (che è sintesi di sentimento e tecnica) – o bisogna pensare che da questa raccolta siano state espunte le poesie diverse, non rispondenti cioè al canone interiore cui l’autore si è votato e cui rimane fedele. Ma è da pensare, invece, che Francesco Paolo sia proprio quello che era, un convinto pensatore che scrive in versi, una specie di filosofo poetante (non è stato definito così anche Leopardi?). Ciò non è detto per sminuire il valore della sua poesia, per togliere slancio al lirismo che pure in certi momenti connota il suo dirsi e lo spinge a vestirsi di forme più elevate, rarefatte. Prevale comunque la scrittura densa, la struttura vasta, la versificazione a strati, l’esposizione articolata e sinuosa che si fa spesso assertiva più che propositiva, tipica del temperamento, dell’intento pedagogico al quale l’autore sembra non sappia rinunciare, non vuole, non può.

 ***

Fernando e Walter Tommasino, Grammatica del dialetto della zona aurunca , Caramanica

Si sa che un libro va letto con gli occhi della mente – specie se ne va fatta un’analisi che servirà poi ad altri come chiave di approccio e di lettura – non bisogna partecipare commozione ma suggerire percorsi logici. Eppure questa Grammatica ha tanto cuore dentro che sarebbe impossibile (per uno che dalla zona aurunca è stato generato, e da lì ha imparato anche buona parte di quello che sa, di quello che è) fingere il distacco dell’accademico e limitarsi ad esporre giudizi convenzionali. Fernando e Walter Tommasino, d’altronde, hanno farcito anch’essi il loro lavoro di ricerca storico-linguistica non soltanto della propria competenza professionale (studiosi entrambi ed operatori sul campo) ma pure di una sottile complicità paesana. La dedica “a nostro padre che ci ha lasciato in eredità l’amore per la nostra terra”  può intendersi come testimonianza di affetto per il genitore e pure per la terra genitrice. È innegabile da parte loro la partecipazione e la delicatezza nel trattare l’argomento, pur nella misura encomiabile e con l’evidente bravura della conoscenza a lungo messa alla prova. Il saggio è articolato in maniera “scolastica”: fonologia, morfologia, sintassi (e un utilissimo indice di ricerca), per consentire un approccio disciplinato alla materia trattata, con numerosi esempi e confronti lessicali e strutturali. In definitiva, il dialetto della zona aurunca viene presentato a coloro che non lo conoscono o non lo praticano perché ne colgano i legami con altri dialetti e “con lingue precedenti stratificatesi in vario modo nella parlata popolare”; anche a coloro che almeno dovrebbero conoscere il dialetto di Sessa Aurunca e della sua regione, questa Grammatica offre un momento di accurata riflessione in un approfondimento cognitivo. Nella “Introduzione” firmata da entrambi – insieme alla cospicua mole di fonti utilizzate, da quelle storiche e sistematiche di chiara fama (più per una sistemazione metodologica), fino a quelle orali della tradizione locale –, gli autori dichiarano con semplicità che “questo nostro lavoro, frutto dell’amore che ci lega alla nostra terra, si propone come un inizio, non privo di limiti, che potranno essere eliminati da altri più esperti e più competenti di noi”. Non è un augurio: è un incitamento, e una sfida.

 ***

Roberto Tortora, Tutta la luce del giorno, Robin

Tortora

Bisogna piangere la perdita di uno scrittore come Roberto Tortora, che aveva appena festeggiato i cinquant’anni col suo primo romanzo, Tutta la luce del giorno, poiché la prematura scomparsa ci priverà del bene di leggerlo ancora. Tortora aveva già pubblicato un libro di racconti, Quattro quadri per una spiaggia d’inverno (Manni, 2009), accolto con molto favore, e un altro racconto in un’antologia, ma Tutta la luce del giorno è un’opera significativa, lavoro di consapevole maturità. L’autore di un romanzo simile, corposo ma non pesante, fluido pur nella complessità dell’intreccio, dimostra sicura competenza dei mezzi espressivi, elegante capacità di eloquio, curato nei dettagli linguistici. Tortora è peraltro abilissimo nel gioco ad incastro in cui si sviluppano le vicende narrate – discesa all’inferno con salvezza finale per una famiglia della classe media (mamma commerciante, papà professore, anzi “ricercatore” universitario, figli maschio e femmina, studenti con profonde crisi di crescita, fisiche e sentimentali, e contorno di cattive frequentazioni – questo in effetti vale anche per i genitori, comprese le crisi di identità). Tutto si svolge in un contesto – piccola città del basso Lazio dove ognuno sa di ognuno e nessuna ha visto niente, con gravi infiltrazioni malavitose – analizzato attraverso le sensazioni e le reazioni dei personaggi, i principali e quelli di contorno a far da coro non casuale. La conoscenza del mondo giovanile e la finissima indagine psicologica (Tortora era docente di scuola superiore) si accompagnano ad un’attenta lettura ambientale, per costruire un romanzo che sembra piuttosto una relazione giornalistica, e certo è un credibilissimo spaccato sociale, nel quale si fatica a non riconoscere che le “rielaborazioni letterarie” – nonostante la dichiarazione di rito – tanto somigliano alla realtà. “Tutta la luce del giorno”, quando si comincia a sbagliare strada, non basta a far chiarezza nella notte che si affronta – più o meno consapevolmente – se non si decide, in uno scatto di recuperata responsabilità, di riprendersi in mano le redini della propria esistenza.

***

Shmuel Trigano, Il terremoto di Israele, Guida

L’Europa spesso se ne sta alla finestra (chiusa) quando ha paura dei botti. Quando poi apre la finestra, le fa un po’ senso il cattivo odore che entra, e la chiude di nuovo (l’Italia in questo è un po’ meno europea – o forse di più: abituata a stare con le finestre aperte, a non averle proprio, sopporta più facilmente – e cioè con una certa indifferenza mascherata da condiscendenza – quel che altrove con più decisione si cerca di combattere evitare contenere). Da chi ci guarda da fuori, da lontano, è un’accusa, ed è chiara: bisogna con maggior fermezza prendere parte non per il debole di turno (manifestazione del vecchio pietismo post-colonialista) né per la convenienza occasionale di un amico o sedicente (o ritenuto) tale. Sono considerazioni, queste, che emergono scavando nel fitto tessuto di ricognizione storica e psicologica, morale e antropologica, di un libro che d’ora in avanti sarà senz’altro un nuovo imprescindibile rife-rimento per l’analisi della complessa questione israelo- palestinese, come lo sono del resto altri fondamentali saggi scritti dall’autore di questo libro, Il terremoto di Israele, che è pubblicato da Guida nella collana Judaica. Fin dal titolo originale in francese, si avverte la sottile provocazione linguistica e intellettuale di Shmuel Trigano (il quale prova a spiegare – come detto nel sottotitolo – la “filosofia della storia ebraica”, confidando sulla nostra paziente disponibilità, sulla nostra partecipe attenzione al tema trattato): ébranlement infatti andrebbe meglio interpretato come una causa, piuttosto che un effetto, e potrebbe essere tradotto con “trauma”, più che “terremoto”. Leggere un libro di parte aiuta almeno a capire da che parte si sta – o invita a prendere una posizione (e anche questo è un bene). Basta comprendere le ragioni di chi scrive e riconoscerne l’onestà. Un argomento come Israele non può ovviamente essere trattato in maniera asettica da un ebreo. Ci dobbiamo accontentare di seguirlo per la sua strada, facendo attenzione a dove mette i piedi: il suo è un cammino minato da due millenni e ci convie-ne essere cauti se vogliamo arrivare insieme a lui da qualche parte (la sua o la nostra)! Emerge comunque con chiarezza il quadro articolato e complesso, frammentario e per molti versi anche contraddittorio della politica israeliana, anzi della stessa società di Israele, quadro in buona parte guastato e compromesso dalle varie interpretazioni che si danno (sul piano religioso e su quello militare) del rapporto/con-flitto con gli arabi/palestinesi. Con la deprecabile risultante intellettuale di un cumulo di incomprensioni reciproche, certo non utili al processo di pace. Ma chi la vuole, veramente, la pace (e quale pace)? Se un libro di parte aiuta anche a comprendere, ben venga e pazienza se continuamente vi si trova (irritante anche se forse volontariamente) il ritornello della colpa… Lo stesso Trigano riconosce che “la realtà è sempre imprigionata nel prisma di una narrazione che la deforma a vantaggio del narratore. La caratteristica propria di un racconto è in effetti di privilegiare un punto di vista egocentrico”: qui l’ego è il popolo di Israele, con il suo dramma di non avere chiare neppure la sua identità. In definitiva, Trigano sottolinea come sia stato quasi impossibile per gli ebrei essere e addirittura credersi un popolo normale, con le caratteristiche tipiche di un popolo che abbia un posto in cui vivere, con leggi e confini. Può sembrare esagerata una simile considerazione, ma nel libro si chiarisce tutto, con una capillare analisi (e si direbbe anamnesi) dei processi storici che hanno portato ai giorni nostri, all’intifada palestinese e alla crisi del modello politico israeliano. Destra e sinistra vengono criticate entrambe per i loro errori, e in particolare quella sinistra integralista che si è troppo spesso chiusa a riccio su posizioni – fortemente ideologiche – improduttive. Così come si critica duramente l’ortodossia, e in particolare l’ultra ortodossia più intransigente e meno disponibile, pertanto, ad aperture sociali e politiche.

***

Tucci

Pina Tucci, Noctedie, Rotundo

Un amore difficile, che è sentimento e ragione – forse più ra­gione che sentimento, e per questo è ‘difficile’ e fa male – lega la poesia a Pina Tucci che pubblicò la sua prima raccolta di versi nel 1980, al­quanto a­cer­ba ma già esperta di linguaggio e di forme e­spres­si­ve: il titolo Pic­co­la vela bianca e l’o­mo­ni­mo primo testo inse­rito de­nun­ciano una visione an­cora im­pres­sio­ni­stica dell’e­si­stenza. Nella successiva prova, appena un anno dopo, Quel flusso fur­tivo, quan­ta scal­trezza in più e quanta accortezza fanno più am­pio lo spettro e­spres­si­vo e più coscien­te il rapporto con la vita, l’arte, l’io stesso di poeta proteso a co­noscere, e a conoscersi. Noctedie comprende 33 composizioni, ma alcune sono veri poe­metti o po­lit­tici e lo spessore, non solo fisico, del libro ne gua­da­gna in profon­dità, poiché risulta intanto cre­sciuta la capacità intro­spettiva del poeta. Lo spazio e il tempo sono ‘categorie’ esistenziali, ineliminabili: e Pina Tuc­ci vi cozza contro ogni volta che cerca di im­porre una sua misura al vi­vere dei giorni (“a me tocca rin­correre il tempo come pazza…”), mai ras­segnandosi a di­sfarsi dei tempi morti che po­trebbe evitare di far pesare sul­l’esile stelo della vita, mai limitandosi a godere dei limi­tati spazi in cui le contingenze la chiuderebbero in angoscia. Nella sua poesia c’è la misura di un’esistenza, la sua, in equili­brio in­stabile, in bilico tra sorri­so e  intelligenza – in­fatti, sono pa­role sue: “la mente è in iscacco di ragione”. Nelle pagine dense, riflessive, studiate – qui, ormai, nulla qua­si è ca­sua­le – si svolge, si dipana un soliloquio continuo che di­venta, in un mo­nolo­gare dialogando fra sé e sé (fra ‘tu’ e ‘io’: esem­plare, in pro­posito, il finale di “Esodo”), quasi un flusso di pa­ro­le che, nel farsi magmatica dolcezza e/o, a seconda dei casi, bal­sa­mica a­sprezza, fa­scia e cura l’a­nimo strappan­dolo al mellifluo dell’in­dif­fe­ren­za, infine ripor­tandolo alla radice dell’esperienza esistenziale, in cer­ca, for­se, di quello spazio ul­traterreno e di quel tempo astorico og­get­ti d’inquie­ta e insoddisfatta in­dagine dentro e fuori di sé – ricerca di una dimen­sione che sia più sod­di­sfa­cente di quanto non soddisfino le minuscole ‘misure’ cui ci co­stringono i luoghi comuni. Perciò la natura, mai semplice paesaggio, è ‘segno’ in cui si iscrive la pa­dronanza di un privato che diventa poesia, di un sé che si fa ‘altro’ per­ché altri vi si scoprano ricono­scendo chi stavano cer­cando; anche que­sto è dialogare tra sé e sé, quando ci si pone a con­fronto e a contatto con quel­l’altro sé che è il poeta, se parla con le nostre parole e ci coinvol­ge, o co­stringe, in un viaggio che, se è im­possibile per qualcuno, è avvin­cente per chi non ha paura di incon­trarsi dove non se lo aspetta – al di fuori di sé. Inutile, in conclusione, andare in cerca di ‘altri’ stili, di echi, di ritmi, di frequenze: c’è lo stile di Pina Tucci e basta, nella poesia di Pina Tucci (malgrado non sia impos­sibile identificare qualche geni­tura), c’è lei con la sua ra­zionale follia espressiva o con la folle lu­cidità esperienziale della sua parola – la freschezza del suo dire è il risultato di tra­vaglio e di volontà, ed è la maschera di un interno e (per quanto sem­bri paradossale) ordinato caos, di un ribollente a­gitarsi in­tellettuale e spiritua­le. [1991]

***

Jüri Talvet, Primavera e polvere, Joker

Opportuna e meritoria (e senza dubbio meritata), questa pubblicazione in italiano della poesia di Jüri Talvet, noto poeta estone e famoso comparatista, a sua volta buon traduttore. La sua produzione poetica comprende nove libri – altrettanti sono i suoi saggi, fra i quali molto importanti quelli dedicati alla cultura e alla poesia spagnola (non a caso la sua poesia è stata definita “ispanica fino al midollo”, ma l’autore dissente, a ragione). “Scrivere di quel che manca a una poesia è molto più facile che scrivere una buona poesia”, forse perciò – è Talvet che scrive – “abbonda la critica e scarseggia la buona poesia”. Questa acuta riflessione ovviamente non scoraggia il critico, ma invita a leggere con attenzione. Un lettore italiano non rimane indifferente a “T. S. Alighieri”, gioco finissimo di esperto letterato (“…ci smarrimmo alla vista. O selva oscura fatta per l’amore“), e ad altri più o meno riconoscibili prestiti. Ma Talvet è sempre esperto letterato: usa la lingua (a giudicare dalla traduzione) in modo efficace e suadente, in ampia gamma lessicale e in toni continuamente sostenuti – e a proposito di traduzione (per color che non conoscono l’estone), va detto che la proposta italiana del duo Lázaro-Tinaut e Dini è di sicura presa, rendendo certo un gran favore alla circolazione della poesia di Primavera e polvere. Ci sono immagini gustose e struggenti, ci sono strappi di lancinante dolore, c’è un’idea della vita che si fa pagina e rimane memoria per chi ne vorrà conoscere e partecipare. La pratica universitaria, la frequentazione di tante letterature, l’amore per la scrittura poetica offrono una vastissima palestra espressiva: in questo libro antologico in italiano – che viene da cinque libri pubblicati nell’arco di un ventennio – c’è un condensato della formazione intellettuale dell’autore (e dei suoi numerosi viaggi che sono tutti stimoli creativi: i Paesi baltici e la Spagna, la Cina e il Marocco…). Primavera e polvere è corredato da un piccolo saggio “Sulla poesia. Sulla mia poesia” dello stesso Talvet, e da due note di lavoro curate dai traduttori, i quali danno conto non solo della propria fatica, ma approfittano per una sintetica presentazione della poesia (e della lingua) estone come si manifesta nella produzione in versi dell’amico tradotto. E se, come scrive Dini, la traduzione è “l’atto erotico che si compie fra due lingue”, la creatura che ne nasce non è che un nuovo slancio d’amore, una nuova vita [2018].

***

CCI16092018_0001

Jüri Talvet, Meditazioni da U, Joker

Una raccolta di saggi che si fa romanzo di esistenza sofferta nello studio delle culture dell’uomo; raccontando e analizzando l’evoluzione di uno spirito attento a farsi permeare da politica e letteratura (e verrebbe da sottolineare, senza tema di contrariare l’autore, che letteratura è politica), impegno e ingegno, eclettico e rigoroso, sensibile e disponibile (non sempre è la stessa cosa e Jüri Talvet lo sa e lo critica). Che sia un Estone, uno che viene dalla “fine del mondo” (parafrasando una battuta storica), a proporre una “simbiosi culturale”, una interazione fra le diverse espressioni, un dialogo aperto e “permanente fra filosofia, arti e letteratura, attento a preservare le peculiarità individuali e nazionali”, deve fare (molto) riflettere. Jüri Talvet però è un intellettuale europeo, buon conoscitore di letterature diverse, ispanista di fama… non fa quindi “specie – dice il curatore di questo libro Pietro U. Dini – che siano tutti saggi più o meno improntati a ottimismo e a fiducia nell’uomo…”. Meditazioni da U, infatti, è una raccolta di scritti dedicati alla ricerca di un terreno comune sul quale incontrarsi e scambiarsi esperienza. Nel vecchio pregiudizio eurocentrico si affermava appunto una centralità alla quale fare riferimento, in nome di una superiorità presunta eppure in buona misura riconosciuta. Oggi – ma i saggi di Talvet hanno già una quindicina d’anni (per quanto si possano riconoscere attualissimi) – pare quasi che sia perduta non solo la sua centralità ma l’Europa stessa. Jüri Talvet ripercorre la propria storia di intellettuale di ampio respiro e si fa portavoce (ironico e amaro, pure) di quella del suo Paese, che chiama U ma è l’Estonia, stretta fra mondi e culture opprimenti. Lo si può quindi seguire in giro per il mondo a fare conferenze, a studiare e imparare, a comprendere l’uomo. Al quale infine, da buon maestro, e da uomo di grande generosità, offre qualche spunto di riflessione di cui fare tesoro. “Le razze e le persone”, “Arti e letteratura fra moda e propaganda”, “Esistenzialismo e umanesimo” (citazione chissà quanto casuale) sono fra i capitoli più interessanti. Ma fin dalle prime pagine di questo libro – applauso per chi ne ha curato l’edizione italiana – appare chiaro quanto Jüri Talvet sia importante per noi tutti che leggiamo, a prescindere dalla nostra nazionalità o dalla nostra lingua. Come non convenire quando afferma che “L’arte e la letteratura, nonostante le loro crisi e contraddizioni, sono ancora fra le principali risorse di speranza e di fede per l’umanità”… Spaziando da par suo nella produzione spagnola, francese e inglese, merita ascolto quando sostiene che la scienza “è diventata una nuova opprimente religione” che snatura il rapporto fra l’uomo e la cultura – c’è pertanto bisogno di un patto nuovo, per creare una “simbiosi fra filosofia, arti e letteratura”, sull’esempio dei grandi spagnoli Unamuno e Ortega y Gasset e poi Camus e Sarte… Studiate, studiate, dice il professor Talvet: magari vi viene voglia (e vi riesce pure) di produrre qualcosa di veramente unico e comune [2018].

***

CCI16092018.jpg

Lucilla Trapazzo, Ossidiana, Volturnia Edizioni

 scusa sono solo me stessa

 Lucilla Trapazzo esordisce – appena più che cinquantenne (un poeta non nasconde l’età) – con un lavoro che è insieme un regesto ed un augurio. Perciò ha voluto, ha saputo attendere che gli anni le dessero la consapevolezza e insieme la volontà di schiudersi. Nell’ossidiana c’è un po’ di ossimoro, e non è un semplice gioco linguistico, per quanto a lei pure piaccia giocare con la lingua; perciò la sua “ossidiana”, dura e tagliente, è pure tenera come sa essere la carezza di un amico. Un libro come questo incuriosisce, chiede attenzione e offre diletto, ma ha bisogno di lettori pazienti. Lucilla si spoglia e si ammanta, fa teatro di sé, mostrando e alludendo, puntando ad una meta sfuggente che però caparbiamente vuole toccare. Certi testi, in questo libro, hanno presa sicura, altri possono creare perplessità, ma dovunque la poesia è sovrana, se poesia è la forza di coinvolgere e convincere, di aprire porte verso vie inconosciute. Del resto, “cammina la poesia a passo lento…” (in “A goccia a goccia”): dovrebbe essere facile seguirla, ed è sempre vero che il poeta cammina piano, ma il mondo fa “dieci passi indietro” (Saba) mentre lui ne compie uno alla volta. La fluida versificazione, peraltro sovente franta dall’uso insistito della punteggiatura (esempio: “Sehnsucht”), è senz’altro un indice di buona preparazione linguistica e retorica; il repertorio lessicale è un altro indizio certo di studio non casuale: l’autrice di Ossidiana fa i conti con la sua vita, con la sua vita di artista, e sottovoce confessa illusioni e debolezze, ma con lo spirito dell’esploratrice, della viaggiatrice instancabile (com’è in realtà, presa continuamente dal desiderio di scoprire e misurarsi con nuove forme espressive). Siamo qui di fronte a una scoperta piuttosto tardiva – anche se forse è passata la moda dei “poeti dei vent’anni, dei trent’anni” –, soltanto perché finora Lucilla ha fatto tante altre cose, oltre a scrivere e conservare poesie nel famoso cassetto. Ci viene quindi offerta una gustosa anteprima di un lavoro lungo e convinto, anche se è stato tenuto nascosto per distrazione, essendo cioè lei dis-tratta altrove, sospinta in una ricerca incessante di sé nelle possibilità che la vita le ha dato di manifestarsi. Una distrazione nella quale non ha avuto piccola parte il pudore, un’altra delle qualità di Lucilla, l’onesta ritrosia di chi sa – per avere conosciuto e frequentato in mezzo mondo disparate esperienze d’arte e di vita – quanto sia facile esprimersi e rischiare di essere fraintesi. Ben sapendo che “Bramiamo l’assoluto / nutrendoci di ghiande” (in “Dell’essere”)… e si avverte la lezione di una classicità sedimentata, nell’attenta sofferta considerazione per l’umanità che si conosce e si vorrebbe educare [2018].

 

 

 

Hernandez – Hikmet – Kerouac – La Capria -Leibholz – Lisi – Loprencipe – Lubrano – Lucariello – Nakaema – Napolitano – Nocella – Notarangelo – Odifreddi – Osnato – Palmieri – Panza

Alberto Hernández, Stravaganza, Edizioni Eva

Trovare tanta Italia in un libro “straniero” non può che fare piacere. Più ancora se non è il solito romanzone che sfrutta memorie nostre per fare soldi e successo. Più ancora se è un libro di poesia, una specie di diario che diventa giornale dell’anima. È il caso di Stravaganza, del poeta venezuelano Alberto Hernández, pubblicato dalle Edizioni Eva (il terzo spagnolo consecutivo, dopo Vega e Vitale, nella collana con testo a fronte “Stella verde”). Hernández, inedito in Italia, festeggia i sessant’anni con una ricca antologia di riflessioni poetiche dedicate al nostro Paese, ai luoghi che ha visitato, agli spiriti magni che senz’altro lo hanno esaltato. Così troviamo le terre del sud e del nord, Bari, Modena, Venezia, il Po e l’Adriatico. Così ricordiamo insieme a lui Francesco e Giotto, Petrarca, Montale… Hernández comunica in tutta semplicità i suoi sentimenti che si fanno poesia proprio nel diventare nostre comuni sensazioni, di noi che conosciamo i luoghi e i personaggi che sono i suoi nelle sue parole. È il miracolo della parola che si partecipa e viene fruita profondamente se parla una lingua comune. Del resto, il poeta venezuelano si mostra talmente a suo agio, in queste pagine italiane, da essere davvero una guida riconoscibile. Gli bastano poche pennellate, poche parole, per raccontare e descrivere, per trasmettere impressioni e sentimenti. Petrarca: “Quante patrie guadagnò con l’esilio? Quanta eternità vivremo con lui?uante patrie guadagnò con l’esilio?Q” (e, leggendo queste parole, non possiamo evitare di pensare anche a Dante). Michelangelo: “Più mi convince il dolore che il genio”. Saba “Qui nel mio deserto è più duro morire”… Sono staffilate di verità, come sono vere le immagini (non cartoline) che dipingono località anch’esse eterne nel nostro immaginario: “Laggiù”, dedicata a Catullo, ma in un felice accostamento pensata anche per D’Annunzio, è un quadretto di preziosa efficacia espressiva. Come lo è la “cartolina tragica” scritta per Pasolini, per quel “corpo di un uomo insanguinato” che non possiamo dimenticare. Com’è pervasa “di tanta solitudine” la poesia per Cesare Pavese dal titolo, “Il mestiere di poeta, il mestiere di vivere”, che potrebbe essere un sottotitolo illuminante per questa italianissima stravaganza dello spagnolo Hernández.

 ***   

Nazim Hikmet, Il nuvolo innamorato, Mondadori

Andrebbe letto nelle scuole, non solo in Turchia, ma adesso più che mai in Turchia, per dare ai giovani un senso per la loro vita in pericolo. Per fortuna i libri (quelli buoni) non hanno data di scadenza, e vale la pena di parlare di questo “Nuvolo innamorato”, di qualche anno fa, che Hikmet – molto più famoso come poeta, e poeta d’amore – ha scritto proprio con finalità pedagogiche, perché gli adolescenti (ma non loro soltanto) riflettessero sul messaggio di fiducia e libertà contenuto nella gran parte delle fiabe. “Cura l’educazione dei bambini perché trovino con coscienza un posto nella società”: questa la sua lezione, ahimè sempre attuale, e non solo in Turchia. Hikmet sostiene l’universalità della fiaba e propone una scelta rilettura di fiabe popolari raccolte da un grande etnologo, Boratov. Malgrado la diversità culturale che è al fondo delle sue tradizioni popolari, ciascun popolo può riconoscersi nelle tradizioni altrui. Il carattere dei personaggi di fiaba, le vicende esemplari che li fanno crescere, scontrandosi con avversità formative, iniziatiche a volte, si fondano in analoghe esigenze di insegnamento morale. Anche nelle fiabe “italiane” (raccolte ad esempio da Calvino) abbiamo personaggi che somigliano ai principi e poveri di Boratov/Hikmet, al loro strampalato e fortunato Testapelata. È improbabile che si trovi un orco pronto ad insegnarci il gioco “diriffa diraffa”, ma la fiaba invita a credere che un pizzico di fortuna arriva a chiunque osi credere un po’ più in se stesso. “Chi ha fede, arriva…” sentenzia Hikmet nel primo “Racconto a mio figlio”, ed è commovente pensare che questo libro di fiabe sia stato scritto da un padre che troppo poco ha visto suo figlio (il poeta passò molti anni in carcere per la sua opposizione al regime turco, e molto a lungo visse in Russia). Il nuvolo innamorato e altre fiabe è uscito in edizione Mondadori a cura di Giampiero Bellingeri, che si commuove anche lui scrivendo una postfazione articolata e appassionata, densa di riferimenti bibliografici e di profonda umanità.

 ***

Kerouac

Jack Kerouac, Il mare è mio fratello, Mondadori

Poche pagine ed è subito Kerouac, “sulla strada” come sempre, come ce lo aspettiamo di incontrarlo. Con i suoi amici che se la spassano e bevono ascoltando musica jazz. Il mare è mio fratello, questo breve romanzo (“il romanzo perduto”) che esce a cura di Dawn M. Ward, tradotto da Michele Piumini, è una promessa mantenuta: dove si va? Non preoccupatevi: con Kerouac si può solo salpare per avventure indimenticabili. Qui, più che la strada, è il mare a farla da padrone, ma il giovane autore (poco più che ventenne e già teorico di narrativa!) sa bene come sfruttare le suggestioni, come ritrarre i compagni di avventura e fare di un personale diario di viaggio il romanzo di un viaggio di iniziazione collettivo. Tutti i personaggi hanno il loro spazio e i tempi giusti per farsi conoscere, e interagiscono quasi mossi da una regia esterna che li scruta e li segue per farne attori di una trama ben orchestrata – scritto in prima persona ma è un racconto corale. La pubblicazione di un inedito (almeno in Italia) aiuta a scoprire altre facce di uno scrittore del quale si sa già quasi tutto. Importante quindi che il volume – di cui Il mare è mio fratello è la prima parte – sia corredato da preziosi sussidi critici e ulteriori prove di scrittura (“scritti giovanili”) che contribuiscono a definire una formazione letteraria accurata, si direbbe predestinata – considerando quale cura il giovane Kerouac dedicasse alla sua preparazione di scrittore. La terza parte del volume propone una illuminante corrispondenza epistolare (anch’essa pare un diario al quale attingere per altre invenzioni narrative) fra Kerouac e Sebastian Sampras – rappresentante principe del gruppo di amici di Lowell (la città di Kerouac) chiamato “Young Prometheans”. E qui compaiono (William Saroyan, ad esempio) nomi e citazioni che fanno parte del panorama ben noto ai conoscitori dell’autore di Sulla strada. In definitiva, una imperdibile miniera che la Ward ha saputo mettere a frutto, un omaggio e un augurio: che il suo lavoro (come “benzina che alimenta il fuoco creativo”) abbia un senso anche per i lettori.

***

Raffaele La Capria, Napolitan Graffiti, Rizzoli

Come si fa a credere a La Capria che dice: è l’ultimo libro che dedico a Napoli? Ma gli si creda o no, questi graffiti scarabocchiati sulla pelle del cuore hanno il segno della parola che si fa carne, vivi come sono delle presenze (per quanto… assenti, a volte) degli amici di un tempo e del tempo degli amici. E la bellissima epigrafe della Ortese (“a volte mi giungono voci, così distinte: è come se foste a un metro di distanza”) non fa che confermare l’impressione: La Capria ha graffiato i suoi ritratti/ricordi con la matita della memoria, schizzando a memoria Ghirelli e Rosi, Giglio e Scognamiglio, Striano e Rea ed altri ancora… consegnandoli al lettore “oltre l’orizzonte” del presente. Un “come eravamo”, com’è suo solito, senza retorica, un omaggio (che non può essere l’ultimo) al cuore pensante di Napoli. E in più una Napoli nella storia, che ha fatto la storia, che rimarrà dunque storica malgrado le malelingue. Perciò si passa da G.B. Basile a “la smorfia”, con la scaramantica nonchalance tipica del partenopeo che nemmeno ha bisogno di fare le corna per scacciare il malocchio. Non ci serve, poiché l’invito è a calarsi in queste pagine liberamente, senza un filo che leghi i passi del cercatore, ma un indice dei nomi avrebbe consentito agli stranieri di orientarsi meglio.

 ***

Raffaele La Capria L’amorosa inchiesta Mondadori

Toccante la memoria della libreria Guida a Piazza dei Martiri in L’amorosa inchiesta di Raffaele La Capria . Un “primo amore” che nasce tra i libri (“galeotto fu il libro”), un “primo bacio” tra gli scaffali della vecchia libreria che diventava per i giovanissimi protagonisti – erano gli anni Trenta del secolo scorso – una alcova dei sentimenti. La Capria scrive tre lettere fuori dal tempo: al primo amore, alla prima figlia, al padre; lettere sue, dirette a persone “sue”, ma potrebbero essere dedicate a chiunque, scritte da chiunque (egli stesso, che confessa alla figlia la propria “immaturità”, riconosce di ispirarsi a modelli come la kafkiana “lettera al padre”). Emerge ovunque la Napoli della sua giovinezza, le strade e le piazze di allora, e Capri e poi gli altri luoghi nei quali ha dovuto spostarsi (Roma). Ma la formazione partenopea dell’intellettuale è percepibile, densa, umorale e morale. La Capria non rifiuta l’etichetta. Questo piccolo libro consente di entrare nella sua biografia e invita pure a rileggersi in quella, come a cercare in uno specchio qualche piccola imperfezione di cui si sa perché altri ce l’ha fatta notare.

 ***

Gerhard Leibholz, Il diritto costituzionale fascista, Guida

La riflessione leibholziana sullo stato fascista raccolta in questo volume si presenta ancora come un utile strumento di analisi e pure di approfondimenti polemici, in quanto punto di vista esterno, per quanto fortemente interessato. In Germania – nella crisi dell’esperienza di Weimar – si guardava con attenzione alle proposte sociali e politiche del regime fascista italiano. Quello che a posteriori può suonare alquanto stonato, cioè l’ossimoro del titolo di questo saggio (“costituzionale fascista”), all’epoca in Germania – con analoghi problemi postbellici – sembrava invece una strada percorribile e rispettosa del diritto. “Il diritto scritto si esaurisce quasi esclusivamente nella funzione di legalizzare a posteriori una situazione già effettivamente prodotta”: tant’è, è un modo come un altro per giustificare l’azione e la prassi, “la sfera fattuale” contro la normativa, contro l’etica dei rapporti statuali… Inutile sottolineare (pur mutatis tutte le mutandis del caso) quanto rischiosamente attuale potrebbe suonare una simile interpretazione. Leibholz, scrive in postfazione Antonino Scalone, che di questa importante proposta editoriale è l’attento curatore, “risulta particolarmente attratto dal carattere vitale del fascismo” e pertanto “pone opportunamente in luce il carattere non programmatico del movimento fascista, la sua indeterminatezza, cui corrispondono massima duttilità e grandi capacità di azione e organizzazione in relazione al raggiungimento di obiettivi specifici”. Il volume comprende in appendice, oltre il saggio da cui prende il titolo (uscito nel 1928), altri due interventi di Leibholz sullo “Stato totalitario” (del 1938) e sulla “teoria del fascismo” (risale al ’35), che insieme compongono un trattato di indubbio valore storico, da “considerare con rispetto” (sono ancora parole di Scalone).

***

Tommaso Lisi, In punta d’ago, Stamperia dell’Arancio

Una laicità consapevole, si direbbe esibita, sostiene il dettato li­rico di Tommaso Lisi nel suo rivivere “in punta d’ago” (nel libro che ha questo titolo emblematico oltre che af­fet­tuoso) la vita del geni­tore scomparso. Il sentimento della morte è talmente assorbito (con­su­stanziale) da farsi – e questo potrebbe addirittura sembrare ‘cri­stiana’ accet­tazione – sostanza di nuova vita; ma – qui è la so­stan­ziale diffe­renza – qui,  in questa  vita! non dopo, non altrove. Non ce l’ho con la morte che t’ha ucciso, / ma con quella che assai prima / dal tuo sorridente / viso scacciò il sorriso.   È la morte alla vita terrena che dà fastidio, quindi, non quella che ruba alla vita e… amen, perché irreparabile comunque. L’esperienza umana del padre si ricompone, gugliata su gu­gliata nel filo della memoria, a tessere un ordito in cui tramano i ri­cordi stessi del figlio – armonia della vita che si per­petua, anche se i per­so­naggi sono diversi: ci si accompagna l’un l’altro, si perpetua un rito, magari scambiandosi le parti ogni tanto per riposarsi, se al­meno uno chiede di fer­marsi un po’. Non il padre del poeta, che anzi da fermo – indefessa alacrità – ha vissuto più degli altri che si agita­vano a vuoto, dimenandosi nello stolido balletto della vita a caccia di farfalle. Non è dunque mancata al sarto la stoffa per cucirsi l’abito giu­sto: padre mai abbastanza apertamente amato da vivo, eppure pre­sente in una sua maniera discreta, fino a meritare un paradiso che, “qualun­que” sia, non avrebbe il (gradevole/gradito) sapore di miele e ve­leno della vita profondamente vissuta. Così il poeta può soste­nere che “Pa­radiso non è ciò che troviamo / in un luogo / ma ciò che vi por­tiamo”.  Soltanto dopo, e non è banale ovvietà retorica ma la­mento di soprav­vissuto cui l’eredità di affetti basta poco, nella (montaliana! certo) “triste meraviglia” di aver finalmente recuperato una presenza, ora che non può più gu­starne l’odore… “Ti vedo me­glio adesso che non ti vedo più”. Tutto ha il senso del passato che si è perduto e tardi lo si è sco­perto – ma affettuoso è lo sguardo dell’uomo per quel sé  non più presente e mai dimenticato: quando riceve la me­daglia commemo­ra­tiva “per la par­tecipazione alla grande guerra” il vecchio la “ca­rezza” con commozione “quasi l’avesse avuta / alla memoria / la tua giovi­nezza / in quella guerra  caduta”. Ecco perché Ti bastava così poco spazio / per vivere, che morto/  del buco che t’hanno dato / sarai sazio. Parole che ricordano (per contrasto di analogie) un testo di Ian­nacone per la madre: “Occupavi così poco spazio/ che è un mi­stero / come abbia potuto lasciare/ un così grande vuoto”.  Sono dedi­cate a chi non ha dato fastidio, ed è merito non piccolo in questo mon­do di parlatori, scocciatori, imbonitori… Sono parole che non aprono soltanto una finestra da cui con­tem­plare interminati spazi ove l’anima soddisfatta gode il frutto di un’esi­stenza ben vissuta; sono parole, quelle del poeta, che aprono il pre­sente a vivere un futuro più degno del passato che l’ha preparato (“in punta d’ago”, gugliata dopo gugliata) – e deve solo essere indos­sato. Lezione laica di attaccamento alla vita, perché solo chi ci si lega, chi se la cuce ad­dosso, la merita finché c’è e quando non c’è. E’ l’unica verità, del resto, che consenta di credere in un frammento di eternità così casuale, quale appunto è la nostra esistenza, senza farci (troppo) male… Ora la morte è un gran vuoto / con dentro la nostra vita. [1994]

 ***

Marcello Loprencipe, Il contanuvole, Campi di Carta

Un sorprendente piccolo capolavoro nascosto in un’etichetta “minore”. Il contanuvole di Marcello Loprencipe (edizioni Campi di Carta, collana “Campi di parole”) è una favola poetica scritta in prosa, ma una prosa rarefatta e pertanto lirica – e cangiante nelle forme espressive come cambiano di forma le nuvole e le onde…  È la storia bipartita di due sogni, che in fondo nemmeno è “storia”, rarefatta anch’essa in frammenti narrativi che molto spesso sconfinano nell’immaginario dei protagonisti… Conviene abbandonarsi al ritmo delle pagine, che ci culla come un mare o un cielo nuvoloso, facendoci portare dal vento ad abbracciare gli alberi in montagna. È la storia di come potremmo stare meglio se avessimo a disposizione il tempo per guardare il cielo, ed inseguire (o catturare, contandole) le nuvole. Il giovane Ibrahim che fugge dai limiti del deserto il tempo di guardare le nuvole non lo ha, ma si salva sull’isola delle nuvole. Carlotta invece impara tutto in un sogno, e non lo dimenticherà. Grazie ai sogni del visionario solitario “contanuvole”: l’orfanello Nino che invecchia e muore dedicando la vita al cielo riflesso nel mare. Un libro così non capita spesso, asciutto e completo nella misura del racconto lungo più che del romanzo breve. Ma pieno di tutto quello che si chiede ad una storia: la verità della struttura al servizio delle persone che ci vivono dentro. La credibilità poi è nella capacità di muovere le corde dell’animo, di accendere nel lettore la voglia di partecipare al gioco. Quante nuvole si possono contare prima che si dissolvano cambiando aspetto, continuamente? e a che serve? Il lettore scaltro non si fa domande: segue le vicende narrate come fossero vere, e legge dietro di quelle il senso che dovrebbe dare alla propria vita. Dovrebbe bastare. In questo senso, Il contanuvole di Loprencipe è un piccolo capolavoro. Forse è solo un esercizio letterario ben riuscito, ma leggiamolo come se fosse uno stimolo a non dimenticare il mondo in cui viviamo. L’incontro dei due ragazzi sotto il saggio vecchio leccio che conosce la storia del “contanuvole” aiuta a riflettere – e a sentirsi un po’ meglio: la salvezza è nel silenzio, se sappiamo ascoltarlo.

 ***

Antonio Lubrano, Falpalà, Guida 2007

Le conosciamo, le ricordiamo, ce le hanno raccontate da piccoli, le abbiamo studiate a scuola… le abbiamo ritrovate in accurate o semplificate edizioni, e abbiamo cominciato a raccontarle ai nostri piccoli per farli addormentare: le favole con animali (quelle con una – più o meno dichiarata, esplicita o riconoscibile – morale della favola, appunto) sono un patrimonio solidificato, fanno parte, si direbbe, del nostro dna. Eppure continuiamo a scriverne, trasformandole magari in apologhi o parabole, venandole di tramature noir, come avviene peraltro nei cartoons del cinema, sempre più, anch’essi, “per adulti”. Ma serve questa precisazione? Probabilmente no; per Falpalà, il libro che Antonio Lubrano compone con 14 storie di animali molto “umani”, la definizione del sottotitolo non occorre: potremmo mai aspettarci dal noto difensore civico televisivo che ci proponga favole “per bambini”? Le sue favole pubblicate dieci anni fa (il video-manuale di sopravvivenza civile Le favole di Lubrano) già non lo erano affatto, ed anzi graffiavano sulla nostra pelle di “consumatori” per consigliarci come salvare la pelle. Insomma, Lubrano scherza poco e si diverte meno – come nel decennio trascorso in Rai al servizio dell’uomo (Diogene e Mi manda Lubrano) – per cui possiamo stare tranquilli: qui, in questo arguto suo pamphlet dal titolo allusivo e scivoloso (“falpalà è una striscia di stoffa messa a guarnizione… e la favola è una guarnizione che abbellisce la vita”), qui ci possiamo riconoscere tali e quali siamo. Qui infatti ci sono tutti gli animali che ci rappresentano, come avveniva nella favola classica. Possiamo ritrovarci quindi nella pelle, o nei peli, di una gallina o di una …topona, di un pipistrello o di un istrice, addirittura di un tarlo. Le favole di Falpalà vogliono indurci in tentazione, ci vogliono presentare una società che somiglia molto alla nostra con i suoi mali, i suoi difetti nei rapporti sociali (molti esempi si potrebbero fare in proposito),  i suoi tic e le nevrosi. E a noi sembra di poter sorridere di quegli strani personaggi dai buffissimi nomi solo finché non ci accorgiamo… ma sì, certo, quelli siamo noi. Come avveniva – ce lo ricordiamo bene – nelle favole della classicità: de te loquitur… il messaggio era chiaro ed è chiaro anche qui. La storiella che ci racconta Lubrano è una storia nostra che avevamo finto di aver dimenticato, rimosso, e invece ce la ritroviamo sbattuta in faccia da un granchio o una cornacchia. Non le raccontiamo ai bambini, queste favole per adulti di Lubrano: guai se capissero così presto che quel mondo apparentemente diverso è proprio il nostro, cioè il loro! Abbiamo ancora bisogno che, ogni tanto, qualcuno gentilmente ci dia una scrollatina sorridente e ci faccia magari scorgere (in uno specchio tanto simile a quello della regina di Biancaneve) un volto a noi familiare, una bella faccia che avevamo dimenticato di offrire al prossimo: il meglio di noi, la nostra genuina animalità, la spontaneità di un gesto, la chiarezza di un atteggiamento. Impastoiati, infagottati, protetti dal nostro fragile baluardo di indifferenza, ci rifiutiamo di saperci comuni, aspirando a qualifiche pur provvisorie, ma che ci spingono un po’ più oltre… prima del baratro inevitabile. Ci vorrebbe davvero una “livella” a darci una salutare e (è il caso di dirlo!) vitale rastremata.

 ***

Silvana Lucariello, Portato da una cometa., Guida

Storia e sociologia, psicologia e soprattutto tanta umanità: sembra di poter dire che sono questi gli ingredienti fondamentali del volume che la professoressa Lucariello ha curato insieme ad una équipe senz’altro encomiabile. La professionalità di tutte le autrici dei numerosi saggi che compongono Portato da una cometa è accompagnata sempre da una profonda umana partecipazione. E senza dubbio il risultato, come scrive Alida Labella in prefazione, “è un riferimento per pensare, riflettere e trovare le proprie risposte per chi, genitore, insegnante, psicologo, giurista, voglia affrontare con rispetto, umiltà e competenza la complessa storia di chi ri-nasce nella mente, nelle emozioni e negli affetti”. Oltre la Lucariello stessa, che ha scritto la prima delle cinque parti in cui è articolata l’imponente materia trattata, i testi sono firmati da un nutrito gruppo di lavoro afferente al Consultorio familiare dell’ASL Napoli 1 di Corso Vittorio Emanuele: venti firme che si alternano, singolarmente o a gruppi. Un impegno collettivo, dunque, di grande ampiezza espositiva, che spazia dal problema istituzionale (storico legislativo burocratico) a quello della genitorialità vista come desiderio del figlio e trauma dell’abbandono; dal percorso di inserimento dell’adottato nella nuova realtà socio-affettiva alle osservazioni sul campo (inserimento scolastico, psicoterapia e fallimento dell’adozione). L’imperdibile volume affronta i suoi delicati argomenti da diversi punti di vista, esaminando anche monoparentalità e omoparentalità in relazione all’adozione, ed è corredato da importanti sussidi legislativi e bibliografici: 50 pagine con la legge 149 e altri documenti, poi 30 pagine di bibliografia.

***

Yurika Nakaema, Diario onirico, Caramanica Editore

Piccolo e coraggioso editore “provinciale” che ha scommesso qualche tempo fa sulla poesia, Caramanica ha già dimostrato che era  una  scommessa  vincente. Ora inaugura la sua quarta collana di libri di poesia (dedicata agli esordienti) con una poetessa italo giapponese, la prima donna da lui pubblicata – finalmente -, ed è subito una scelta felice. Yurika Nakaema (33 anni, vive a Roma) è voce femminile vivissima, delicata e profonda al tempo stesso, nutrita com’è di ascendenze senz’altro classiche (nella pronuncia del verso e nel gioco lessicale) ma pure aperta a varie suggestioni che ne sciolgono senza ritegno il dettato lirico o lo costringono in una scansione del verso franta, sincopata, quasi. Il suo libretto è diviso in sette mesi (da marzo a settembre) e articolato in scansione quotidiana, in frammenti e aperture più ampie, ma sempre in bilico tra gioco e ricerca. Un diario onirico, quindi, che diventa viaggio nella memoria e verso la vita, una vita nuova che nelle pagine si compone e si propone a chi saprà viverla insieme a lei.

***

Nicola Napolitano, Viandante, Villano

Sono pagine, queste, di grande umanità; in forma ricca e scorrevole accompagnano alla riscoperta dei valori eterni: bontà, onestà, amore in una cosmica visione dell’uomo, che non perde mai di vista il creato; la natura qui è madre davvero nella du­plice veste di culla e fine. Alcuni racconti riportano vicende del secondo conflitto mon­diale. Non è piacevole parlare di certi argomenti, specie in un libro desti­nato ai ragazzi della scuola; ma la guerra, purtroppo, è ancora con noi, nelle forme più spietate, o più subdole e perciò me­no appa­riscenti: sempre terribilmente crudeli. Forse (dobbiamo almeno sperarlo) non è più il tempo delle grosse conflagrazioni che hanno sconvolto già due volte il nostro se­colo, ma è sempre viva la minaccia di scontri che potrebbero tur­bare seriamente gli equilibri poli­tici esistenti. Ricordare qualche episodio di vita militare, della triste (ma umanissima) espe­rienza del fronte, può ser­vire a far riflettere sulle brutture, le storture, le cattiverie della guerra: perché se ne com­prenda la stupida enormità e si possa ope­rare per evitarla, ciascuno nel suo piccolo. Oltre a questo tema, almeno altri due centri di interesse pos­sono evidenziarsi nella raccolta: la memoria della madre (inserita nella più vasta tematica degli affetti familiari) e il concetto di pro­gresso come conquista faticosa e non sem­pre esaltante. Questi due motivi costitui­scono anzi i risvolti diversi di uno stesso momento ispira­tore: il ri­chiamo a una più semplice vita, priva di infingimenti, sof­ferta e meri­tata. In tale ricerca si muove lo scrittore, viandante incom­preso, il più delle volte, ma appagato dai pochi istanti felici che riesce a co­gliere e vivere (a dispetto della cattiveria da cui spesso è circon­dato). Solo chi si contenta, chi sa com­prendere le bellezze della vita nei suoi aspetti all’apparenza insignificanti, della vita è degno e non ne sente il peso. Non mancano pagine in cui protagonisti principali sono i ra­gazzi, i fanciulli, i bambini, irrequieti e giulivi nella loro ingenuità così fresca e spontanea.

***

Nicola Napolitano, Casale. Proverbi e modi di dire, Graficart

In qualche modo (non sembri facile retorica, parlando di Ni­cola Napolitano) il bambino che siamo stati continua a vivere in noi, sbalordito sempre che tutto sia sempre lì, come la vita. Quando poi si in­vec­chia, e più si sente vi­cino il traguardo, forse per evitare con uno stratagemma – apotro­paico totem – il redde rationem cui ci si sente chiamati, si gioca a fare il bambino e ci si riaccosta fiduciosi ad una mamma qual­siasi da cui farsi coccolare ancora una volta. Nicola Napolitano non ha mai perduto in cuor suo le carezze (pe­raltro spesso an­che rozze e certo mai gratuite) di mamma Caro­lina, ed è a lei che tor­na, a lei spirito della sua gente, e lingua del suo paese, in un’opera che avrebbe dovuto scrivere prima, se avesse vo­luto farsene bandiera: Casale, appunto. È un libro che, pub­blicato in altri tempi e con altri intenti, gli avrebbe valso il titolo – mai ambito – di cantore della patria o – in certi am­bienti del resto mai volutamente frequentati – quello di stu­dioso delle tradizioni locali, di cultore dei modelli linguistici ar­caici… Nicola Napolitano ha raccolto gli 836 “proverbi e modi di dire” del popolo ca­sa­lese perché ha sentito urgere inde­rogabile in sé lo stesso amore di mamma che in tempi an­cora vivi nella memoria lo aveva sorretto. Ne è venuta fuori un’opera di indubbio fa­scino, di pregevole caratura lingui­stica e di probante testimonianza etnolo­gica, ma lo scopo dell’autore era quello: riabbracciare finalmente insieme la sua terra e la sua gente, al di là delle incomprensioni e delle delusioni, perché in patria nessuno è mai profeta, si sa. Cuntatinu, scarpe grosse e cereviegliu finu. “Scarpe grosse, cervello fino”, si diceva, infatti, alludendo (anche se la rima era sot­tintesa) alla genuina intelligenza delle po­polazioni ru­rali, alla sag­gezza popolare di chi, pur non avendo avuto la fortuna di studiare, aveva a disposizione un libro  uni­ver­sale: il mondo di tutti i giorni, la vita di tutti i giorni. A Ca­sale di Carinola, in pro­vincia di Ca­serta, paese da sempre ad eco­nomia prettamente agricola, i conta­dini erano – e sono (quelli rimasti) – la maggioranza e possedevano una vastis­sima e pressoché infallibile cultura spicciola, a prova di let­teratura e filosofia. Ri pruerbi antichi nun falliscunu  (“I detti popolari non in­gan­nano”). Ora che a Casale è sempre meno viva la cultura autoc­tona, poi­ché anche il pic­colo paese è preda delle commi­stioni linguistiche tipiche della nostra era, questa rac­colta di “proverbi e modi di dire”, cucita brano a brano dall’autore (che alla terra è tor­nato dopo una vita dedi­cata alla cultura, privata ed ufficiale), amorosamente – ma non senza ama­rezza – e con il conforto di numerosi testimoni auri­colari, è il tentativo di far vivere oltre il tempo un patrimonio ine­stimabile di sa­pienza e di affetti, di tutta quell’u­manità che è stata lievito e lezione imperitura per la nostra stessa uma­nità, anche se spesso qualcuno di noi, schizzinoso, storce il muso non volendo ri­conoscersi figlio dei padri. Eppure, oce te populu, oce te Diu: nella voce del popolo di una volta era vera­mente la voce di Dio, come un altro proverbio re­citava. I temi ricorrenti  in questi proverbi sono – essi sì, forse – par­o­le d’altri tempi, salvo le eccezioni, pur nume­rose, che si riferiscono comunque a detti po­polari entrati nell’uso dell’ita­liano corrente e diffusi in tutto il ter­ritorio nazionale. C’è molta tenerezza in queste pagine, c’è il gusto di rias­sapo­rare un bene mai per­duto, anche se a lungo custodito in un recon­dito cantuccio dell’animo, che frattanto si era spinto “ad altri lidi”, ad in­seguire il sogno della “penna” (quella che non dà pane); e c’è pure l’amarezza di trovare tanta bellezza, tanta pulizia, tanta gioia, tanta onestà di un tempo affidate soltanto alle parole, che – se pos­sono fare da testimoni e consentono la memoria – hanno insieme il triste com­pito di curare l’esecuzione testa­mentaria di un patrimo­nio col­lettivo: Casale – il paese della memoria – non c’è più; ma rimane, rimarrà nelle parole degli avi, quelle che i gio­vani oggi fingono di ignorare, presi da miti estranei, vinti da sogni ancor più evanescenti del sogno della penna che un giorno prese l’autore di questa raccolta e lo portò a cor­rere le strade del mondo – ma senza perdere nel cuore la lezione del suo mondo, senza rinunciare a credere nella saggezza della sua gente, la sua. [1993]

 ***

Nicola Napolitano, Casale. Memoria del tempo che fu, Edizioni Eva

Nicola Napolitano continua a scrivere nella sua nota biobibliografica che è “nato da una famiglia di agricoltori. Ha lavorato la terra fino a 22 anni”… quella terra alla quale è tornato, con l’entusiasmo dei vent’anni, appena ha smesso di lavorare nella scuola, e finché le forze glielo hanno consentito. E poi si è dedicato alla ricostruzione letteraria del suo passato, prima atraverso l’amorosa raccolta dei proverbi paesani, infine con queste memorie del tempo che fu – per farne un “presente” ancora degno di essere ascoltato, come se fosse una storia di quelle che sua nonna gli raccontava da bambino, frutto di fantasia e d’esperienza, come quelle che sua madre, mia nonna, raccontava a me… Non riesco a concepire come si possa, pur nel mondo tecno-informatico che ci avvolge e ci protegge, ci seduce e ci sconvolge, dimenticare o fingere di dimenticare che veniamo da un’altra civiltà, genuina e sofferta, costruita sulla fatica di uomini e donne che ha segnato secoli di lenta evoluzione, e senza di quella, è addirittura ovvio ricordarlo, non ci sarebbe questa nostra civiltà. Il corsivo allude peraltro all’insistente dubbio che mi turba: siamo ancora, consapevolmente, cives di qualcosa? Ci sentiamo in qualche misura, in quale misura, appartenenti ad una società? Un tempo, anche i contadini, ignoranti per lo più, superstiziosi, avevano tuttavia una identità di appartenenza… sapevano di essere tali, masticavano amaro, certo, si nutrivano spesso di pane e lavoro e a volte di solo lavoro o nemmeno di quello, della speranza di averlo presto, ma sapevano di essere quel che erano e rispettavano i propri simili e coloro che, diversi, li rispettavano. Quanti di loro, oggi, ormai lontani dalle proprie origini, vorrebbero cancellarle come se bisognasse vergognarsene? Come se non si potesse essere dignitosamente quelli di una volta, pur cresciuti, pur trapiantati altrove, in un benessere un tempo impensabile e facilmente conquistato, anzi già ereditato da altri già fortunati… Quanti avrebbero il coraggio di ammettere di essere i figli di una cultura fatta di campi e raccolti, di tradizioni e sentimenti; quanti hanno ancora il rispetto di una tradizione senza sentirsi superiori al passato misconosciuto? Quanti sanno rispettare i propri simili, in nome e per conto di un progresso che è spesso un cumulo di soprusi e sopraffazioni, quanto diverso dalla comunione che un tempo faceva crescere insieme, secondo i meriti di ciascuno, tutti coloro i quali avessero voglia di lavorare? Nelle memorie di mio padre vorrei che si leggessero i destini che ci aspettano. La semplicità di Salvatore (che ebbi la fortuna di conoscere) e degli altri protagonisti di queste pagine dovrebbe guidarci a ritrovare una via alla nostra umanità, la più profonda, la più semplice e vera. Mio padre contadino fino a 22 anni ha ereditato dal suo la volontà di essere nella natura un elemento portante, non un approfittatore, ha imparato a seminare, a innestare, a produrre, a far crescere… misurando le proprie forze ogni volta che un impegno lo richiede, nel rispetto dell’ambiente dal quale si deve chiedere solo quel che può dare. Ecco perché tutti quelli che avranno in mano questo libro – specie i più giovani, i “nipotini” presenti e futuri che non vorranno dimenticare i nonni -, se faranno attenzione e coglieranno il messaggio di affetto e simpatia che vi è contenuto, potranno guardarsi allo specchio con rinnovata fiducia in se stessi: hanno un compito da compiere, una strada da percorrere, hanno in dotazione un presente frutto/eredità di un passato da vivere intensamente, perché sia il loro futuro, e il futuro di quei nonni finalmente realizzato, oltre i confini che a quelli non furono concessi. [2000]

 ***

Nicola Napolitano, Ottantacinque poesie, Edizioni Eva

Sono trascorsi 45 anni da La terra fiorirà, una vita fa, e quanto mi sembrano remote, quelle poe­sie! Ma pure in quelle pagine mi capitava di leggere in cerca di significati nascosti, curioso esploratore nel viaggio incantevole che mi accin­gevo a compiere nel mondo della parola e della carta stampata. Ti­toli e imma­gini, come in “Fili d’aria”, anche nella loro astrattezza, mi evocavano mondi inco­nosciuti e fascinosi, quasi quanto di lì a poco mi avrebbero suggestio­nato le storie avventurose di Sandokan e dei mille eroi letterari, com­pagni dei miei sogni. Ma, insieme alle esotiche figure di Sambigliong e Kamma­muri, mi sono rimaste im­presse, dalle letture di quegli anni, anche “le donne avvizzite come gambi di carciofi”, con­crete come “la madre vigorosa con la falce in mano”. La lezione della poesia di mio padre – vederlo all’opera, com­porre, seduto spesso sotto un albero in campagna mentre gio­cavo con mio fratello, o in casa nella sua came­retta, al tavolino con la luce bassa; assistere addirittura complice alla revisione dei versi (quelle sue cento varianti che mi stupivano, perché per me – roman­tico inesperto! – era sempre da preferire la prima forma uscita spon­tanea, piuttosto che quelle suggerite dalla riflessione successiva); dettargli i testi quando li batteva a macchina per partecipare ai con­corsi – la lezione di mio padre fu per me la scuola mi­gliore che po­tessi avere, da quando ebbi come obiettivo la scrittura, e malgrado negli esiti rag­giunti non ne abbia appa­rentemente tenuto conto, ma di un insegna­mento ho fatto certo tesoro: ognuno ha la sua chiave – sii la tua! Im­por­tante, quando ci si dà, è dare se stessi come si è, come si sente di dover essere. Altre coincidenze hanno fatto nascere questa antologia. Mentre io pensavo a che regalo fare a mio pa­dre per gli 85 anni (per gli 80 avevo preparato Ce­nere), egli pure concepiva questa idea, non avendo ormai da anni libri di versi suoi da regalare agli amici, proprio mentre io pen­savo a regalargli una silloge di 85 poesie…. Così abbiamo lavorato (quasi) insieme. Non abbiamo gli stessi gusti in poesia, è risaputo, ma abbiamo gusti difficili en­trambi. Siamo però sempre stati abbastanza imparziali, per non il­luderci a vicenda, lesinando anzi i complimenti per timore di cre­derci davvero; ma sapevamo di poterci fi­dare del la­voro fatto, cia­scuno per suo conto. Alla fine il libro suo l’ho costruito io. Una scelta antologica, va da sé, è sempre un’operazione sog­get­tiva e discutibile, e rischia di fallire anche l’obiettivo minimo che si prefigge: rappresentare criticamente l’autore antologizzato, il quale finisce spesso per essere vittima di chi sceglie per lui Come un cero e Ciclamini erano già signifi­cative (auto)antologie di Nicola Napoltano ma da tempo anch’esse esaurite. Queste Ottantacinque poesie (solo una è inedita, e sei sono uscite sul “Foglio volante”, e “Il croco”) vengono in gran parte dalle versioni che l’autore curò per quelle pubblicazioni, ma in parte dai volumi in cui appar­vero la prima volta. Ho preferito le prime versioni quando i rifacimenti mi sono sembrati meno efficaci dei testi origi­nali – licenza poetica mia! ma peraltro credo di essere ri­uscito a non cedere all’onda del senti­mento. Questa raccolta, insieme a Cenere e al volume di letture criti­che Scrittori contemporanei, uscito poco più di un anno fa, contri­buirà a ri­cordare e sottolineare l’importanza del la­voro letterario di Nicola Na­politano, un poeta rimasto negli anni sorprendentemente fedele a se stesso, nella france­scana lettura del suo mondo poetico di piccole cose e grandi sentimenti (e più che “epigono” dei crepusco­lari, un Pa­scoli un po’ cresciuto ma molto più arrabbiato con la cat­tiveria umana; e senza paura della retorica, ma non quella roboante dei tromboni del foro presi in giro da Totò, bensì la persuasiva, sua­dente musica delle parole di un amico che sa, e “onesto”, come Saba vo­leva). Gli elementi fondanti della sua poesia sono rimasti gli af­fetti familiari e le radici campagnole; per questo ho voluto in epi­grafe la poesia che scrissi per i suoi 70 anni e diede il titolo ad uno dei miei libri più importanti. E per questo, au­guran­dogli di vivere an­cora scrivendo (e costringendomi ad una seconda edi­zione di quest’antologia), glielo dico alla paesana: pe’ cient’ann’! [1999]

  ***

Nicola Napolitano, Scrittori contemporanei, Il Ponte

In un primo libro di letture (del 1974), nel quale si poteva leggere piuttosto un omag­gio af­fettuoso agli amici, ma insieme l’ansia di te­stimoniare una fede nella parola che si fa lievito di vita, era già tutta la poe­tica di un au­tore pro­fon­da­mente, forse soltan­to umano, at­tento in particolare ai valori mo­rali e ci­vili, nella lettera­tura contemporanea, so­prattutto quelli espressi senza cla­mori, senza infin­gi­menti artistici, senza rinunciare a farsi com­prendere dal­l’uomo. Dopo vent’anni, altre letture si erano accumulate sulla scri­vania ed occorreva che non rimanessero lì, carta da pol­vere. Chi scrive per passione, anche solo per comunicare agli amici le proprie impres­sioni, sente poi quasi ine­luttabile il richiamo della stampa. Questa nuova raccolta di letture è la sintesi di ven­t’anni di at­ten­zioni al lavoro di scrittori per lo più minori, troppo spesso pas­sato sotto silenzio dalla critica ufficiale (sempre lati­tante quando ha il compito di segnalare il buono nel nuovo, prima ancora di confer­mare il vecchio, an­corché cattivo), quella critica alla quale in fondo è sfug­gito lo stesso lavoro di Nicola Napolitano, il quale dunque compie una specie di missione pri­vata, quasi una ne­cessaria nemesi: fini­sce cioè per salvare sé negli altri; dichiarando la validità delle opere che gli piac­ciono, af­ferma un gusto, un suo gusto, se stesso. Si legge molto spesso quel che si è, infatti, cer­cando nel la­voro altrui le proprie coordinate operative. Lungi allora dalle sterili mode più o meno sperimentali, in cerca di voci genuine, semplici, sponta­nee, non si nega il plauso e non si cela l’entusiasmo per i fra­telli di cordata riconosciuti tali lungo il cammino, arduo, sofferto e proba­bilmente (ormai!) piuttosto improvvido; ma la fiducia nelle capacità formative della poesia rimane intatta, ed è ancora una mis­sione quella del poeta, il quale deve farsi capire – senza ar­rampicarsi su­gli specchi impervi della retorica – con “suadente musica­lità” e “flessuosa scorrevolezza”.  È vero che si finisce, scrivendo, a volte, almeno, per “scrivere più per se stesso più che per gli altri”. Chi scrive e vor­rebbe essere letto in un certo modo fini­sce anche per leg­gere come gli piacerebbe scrivere, come crede che si debba scrivere. E legge la pro­pria vita, in quel che legge, per cui queste letture di Nicola Na­politano per­mettono di leg­gere ancora la sua poetica e – forse coin­cidono! – la sua con­cezione dell’esistenza, non molto lontane da quelle che esponeva una ventina di anni fa ma pure arric­chite an­cora della co­noscenza che intanto ha fatto del­l’uomo e del mondo, con un pizzico in più, pur­troppo (ma è colpa del­l’uomo e del mondo di questi ultimi anni), di ama­rezza, scet­tici­smo, disin­canto. Il fluire della vita, inarrestabile, incontro alla morte; il senso del tempo dunque, l’amara e consapevole sconfitta dell’uomo contro l’es­sere: sono le costanti riconoscibili in queste letture in cui l’autore letto diventa quasi uno spec­chio nel quale guardarsi e con­trollarsi: un’altra ruga, pen­sosa, dovuta alla cattiveria del mondo, affiora e fa più vec­chi, ma pronti a rendere conto della propria esperienza umana. Ai giovani va l’augurio, per­ché sappiano come non perdere quanto di buono si accingono a fare; per i vecchi invece è la com­prensione (l’umana partecipazione) di chi sa bene quali tormenti hanno sempre accompagnato e con­trassegnato l’esi­stere. Sembra un ritornello, può anche sembrare eccessivo il ritor­nare su certe conside­razioni: siate semplici, rispettando la natura, non ce­dete alle lusinghe dell’eccessivo be­nessere, della tecnologia… Non è lontano nemmeno quel “rischio di apparire un nichilista sfi­du­ciato” che viene attribuito a qual­cuno degli autori recensiti. Ma è la paura del mo­stro che può diventare l’uomo assetato di successo e si­curezza ad ispirare queste rifles­sioni, a nutrire la pena ed a muo­vere simili esorta­zioni. La co­scienza dell’artista non am­mette com­pro­messi. Profonda è l’attenzione (e convinto l’apprezzamento) per gli au­tori che si sarebbero detti un tempo “impegnati nel sociale”: ad essi è dedicata la riconoscenza umana per la fiducia che mostrano nei valori eterni della bontà, negli af­fetti familiari, nell’uomo come creatura pri­vilegiata del creato, ma non per questo sempre ‘superio­re’, anzi (è facil­mente in agguato il rischio di “imbestiarsi”, e sem­bra quasi un’of­fesa per le bestie comuni). Par­ticolamente intensa ap­pare dunque la ripulsa per la guerra e la violenza, di ogni tempo e di ogni dove, spe­cie quella che sottomette i “poveri cristi, inchiodati alla croce della loro miseria e perseguitati dalla malasorte e ancor più dall’egoismo e dall’indifferenza dei più forti e dei più fortunati”. È  improbabile che “i re­sponsabili delle sorti dei popoli” ascol­tino (sempre am­messo che la leggano) la voce del poeta, ma sperarlo è bene augurante, crederci, a volte, indispensabile. [1997]

***

Vittorio Nocella, Nel vento le radici, Rari Nantes

***

Vittorio Nocella, L’amore dall’inizio, Servitium

Solo un folle poteva concepire un’impresa titanica e messianica com’è questo libro straordinario di Vittorio Nocella… un poeta d’altronde un po’ pazzo lo è, e Nocella è poeta, anche se di non molti libri. Ed è anche pazzo d’amore, come si dichiara in L’amore dall’inizio. Questo suo libro è uno di quelli che qualcuno definirebbe necessario: lo è poiché l’autore doveva esporsi al rischio del banale, esemplificando il Prologo del Vangelo di Giovanni in riflessioni liriche (“osservazioni in forma di poesia” le chiama lui), doveva farlo per convincersi di poter superare la prova (con l’aiuto dell’Altissimo di cui canta le lodi insieme a Giovanni), come riconosce – dopo l’iniziale perplessità – lo stesso padre Sorge nella lettera che introduce alla lettura dell’opera. La follia dell’amore per la verità, quella a lungo cercata – nello studio, nel lavoro, negli affetti, nella scrittura – e infine trovata in sé (Agostino pure avrebbe indicato questa via), l’amore della verità consente di trasformare il genitivo da soggettivo a oggettivo: è la verità infine che ama chi la cerca, proprio perché si fa trovare dove era sempre stata – in sé. “Quando ama nessuno sta più solo” – ecco dunque il senso di questa ricerca affannosa all’inizio e soddisfatta al termine dall’appagamento completo e convincente. Il poeta lo dice e lo ripete: “ho scoperto che il viaggio dentro me stesso era finito / che da sempre mi avevi preso per mano / e che non ero più lo stesso”: il finale di “Ma le tenebre non l’hanno accolta” può prendersi a logo dell’intera silloge. È l’amore la forza guida, nell’amore ci si ritrova in compagnia, prima di se stessi, poi del prossimo, poi del mondo e infine della verità. Ha ragione Walter Mauro che nella prefazione sostiene: “Il binomio e l’equazione Amore/Parola tendono a configurare un progetto di lavoro poetico totalizzante”. È vero: qui tutto riesce poiché Vittorio Nocella si è messo al lavoro con la convinzione profonda di avere a portata di mano l’appiglio giusto, partendo dalla sua formazione ideologica ed estetica, mettendo in gioco totalmente la sua umanità di credente e di scrittore. Ed ecco perché ha potuto prendere “il volo senza più paura”.

***

[468] Giulia Notarangelo, Come se il tempo, Tabula fati

Notarangelo

Fedele al suo stile, denso, per nulla compiaciuto – che, a giudicare da certi riferimenti biografici e allusioni private, dev’essere anche uno stile di vita –, Giulia Notarangelo pubblica il suo secondo libro di poesia, Come se il tempo. E appunto come se il tempo non passasse per lei, si scopre la stessa autrice del primo libro, La teca di cristallo, di tre anni fa (in quella “teca”, chissà quanto metafora del fare poesia, ancora lei si protegge). Sfida e scudo all’indifferenza, all’ipocrisia, “a tanta indifferente ipocrisia”, la sua ricerca poetica la porta in salvo (almeno provvisoriamente) in un sorriso, in uno sguardo compassionevole, senza eccessi verbali o sentimentali, composta anzi la sua attenzione al mondo in un abbraccio discreto, in poche parole mirate. Così la sua vita sofferta, e sia pure ricca di soddisfazioni umane e professionali, si riscatta e si rilancia, facendo “scivolare le parole come granelli di sabbia”, e lenisce, cancella il dolore. È una dichiarazione “pessi/ottimista”, come Giulia definisce se stessa, dichiarandosi ormai rassegnata al mondo – ma non ancora doma, “mai paga”, anzi convinta cercatrice di bene. È vero, deve appoggiarsi ai ricordi, rievocare figure amiche, navigare il sogno (struggente desiderio, come scrive nel testo conclusivo di Come se il tempo); è vero anche, proprio perché il tempo passa inesorabile e sembra rubarci illusioni e speranze, che bisogna saperlo affrontare, combattere. Giulia Notarangelo litigava col tempo già nel suo libro d’esordio, ma seminava “briciole di speranza”, malgrado “gli inganni del cuore”: la sua poesia le ha sempre consentito spazi di esistenza nei quali sapersi più forte, dai quali trarre buoni auspici. È una formula che risolve problemi difficili, la pratica della poesia, finanche modulando versi dall’aspra scansione, tentando vette espressive con (apparente) minimo sforzo e (profondi) esiti di umana confidenza. Come se il tempo (da apprezzare al solito l’eleganza della confezione editoriale) si articola in due sezioni:Haiku” (appena tredici, stilettate di “parole sfida”, anche se “senza peso” – il peso lo avranno quando toccheranno un’anima sorella), e “Memoria”, sezione molto più corposa, ricca di emozioni partecipate. Testi a volte rarefatti nella scrittura, a misurare un tempo interiore, sempre scandito nei versi come fossero momenti condivisi. Come se il tempo, appunto, fosse per lei solo quello del calendario, non una forza nemica che scava dentro… Dentro, invece (e lo confessa nell’epigrafe dantesca: “Io mi son un che, quando Amor mi spira…”) ha una passione che urge e vuole comunicare un’interiore dimensione bisognosa di “altri”, di confronto umano, nella decisa aspirazione ad un “oltre” ancora lontano ma prossimo all’orizzonte [2018].

***

Piergiorgio Odifreddi, Come stanno le cose, Mondadori

 È un libro che andrebbe adottato nelle scuole, forse non solo nei Licei – ma non per farlo leggere agli alunni: i professori dovrebbero farne tesoro, e imparare come si può “rendere attuale” un classico (è la pena comune che attanaglia, non da ora, l’intera scuola italiana, docenti e discenti). La sfida che Odifreddi vince in apparente scioltezza è infatti quella di presentare Come stanno le cose, cioè il De rerum natura di Lucrezio, in una versione in prosa ma di sicura presa letteraria (anche se, aggiornando il lessico, depurata di qualche luogo oscuro), e arricchita da numerose considerazioni, riflessioni, osservazioni, citazioni, suggestioni che rimandano per trame complesse all’opera lucreziana. Come appunto dovrebbe (saper) fare un docente liceale che volesse (al passo con i tempi, ma consapevole di quanto tempo sia passato su Lucrezio e il suo poema) comunicare ad una scolaresca – per lo più distratta e magari pregiudizialmente lontana dai “classici” – quanto sia ancora importante non soltanto il messaggio ma il contenuto stesso del De rerum natura. Operazione difficilissima, si sa, che però Odifreddi trasforma – esperto divulgatore non solo, ma certo intellettuale di vasta cultura e vasti orizzonti – in una piacevole passeggiata pedagogica. Almeno uno che già conosca Lucrezio, si diletta a questa mensa imbandita di mille saporose vivande. Il libro è bello anche da vedere: averlo fra le mani e leggerlo è una riconciliazione con la carta stampata, anche se la grafica ammicca non poco all’informatica. Le citazioni in diversi colori, l’uso del corsivo e del grassetto, l’immenso apparato iconografico pluridisciplinare fanno pensare alle policrome schede di un’enciclopedia virtuale. Ma in questo caso la presentazione così colorata vuole proprio essere un mezzo per il fine – e funziona, quindi, va bene com’è. Alla fine, chi abbia la pazienza di seguire le vie chiaramente proposte da Odifreddi nel suo cammino, ci si trova più ricchi senz’altro, soddisfatti di un nuovo sapere che riempie lacune e schiude passaggi per altre scoperte. Perché così si invoglia pure a leggere altro, a percorrere altre strade incontrando i testi che meritano di vivere sempre.

Odifreddi.jpg

***

Monica Osnato, Impermanenze

La poesia di Monica Osnato graffia i sensi perché nei sensi è incisa – è senso, quasi sempre, e cerca “corrispondenza di amorosi sensi”, magari non proprio alla maniera foscoliana. Comunque la si deve leggere – specie in certi esiti (“L’oasi e la neve“, ad esempio) – con i sensi vigili, pronti a coglierne umori e sentori, “fiori innocenti” che sono le sue parole di carne, se “il rivelato biancore del gesto” schiude segreti passaggi per penetrare “in distanze lontanissime” e ritrovarsi, perché è vitale farsi prendere e “spalancare / tutto quello che ancora non è stato”. È un invito al volo, al distacco dalla terra quotidiana, un abbandono consapevole (o forse nemmeno tale) alle dimensioni altre che sono custodite nel nostro io – che solo cerca stimoli e deve saperli riconoscere, però, se non vuole restare solo. Malgrado la retorica di qualche vezzo linguistico, la poesia di Monica Osnato sa di poter continuare ad abitare presso di noi: “Impermanenze” è un titolo ambiguo (oscilla tra ossimoro e tautologia!), giocato sul desiderio di rimanere e l’ansia del tempo che passa, con il gusto della luna che (“è un gioco che può diventare luna” – dice Monica) – non tanto leopardianamente – partecipa e si lascia sussurrare anche lei parole (“la parola che adesso ti dico”). Le poesie pubblicate qualche anno fa in “Viaggio clandestino” – con traduzione in serbo (ed era una raccolta di “poesie scelte e inedite”) – riassumono temi e stili di un’autrice complessa, ma che pure si fa scoprire ad apertura di libro, anche a caso, poiché ovunque risuona il ritmo del suo dire. E presto quel ritmo è chiaro, nel suo agile farsi di versi, nel suo darsi e celarsi, nel suo frangersi – onda di spume leggere (“dove la voce dell’onda implora”) – contro uno scoglio che si lascia sedurre, abbracciare e conquistare. “Mi hanno assegnato la parola” – scrive Monica, consapevole di un ruolo che non è soltanto raccontarsi, ma darsi nel suo lirico proporsi come storia raccontata. E quella parola costringe a fare i conti con se stessa e la voglia di essere se stessa – ma (“Non ho ed ho. Piccola cosa immersa nel buffo eterno”) infine ci si riconosce strumento, e i conti bisogna farli con autoironia, per evitare di cadere nell’ostentato smodato apotropaico offrirsi a modello (e dunque, “In segreto”, “ridere di me che ancora esisto” – terribile presa di coscienza? no, piuttosto disincantata volontà di andare comunque a “vedere” cosa c’è oltre… “lasciando dimore antiche per un nuovo errare”.

***

Palmieri

Francesco Palmieri, Il libro napoletano dei morti, Mondadori

Ogni tanto (nemmeno tanto di rado), qualcuno torna a dire che, una volta, Napoli… ma com’è che – pur sapendo e ricordando che una volta… – non si riesce a mettere un po’ le cose a posto, per un po’? Così Napoli rimane (non la sola, certo) un’emergenza continua – tipico ossi­moro all’italiana. Tant’è: chissà se passerà davvero “la nottata”. Stavolta, le amare considerazioni storico sociali in proposito sono messe in bocca ad uno che se ne intendeva (per dare alla que­stione anche un pizzico, ed è un vezzo tipico anche questo, una patina di letteratura – e la scrit­tura di Palmieri, d’altronde, è di fine espressività, e dà la gioia di leggere). Il protagonista nar­rante di questo Libro napoletano dei morti è infatti Ferdinando Russo, scrittore e uomo di mondo vissuto un secolo fa. Il quale, fra il divertito e l’incredulo, la rabbia e lo sconforto, cita numerosi esempi di malaffare e di morti ammazzati (o suicidi) “dall’Unità d’Italia alla prima Guerra mon­diale”. Così compaiono Ciccio Cappuccio e Carmine Crocco, sospesi fra cronaca e mitografia, insieme a de Sonnaz e de Christen, insieme ai tanti che – a Napoli e dintorni – hanno attraver­sato la Storia quasi galleggiando sulle sventure altrui ma pagando a volte di persona. Storici di fede borbonica o anti, comunque riconoscono l’esistenza di una camorra “in frak e guanti gialli”, oppure “in guanti bianchi ed abito nero”. Ci sono denunce di Scarfoglio (oltre un secolo fa), per quanto intrise di eccessivo livore, che ancora suonano familiari. Come ricordare che alla fine dell’800  “il Municipio di Napoli diventava un centro per lo smistamento di favori, appalti, scambi, e clientele”… – certo, non solo a Napoli, ma perché a Napoli sempre di più? La scelta di don Ferdinando come narratore di questi “morti” appare particolarmente azzeccata. Personag­gio poliedrico, visse consapevolmente da guappo, esponendosi al rischio continuo di incidenti sul lavoro… Morì poco dopo i 60, come si moriva una volta, di polmonite. Giornalista e poeta, usò per primo la parola “scugnizzo” (colui che vince allo “strummolo”, la trottola; chi se ne fotte della vita). “Non era tanto l’immoralità a crescere, quanto la vergogna a diminuire”: messa in bocca a lui, sa tanto della crisi etica che ci attanaglia. Beata immobilità!

***

Adriana Panza, Tra storia e vita,  Edizioni Eva

La pratica dell’insegnamento traspare potente in queste pagine dense di fatti e notizie, sentimenti e conoscenze. L’autrice, infatti (nata all’alba della seconda Guerra), ha vissuto da bambina episodi terribili, ma ha fatto anche esperienze esaltanti. E racconta tutto giustificando ogni privato evento alla luce di quanto avveniva intorno a lei. Ogni occasione è buona per una digressione storica, scientifica, geografica… Una città, un popolo, un edificio, un personaggio storico, un paesaggio africano, un animale esotico, tutto è pretesto per una piccola lezione – come fosse ancora a scuola, come se avesse sempre davanti l’attenzione degli scolari da interessare, da colpire, da stupire. La chiarezza espressiva, la sobrietà nel descrivere, la padronanza degli argomenti, sono i pregi di un libro che si legge volentieri proprio perché la precisione dei dati storici e scientifici, fra il didascalico e il pedagogico, e la vasta conoscenza di ambienti e persone, contribuiscono a coinvolgere il lettore in un grande gioco ad incastro. Dante che finisce in pasto alle oche (nel senso del libro della Commedia…); la funivia che saliva a Montecassino; la Madonna del Dosso e le altre Madonne di Ciociaria; l’arrivo della televisione con Mike Bongiorno; il benessere degli anni ’60… Sono moltissimi gli episodi che all’autrice sembrano significativi, ai quali dedica riflessioni e descrizioni: momenti e personaggi che ritiene di dover trasmettere alla memoria. Importanti peraltro certe considerazioni di carattere storico, morale, sociale, culturale, che Adriana Panza sparge qua e là con apparente nonchalance, ma sono il segno evidente della passione che guida la sua narrativa: quando visita il cimitero con Ahmed e si commuove con lui al pensiero che “siamo tutti uguali” (come non ricordare Totò e la sua livella?); quando condivide l’orgoglio paterno per aver messo a punto il nuovo alfabeto somalo… L’autrice di queste memorie private, tra storia e vita, vuole proprio sottolineare quanto le vicende familiari siano determinate dal corso generale degli eventi, e insieme questi, i grandi fatti che fanno la storia con la maiuscola, devono comunque tener conto dei tanti fatterelli della gente comune. La vita di una persona non è mai solo la sua, così la storia di un Paese è la somma di tante vite.

***

Adriana Panza, Il coraggio di vivere, Edizioni Eva

Raccontando la sua vita, Adriana Panza offre un modello di confronto che potrà pure apparire datato, specie quando rievoca la sua lunga permanenza in Africa (“la mia Africa”, come la chiama lei), ma è certo ricco di stimoli, se appena si fa attenzione alle componenti umane di quel modello d’esistenza. Tempi duri, quelli della Somalia degli anni sessanta-settanta del Novecento, e dell’Italia pure, specie quella meridionale, che appena cominciava ad uscire dal periodo buio culminato nella seconda Guerra mondiale. Si stava un po’ meglio di prima, certo, ma i piú avveduti facevano comunque attenzione a non sprecare. Una famigliola del ceto medio poteva cominciare a concedersi un piccolo lusso, un’auto nuova, un viaggio. E qui ritorna la maestra che è stata: come in altri suoi libri, Adriana alterna la narrazione in prima persona degli eventi alla descrizione storica e geografica, e antropica e culturale, dei luoghi in cui quegli eventi si sono svolti, e delle persone con le quali sono stati condivisi. Il lettore viene così guidato in una specie di viaggio d’istruzione, entrando in una enciclopedia condensata, in un fantastico atlante storico-geografico ricco di puntine colorate. L’autrice di queste memorie private, “tra storia e vita” (Tra storia e vita è il titolo di un altro suo libro simile a questo), vuole proprio sottolineare quanto le vicende familiari siano determinate dal corso generale degli eventi, e insieme questi, i grandi fatti che fanno la Storia con la maiuscola, devono comunque tener conto dei tanti fatterelli della gente comune. La vita di una persona non è mai solo la sua, così la storia di un Paese è la somma di tante vite, e alla fine si deve guardare avanti e indietro al tempo stesso, e di lato anche, se si vuol crescere sicuri, se si vuole provare a costruire su terreno stabile. Gli anni vissuti in Somalia – già lo sappiamo, se di Adriana abbiamo letto altre storie – furono particolarmente intensi e ricchi di soddisfazioni (nonostante il terribile lutto da cui parte in quest’occasione la cronaca familiare della nostra autrice, sconvolta per la perdita di marito e figlioletto in un incidente di montagna). Figlia di un benemerito della cultura e della divulgazione culturale, in un Paese arretrato e privo di identità linguistica, Adriana maestra in terra straniera si trova infatti lei stessa a combattere per la crescita dei suoi piccoli allievi. E dedica loro una passione moltiplicata dalla mancanza di un figlio proprio. Accurate, di rilievo, sono tutte le digressioni storiche e antropiche, nelle quali la maestra Panza sciorina la sua conoscenza professionale e l’abilità comunicativa che segnava le maestre di una volta. Notevoli soprattutto le precisazioni su fatti e personaggi che conosciamo, magari dalla Bibbia, come la quasi mitica regina di Saba: il Kebra Nagast (“Gloria dei re”, 14° sec.) narra che la regina, cui è dato il nome di Makeda, si sia recata dall’Etiopia a Gerusalemme, dove da una relazione amorosa con Salomone nacque il figlio Menelik, mitico progenitore dei negus salomonidi. Il decennio degli anni Settanta, si diceva, è il cuore della narrazione. La protagonista attraversa fasi alterne, tra fiducia e sconforto, ma prevale la sua forza, la sua determinazione nell’accettare sempre con serena fermezza le prove a cui la vita la chiama. In queste sue pagine vivono le persone che le sono state vicino, ricordate negli episodi ai quali lei è piú legata. E che fa rivivere per noi come se ci accompagnasse in un museo personale. Il campeggio alle Tremiti e Patty Pravo, il soggiorno in Sardegna e il viaggio a Barcellona, la piccola “500” gialla e il referendum per il divorzio… Fatti privati che si incastrano nelle grandi vicende storiche: così va il mondo, così scorrono gli anni che ci è concesso di vivere.

 

 

 

 

Arbasino – Afa – AsoicNaic (Rotunno) – Andreoli – Agosti – Baccalario – Baldacci – Bohorquez – Bisutti – Brevini – Brancaccio – Bonanate – Beccati – Busà – Bussi – Buscemi

Alberto Arbasino, L’ingegnere in blu, Adelphi

È stato riconosciuto da più parti: forse Arbasino era il solo che potesse scrivere una biografia (che di fatto poi non lo è nemmeno) del più irregolare tra i nostri scrittori novecenteschi: Carlo Emilio Gadda. E questo suo L’ingegnere in blu è infatti un omaggio al maestro riconosciuto di una intera generazione di scrittori in qualche modo considerati outsider, non molti, in verità, ma tutti con le stimmate del ricercatore appassionato che fu appunto il gran lombardo. Al quale Arbasino si rivolge con devota ma pure divertita stima, e ne fa un ritratto altrettanto “irregolare”: da buon “nipotino” che ne ha ereditato l’eclettismo e l’ironia, tratteggia del nonno la vita attraverso una serie di aneddoti e di minuzie esistenziali che poi sono la stessa cultura di Gadda, la sua educazione in qualche modo periferica ma irrinunciabile e infatti mai rinnegata. La caratteristica principe dell’autore del Pasticciaccio è la lingua, la sua intraducibile lingua (lombarda di matrice domestica e romana acquisita e deformata nei libri), un vero rompicapo per i puristi e culto per gli ammiratori delle sue infinite acrobazie espressive. Arbasino rievoca le tante e tante invenzioni e i recuperi semantici ai quali l’ingegnere ci ha abituati – e non lo riconosceremmo diversamente. E lo fa attraverso tutta una serie di citazioni dai testi, da private conversazioni… la sua biografia è una bibbia gaddiana che avrebbe meritato alla fine addirittura un indice dei nomi e un apparato sistematico dei luoghi citati. Ne avremmo ricavato un manuale di approccio all’opera di un artista imparagonabile. Comunque Arbasino, anche polemico a volte, ci consegna un apologo che è impossibile etichettare, ma va gustato per come è, o detestato per gli eccessi che pure lo animano (come succede per lo stesso Gadda, del resto, autore che si ama o meno, ma non si può ignorare).

 ***

Maria Afa Tiranti, Polvere di cuore, Aletti

È importante sapere, ai fini dell’analisi critica, non per altre morbose antipatiche curiosità anagrafiche, a che età è stato scritto un lavoro, l’arco di tempo in cui si è evoluta la composizione di un libro, che poi viene messo a disposizione di un lettore che lo consumerà (chissà quando) a suo piacimento. Esordire a vent’anni è quasi di moda: si fa un bel libretto (lo si stampa o lo si mette in rete) ispirato a modelli appena assorbiti, si riceve qualche lusinghiero incoraggiamento (un ad majora non si nega a nessuno)… e si crede di meritare il titolo di poeta. A volte si aspetta un po’, si arriva alla prima pubblicazione più tardi, già affermati magari nel lavoro, per contare sugli amici già acquisiti, sul giro delle conoscenze più o meno interessate. A volte si ha bisogno – non si aspettava nemmeno un momento che invece arriva da sé: è quando il cuore dell’uomo si spezza (e nemmeno tanto metaforicamente, in certe dolorose occasioni, in certe lancinanti circostanze in cui sembra davvero di dover raccogliere i frantumi dell’essere travolto dagli eventi), e quando il cuore si polverizza, quella polvere va regalata, perché tutti se ne possano servire. Ecco Polvere di cuore di Maria Afa: una necessaria donazione di sé in forma di parole. Non occorre forse parlare analiticamente dei contenuti e delle forme di questo libro. Va letto interamente come un racconto, tanta e tanto evidente la compattezza che lega i testi, sul piano tematico e di conseguenza anche su quello stilistico. Non mancano comunque esempi, che si possono citare a campione, di come agisce Maria Afa nel costruire e proporre in forma poetica le sue riflessioni umane, le sensazioni e le suggestioni provate, i desideri le illusioni i sogni, le cattiverie e le miserie umane subite. In “Preghiera per la pace” ci sono quattro versi monoverbali, costituiti da una sola parola: “Signore”, “manda”, “manda”, “pace” (notevole anche la ripetizione che rafforza l’imperativo). È una poesia nella poesia, una sintesi estrema della fiducia riposta nell’Altissimo. In “Coma”, due volte, è espresso il contrasto qui/oltre, nella domanda/risposta “ma c’è questa luce? / Io sono al buio e ti penso”… (la luce che dopo la morte dovrebbe essere la nuova dimensione, e il buio che riveste l’esistenza terrena orfana della persona cara). In “Coincidenza degli opposti” l’enjambement fra i primi due versi provoca quasi un corto circuito della mente. “Ho sfidato uno specchio / rotto guardandoci dentro”… Come si è rotto quello specchio? chi l’ha rotto, e perché? In “Vita apparente”, “Cenere d’amore”, “Mille perché” ricorre l’ossimoro della solitudine compagna…: “sola in compagnia / di fragorosi silenzi” (addirittura doppio ossimoro!), “unica compagnia la tua assenza”, “l’unico compagno / è la sua assenza”, scrive Maria. Probabilmente volendo affermare, nella disperazione della solitudine, nella consapevolezza di una mancanza, comunque una forza interiore cui aggrapparsi e cui affidare l’augurio di una rinascita. “Dentro mi cerco e non mi trovo mai” è tra i versi più significativi del libro (come pure il titolo del testo da cui è tratto: “Anima d’artista”, del quale è una tautologica spiegazione): eredità letteraria della poesia classica, può darsi ma conta poco. La citazione assimilata equivale al possesso: “la poesia è di chi gli serve”… Qui, nella ricerca infruttuosa di un sé nascosto, è lo scacco provvisorio dell’artista che comunque è conscio dell’impegno privato/pubblico che lo guida (e a volte lo sorregge): tendere alla parte migliore di sé, ovunque sia.

***

asoic

Asoic Naic, Una ragazza del sud, Guida

Per aver dovuto sempre troppo comprendere – sempre pagando in proprio, in vita regalata (o sprecata, nella ricerca di affinità sempre sfuggenti) -, per aver dovuto aspettare tanto una carezza quando ne avvertiva il bisogno, la “ragazza” ormai donna – ma ancora bambina nell’animo, nei sentimenti e nei sensi stessi custoditi con ingenuo stupore – la figlia del sud che ha conosciuto del nord più le delusioni che la salvezza sperata, conserva comunque una straordinaria capacità (e volontà) di comunicare. Se si decide, alla tenera età di ottant’anni (senza ironia perché con serena e distesa partecipazione Asoic Naic racconta le sue vicende – vere, purtroppo e dolorosamente ricordate, ma quasi con distacco, aiutata dalla lente dell’età che smorza i toni e asciuga l’espressione), se aspetta una vita per raccontare una vita, la ragione in definitiva è in quella piccola materna presunzione di poter essere utile… La funzione pedagogica della letteratura – specie quella memorialistica, fondata sulla credibilità dell’esempio – è una delle molle più forti, più della voglia di dire, dell’esigenza di scaricarsi, che hanno convinto una donna a liberarsi sulla pagina delle antiche paure, dello stesso pudore di una vita passata a nascondere ambizioni e pulsioni, a mascherare atteggiamenti di circostanza, ad essere – a dover essere – quel che conveniva più di quel che si sentiva. Per aver avuto diversi cattivi insegnanti e per essersene fidata anche troppo, l’alunna modello del tempo che fu ha continuato a studiare ed ha continuato a credere nell’esempio che si fa insegnamento, poiché è credibile – e pertanto deve essere onesto, rigoroso. Al maestro si chiede onestà intellettuale, rispetto dell’allievo, disponibilità a mettersi in gioco in un processo formativo a due, non univoco, non impositivo. Così un genitore, e così pure uno scrittore che intenda (come un padre che insegna quel che sa) mostrare una via, indicare un percorso alternativo, suggerire mappe di orientamento. Procede a salti, la narrazione (è la vita, del resto, che fa salti, e fa salti la storia che la fa rivivere): ci sono episodi che iniziano e sembrano terminare, poi sono ripresi in un altro capitolo, e sono come ripresi da un nuovo punto di vista – ed è il punto di vista dell’età che muta: la protagonista ragazzina diventa giovinetta, adulta, matura… e scrive dopo decenni dall’ultimo avvenimento narrato. Ci sono dunque almeno tre piani di scrittura, e di lettura, nel libro, segno dell’evoluzione affrontata dal personaggio e dall’autrice stessa che, nel ricordare e raccontare, si costringe a fare i conti con le esperienze vissute, con le diverse scelte sbagliate che si è trovata a compiere (a subire, per lo più, perché altri sceglieva per lei, ma era lei a pagare, a portarne il marchio). Una ragazza del sud è una testimonianza, e un viatico: chi ha sopportato tanto, non può esimersi dal farne partecipi quelli che rischiano di subire altrettanto. C’è quindi il malcelato desiderio, anzi la chiara intenzione di offrire al lettore, e in particolare ai giovani (quelli di oggi, così lontani e ignari di cosa fosse un tempo l’educazione familiare), e alle donne, ancora probabilmente vittime e non sempre inconsapevoli dell’innata supponenza del maschio, di offrire a chi sappia ascoltare una proposta operativa, un vademecum per un’esistenza più dignitosa. Ma questo libro è pure un apotropaico lasciapassare per la propria coscienza – ci si deve sentire in pace avendo tanto visto e tollerato (senza rancore nemmeno per chi ha guastato il bello dell’esistenza) e pronti al redde rationem ma soltanto con la propria persona, con la propria intelligenza e il proprio sentire. La scrittura di un libro così concepito, racconto autobiografico e insieme (chissà quanto involontariamente) analisi sociologica, antropologica, ideologica… un libro come questo ci raccomanda a noi stessi e ci tranquillizza: non lasciamo debiti, avendo anzi dato come andava dato il senso giusto alla nostra vita, che è tale se condivisa, se ne facciamo dono perché altre vite siano migliori.

***

Licia Rotunno, Lettere alle sorelle, Guida

Tre passi nel privato, che sono al tempo stesso profondi assaggi di storia civile del passato Novecento, e tre finzioni storiche, che sono invece dolorosi morsi nel privato dell’autrice. In questo suo equilibrato volumetto bipartito, Licia Rotunno offre una personale testimonianza su mezzo secolo abbondante di vita italiana che vale davvero la’ pena di meditare. Nelle sue memorie epistolari, commosse ma senza retorica, senza alcun cedimento intellettualistico, senza vittimismo né compiacimento, fissa cosi tre emblematiche esistenze (anzi quattro, compresa – di riflesso – la sua) nelle quali vivono le tante altre donne, le tante ragazze del Sud che negli anni difficili dell’immediato dopoguerra dovettero misurarsi con un mondo cattivo e insolente, infido e prevaricatore. Riuscendo a conquistare con fatica e con ancor più grande merito un posto al fianco, ed infine anche al posto stesso, del maschio. Le sue vicende familiari, esemplate nelle Lettere alle sorelle (specie Clelia, apprezzata professoressa e poetessa), servono a leggere in controluce anche gli eventi dei quali furono protagoniste – a volte inconsapevoli, a volte involontarie, sempre innocenti. E loro, tutte e quattro le sorelle Rotunno, come altre mille e mille come loro che loro qui rappresentano, ce l’hanno fatta, ciascuna a suo modo e in campi diversi dell’impegno sociale, ma ce l’hanno fatta, a dispetto di  pregiudizi e discriminazioni. Tutte e quattro hanno sopportato, con estrema dignità, il retaggio di decenni di arretratezza culturale, ma infine hanno saputo affermare una personale identità, costruendo a poco a poco e imponendo pubblicamente, soprattutto nel mondo del lavoro, un’immagine degna di attenzione, per serietà e dedizione. Scrivendo alle sorelle, Licia sente il bisogno di fare i conti con un passato ingombrante – e pure ricco di messaggi dei quali far tesoro -; quello di una famiglia patriarcale del Sud, vissuta in periferia ma non priva di stimoli culturali, e progressivamente aperta ai grandi problemi della ricostruzione morale seguita alla guerra fratricida. Lontane geograficamente per i casi della sorte e le esigenze del lavoro, e diverse anche nella maniera di porsi di fronte alle scelte della vita, le quattro sorelle furono però simili nella volontà di superare i limiti loro imposti dalla tradizione di cui pure erano il frutto. Così pure i tre “racconti”, che occupano la seconda parte di questo libro ben equilibrato nella distribuzione della materia proposta, a leggerli nel suo contesto sono anch’essi frammenti di esistenza proposti a monito per coloro i quali vorranno fare i conti col pressappochismo intellettuale e professionale purtroppo oggi imperanti. L’autrice racconta in terza persona (con artificioso distacco e accorta capacità letteraria) ma rispetto alle tre lettere alle sorelle la tensione è la stessa, come la franchezza dell’espressione, sorretta dall’asciutta padronanza della lingua. Del resto, importa poco se chi narra per “educare” attinga o meno alla sfera privata, o piuttosto inventi vicende paradigmatiche alle quali fare riferimento: l’intento è chiaro e manifesta è la convinta aspirazione di chi scrive a parlare a chi ascolta, affinché rifletta sui casi della vita, sui caratteri umani, sulle problematiche sociali. Non è un esordio assoluto, questo libro, per Licia Rotunno, che ha scritto molto di pedagogia e linguistica. Qualche anno fa si è coperta di uno pseudonimo per dare alle stampe la sua prima vera prova narrativa, autobiografica e complementare rispetto a questa confessione-testimonianza delle lettere e dei racconti. C’è bisogno del coraggio di certe illuminanti – ancorché amare – testimonianze: oggi vanno di moda i libretti o i libracci di (o dedicati a) insulse adolescenti pruriginose, o le ricostruzioni e rivisitazioni del passato fatte da (o dedicate a) nostalgici sognatori del tempo che fu. Nella scrittura di Licia Rotunno, nella sua scabra offerta di sé, della visione della sua famiglia, della sua cultura di origini rurali temprata nel fuoco di eventi memorabili, nella sua appassionata denuncia delle ingiustizie di ogni genere, bisogna cercare almeno di avere lo stesso coraggio e guardarsi allo specchio con la stessa sua lealtà – per chiedersi ancora se questo è un uomo. Non è mai tardi per aprire gli armadi e buttar fuori i vecchi scheletri, riaffermando la libertà e la dignità di una umanità spesso compromessa e vilipesa, calpestati i suoi diritti e disilluse le sue aspettative. In queste lettere, in questi racconti, ritroviamo l’uomo che si racconta e si scrive affinché altri non commettano errori irreparabili, e soprattutto affinché tra uomini regni sempre l’affiato di quei grandi i quali seppero comunicare con la parola, parola di benevolenza e onestà.

***

Vittorino Andreoli, Lettera a un insegnante , Rizzoli

Non se ne abbia a male chi ancora crede in una scuola fondata sulla (a volte addirittura schizofrenica) burocrazia di gerarchie valutative e nella quale, dietro una libertà di facciata (lassismo, a volte), si finisce per contrabbandare una mai morta concezione elitaria della didattica. Nella sua Lettera a un insegnante Vittorino Andreoli (autore, qualche anno fa, di una vendutissima Lettera a un adolescente) ha ragione: buttate a mare i registri e le altre scartoffie che vi impediscono di stabilire un rapporto educativo proficuo, fondato sulla comprensione reciproca dei ruoli. Date spazio all’umanità che lega voi e i vostri allievi… “Occorre che il tuo impegno come insegnante e quello dei tuoi allievi siano improntati al divertimento, a un incontro sereno, produttivo”. Forse è un po’ troppo ottimista sulle qualità umane del corpo docente e troppo fiducioso anche nelle capacità ricettive degli studenti – fatto sta che la scuola è a un bivio: o si riesce a fermare la deriva, o sarà irrimediabile il naufragio, se non si decide di tornare un po’ indietro. Purtroppo, anche usando un po’ meglio il registro e di conseguenza quella meritocrazia che da parte sua Andreoli condanna. La sua visione filosofica del mondo scolastico fa piuttosto a pugni con la realtà – perciò il libro va letto e perciò va meditato (com’è che siamo arrivati a tanto sfacelo morale e intellettuale?). Ma lo  devono leggere non soltanto gli insegnanti ai quali è diretto, gli allievi pure, per comprendere anche loro e giudicare ad occhi aperti: se va male il processo didattico che dovrebbe vederli protagonisti, quali rimedi pensano di adottare, come credono si possa giungere al vero traguardo che la scuola consente di toccare, la conquista migliore del sé… Ricca di stimoli e riflessioni, di appassionate teorie disciplinari e anche di ironiche valutazioni sull’operato dei docenti nelle gabbie didattiche in cui sono spesso costretti, questa Lettera a un insegnante di Andreoli è in definitiva un augurio e una condanna: cerca di essere utile e ne sarai gratificato. Viene in mente l’ambigua definizione di un vecchio ispettore del Ministero: “quella dell’insegnante è una missione che si appaga dell’esser tale”.

***

Stefano Agosti, Grammatica della poesia, Guida

I lettori di Agosti sanno di poter contare sulla sua penetrante maestria, ogni volta che attendono e poi acquistano una sua nuova opera. Malgrado l’estremo rigore tecnicistico del suo discorso critico, questa dissertazione accademica sulla grammatica della poesia è leggibile e fruibile da chi abbia almeno una buona disposizione a leggere la poesia e qualche competenza nello specifico del linguaggio. Qui si compone in realtà una piccola ma esemplare antologia storica della letteratura contemporanea; dall’archetipo Leopardi (esaminato nella “costruzione dell’infinito”) al “sentimento del tempo” in Ungaretti, passando – sul versante intermedio francese – per Baudelaire (“strutture spazio-tempo”), Mallarmé (“teatro della lettera”) e Rimbaud (“grammatica della visione”). Completano il pregevole volume – che è il n. 6 della collana “Identica” (strumenti di critica letteraria) – una densa ouverture su “senso e significato” e un’altrettanto ricca coda sul rapporto fra psicoanalisi e linguistica. La poesia qui viene auscultata nelle testimonianze presentate con attenzione davvero chirurgica… gli esempi dei diversi autori citati hanno tutti una profonda natura che viene fatta emergere nei nessi e nei segreti della loro “grammatica” e nelle loro componenti tematiche. Dai sensi occulti di Mallarmé, alle forme visibili di Baudelaire, dagli enigmi di Rimbaud alle percezioni mentali di Leopardi e Ungaretti… la poesia si costruisce dentro e fuori se stessa, partecipando le sue emozioni creative e regalando l’emozione di ricrearsi nel lettore che abbia “orecchie per intendere”. Più estesi i saggi dedicati agli autori italiani – in quello su Leopardi si propone un processo di annullamento dell’Io (“solo ora che il pensiero dell’Io risulta sommerso nella propria parola, questi si potrà riconoscere come inscritto da sempre e per sempre, tramite il linguaggio, nell’infinito del tempo…”): un processo che però porta all’euforia di un naufragio che non può non far pensare che Ungaretti diede alla sua prima raccolta di versi un titolo altamente evocativo. Da un rapporto col tempo ideale che si svolge nello spazio infinito a un rapporto, anzi al “sentimento” di un tempo reale svolto nello spazio concreto della pagina – da Leopardi a Ungaretti i passaggi critici sembrano obbligati, ma Agosti sviluppa i suoi procedimenti analitici con tale sicurezza da volerci compagni decisi nell’entrare nella bottega dell’artigiano, del sommo artigiano di parole che fu appunto Ungaretti, in questo saggio sul “trionfo della verbalità” costruito sulle minime letture dei testi di un libro fondamentale com’è Sentimento del tempo. Agosti è una guida importante, autorevole, da lungo tempo ormai un maestro nel campo della poesia. Occorre certo un minimo di capacità nel leggere questa grammatica della poesia: è un lavoro per addetti, ma può dare momenti di goduria ai non esperti se decidono di sintonizzarsi con i livelli superiori del dire. Non è estraneo, e non sorprende nel maestro, un grano di compiaciuta ironia: proprio nel finale del lavoro sul “tempo” in Ungaretti, quando vorrebbe ancora spaziare nella produzione del poeta in cerca di altre conferme al suo dire, si arresta all’improvviso, poiché “le temps presse et l’imprimeur attend”.

 ***

Baccalario

Pierdomenico Baccalario, L’ombra di Amadeus, Piemme

Un grande libro di storia, di avventure, e d’amore. Ma soprattutto un libro sull’Arte – poi­ché è l’Arte la grande avventura di raccontare la storia con amore (la Storia, non una storia qualunque). Almeno è quello che vorrebbe insegnare Baccalario, facendo leggere questo li­bro ai padri e ai figli. L’ombra di Amadeus andrebbe proprio letto insieme, per imparare a ri­conoscersi portatori ed eredi della stessa missione. È un romanzo per ragazzi che possono (devono? dovrebbero) leggere anche gli adulti. Perché parla di padri e di figli, di maestri e di allievi. È una storia in cui i personaggi fanno quello che devono fare, quel che ci si può aspettare che facciano – quando devono (almeno quando possono). Baccalario costruisce un puzzle a schede mobili, una successione di incastri che a un certo punto si fa anche prevedi­bile, ma – pur essendo chiaro il senso del gioco – è interessante seguirlo e scoprire di aver in­dovinato, presagito qualche passaggio, se non proprio l’esito. L’ombra di Amadeus è  in defini­tiva la storia di una vita, forse anche quella dell’autore stesso, che avrebbe voluto – come un po’ tutti gli artisti – saper cogliere l’occasione al momento giusto e viverne, creando un capo­lavoro. A qualcuno è successo, qualcuno può solo provarci. Qui l’ombra di Mozart – in un incredibile accavallarsi di eventi (storici senz’altro, ma pure in buona parte inventati, eppure talmente funzionali e organici alla storia, da sembrare anch’essi credibili e pertanto veri) – si estende su tutto il romanzo, degno nella struttura di un Dumas (che non a caso è uno dei protagonisti, insieme al redivivo Mozart e a Rossini). Baccalario gioca su pochi elementi certi e molte coincidenze, a volte inverosimili, ma finisce per darci una lezione, frutto non solo dell’enigma svelato (la storia è maestra di vita quando sappiamo come viverla), ma pure di una profonda convinzione umana che si fa – letterariamente – pedagogica. Bisogna fidarsi dei padri, e dei maestri che sono come padri per gli allievi; e bisogna credere nei regali ricevuti, anche se non procurano subito il bene auspicato: una scintilla d’amore basta a cambiarci la vita, se ci viene affidata da chi si fida di noi.

***

Alessandro Baldacci, Amelia Rosselli, Laterza

Ogni tanto si può dire: finalmente! e ringraziare qualcuno che scioglie un debito a nome della comunità. “Quando muore un poeta – scrissi alla morte di Amelia Rosselli – moriamo tutti un pezzetto / quando muore suicida un poeta l’abbiamo ammazzato /  un pezzetto ciascuno un po’ tutti…”. Alessandro Baldacci, come è scritto in copertina del suo imperdibile Amelia Rosselli, traccia “la prima interpretazione critica completa, dai primi esperimenti degli anni Cinquanta sino alla fine della sua ricerca poetica ed esistenziale”. Era ora! Amelia Rosselli ha scontato anche dopo la sua morte, violenta e volontaria (violenta anche perché volontaria), una certa damnatio che l’aveva accompagnata in vita. Pur amata e apprezzata da tanti, poeti e critici, non ebbe mai un riconoscimento ufficiale, assertorio, definitivo della sua opera. Baldacci ripercorre, leggendo successivamente le pubblicazioni in versi e in prosa della poliedrica scrittrice, il suo cammino di formazione dalle innegabili (e proclamate) ascendenze espressioniste e surrealiste, attraverso una continua osmosi con le più innovative correnti artistiche e musicali di metà Novecento. Moderna e tragica insieme, la Rosselli riconobbe la lezione di Campana (per “l’andamento prosastico della scrittura” e “l’unità fra intenzione e illuminazione”), seguì i corsi di Darmstadt e l’evoluzione di musicisti come Cage e Stockhausen, curò le musiche degli spettacoli di Carmelo Bene, avvertì la circolarità del dionisiaco “Variazioni belliche si colloca in uno stato di diasarmonia continua tra estasi e cadute”). Baldacci non giudica, espone: il suo piccolo libro è un concentrato fittissimo di proposte interpretative, di sistemazioni e definizioni di poetica. Fino all’esplosione poematica di Impromptu (del ’79) la poesia della Rosselli è ricca di sorprendenti provocatorie invenzioni, non soltanto estetiche-linguistiche, anche sintattiche-grammaticali (a causa pure dell’iniziale bilinguismo che caratterizza la sua scrittura): “la parola è in esilio sulla pagina” – ogni parola viene da lontane regioni dello spirito e trova occasionalmente spazio per mostrarsi e farsi altra e altro da sé. Il silenzio degli ultimi tempi fu senz’altro per la poetessa una terribile ammissione di impotenza, probabilmente la causa ultima che la spinse al suicidio. A compimento dell’opera buona di Alessandro Baldacci, si trovano un apparato bibliografico aggiornato e un ampio resoconto degli interventi critici sull’opera di Amelia Rosselli (dal Pasolini del ’63 al saggio di Emmanuela Tandelli del 2007: Amelia Rosselli. La fanciulla e l’infinito). Strumenti di lavoro per chi voglia (ri)avvicinarsi alla spesso infelice ma luminosa – e illuminante – carriera di una scrittrice fondamentale nell’espressione del Novecento.

***

[489] Marisol Bohórquez Godoy, Effetto farfalla, Raffaelli

Bastano poche poesie per dire chi è un poeta? Di solito sì – certo non per avere o dare un giudizio di merito generale, ma (se è vero – come diceva Tozzi – che da qualche pagina appena si può comprendere il valore di un libro) una piccola silloge può consentire di entrare nella poetica di un autore e far decidere se merita ulteriore lettura. Così nel caso della giovane poetessa colombiana Marisol Bohórquez, qui tradotta e pubblicata per la prima volta in italiano: il suo Effetto farfalla è presentato in veste accurata e ben tradotto da Gianni Darconza. Sono appena diciotto le poesie scelte, e per lo più brevi – bastano a dare di Marisol un notevole quadro espressivo. La farfalla del titolo appare in “Lì dove abita il mio nome” e segna uno dei momenti di più profonda suggestione lirica: c’è insieme la metafora della bellezza che svanisce (appunto rappresentata nelle ali della farfalla) e quella, che ne deriva, del tempo che ineluttabile muore. Il tempo peraltro è un tema ricorrente in queste poesie. L’autrice si pone diverse domande esistenziali, solo in parte risolvendole in poesia (“Il giorno della mia morte” – “Tutto qui è silenzio”). Non mancano cenni al sociale, per nulla banali, negli ultimi più corposi testi di Effetto farfalla, e pure qualche memoria della formazione scientifica di questa poetessa che è laureata in ingegneria (“Tendente all’infinito”). Echi fugaci della grande poesia di Neruda (“marinaio in terra”): il poeta irrequieto non vede l’ora di prendere ancora il mare e cercare altri lidi, altri incontri, altre parole. Il sé vive nascosto in queste parole poetiche – e forse “effetto farfalla” è anche la capacità di volare sulle cose con leggerezza, spargendo bellezza –, ma vive una prepotente voglia di comunicare, distillata in pochi versi “lanciati al mondo”, che si fanno creature bisognose di accoglienza, di luce. “Curva d’amore… tracciata nel piano cartesiano dei sogni”, e questa parola così evocatrice – senza paura di abusarne – apre e chiude significativamente la raccolta di Marisol Bohórquez. Allora sì, diciotto poesie danno misura di un fare poetico che è convinta disposizione ad aprirsi e partecipare, a scandire momenti in comunione fissati nelle parole dettate alla vita da un’anima consapevole [2019].

***

Donatella Bisutti, L’albero delle parole, Rizzoli

Oltre a essere poetessa per suo conto, Donatella Bisutti ha deciso da tempo che il solo amore per la poesia non può bastare, bisogna aiutare anche gli altri ad amarla. Qualche anno fa ha quindi pubblicato La poesia salva la vita, che fin dal titolo è parso un vero manifesto programmatico: vive di più chi ama la poesia, e bisogna cominciare da piccoli a praticarla… Per questo da poco ha ripubblicato un altro libro bellissimo, uscito già nel ’79 (e ampliato ora fino a contenere 138 poesie di 73 poeti, italiani e stranieri), L’albero delle parole. Grandi poeti di tutto il mondo per i bambini. È una raccolta dedicata ai bambini, e pertanto contiene volutamente solo testi di facile leggibilità. Gli autori selezionati (da Whitman a Paz, da Saba a Magrelli, da Palazzeschi a Luzi, dalla Dickinson alla stessa curatrice del volume) sono i più diversi, più o meno conosciuti. A proposito di Ungaretti, la Bisutti scrive  “Molti dicono che avrebbero dovuto dargli il Nobel come a Montale. Ma la grandezza della poesia non si può misurare né con il metro né con i premi, che vengono dati spesso per ragioni che con la poesia non hanno niente a che fare. C’è solo un modo di misurarla: il tempo, e la nostra emozione”. Fare in modo che i bambini, al più presto, appena possibile, imparino ad amare le parole dei poeti, questo sì che è un bel premio, per noi e per loro (i bambini, e pure i poeti)!

***

Franco Brevini  Un cerino nel buio, Bollati Boringhieri

Da accendere davvero Un cerino nel buio, almeno un cerino per cercare di far luce nell’oscura perdizione di senso che guasta le patrie lettere e ottenebra di conseguenza le menti di coloro che dovrebbero fruirne e sentirsene vivificati. Da leggere e rileggere, da gustare come i biscottini della recherche, questo libro d’amore e di speranza per la lingua, la letteratura, la cultura italiana. Il professor Franco Brevini, in queste sue pagine intense di storie vissute e di storia con la maiuscola (la grande storia della società intellettuale), regala a chi abbia orecchie per intendere, verrebbe da dire (e in effetti il suo tono, il suo stile è un po’ quello delle parabole, ma colto e documentato sempre), a chi sia ben disposto a farsi guidare in una battaglia contro la barbarie (come recita il sottotitolo del volume), oggi che “il mondo pare aspettarsi non un’istruzione ma delle istruzioni: istruzioni per l’uso”. È una lettura che fa riflettere più di ogni altro gli addetti ai lavori, docenti o studiosi della materia, ma che deve far riflettere comunque sui rischi ai quali va incontro una nazione che rinunci alla propria storia – e la nostra è fatta della nostra lingua e della nostra cultura. Compito dell’intellettuale è allora “dare una mano a capire cosa stia accadendo”, orientare il disordine in cui viviamo. L’homo sapiens è sostituito ormai dall’homo videns: ha ancora un senso la letteratura? Nell’epoca delle immagini (e della loro mercificazione nella pubblicità, nella mediaticità) ha ancora senso la parola, lo studio della parola? l professore dice di sì, ma il padre di studenti confessa il suo smarrimento in proposito. Finita l’epoca del prof. Carducci che era pure poeta e teorizzava la continuità patriottica della nuova Italia con il suo passato linguistico e letterario, passata la tempesta delle grandi guerre e succubi di reality d’ogni genere, bisogna confrontarsi tra generazioni in possesso di patrimoni etici diversi e contrastanti, spesso derivanti proprio dalla frequentazione di modelli imposti e/o accettati come tali. Una “indecorosa disfatta della letteratura e più in generale della cultura della tradizione”… favorisce oggi Vasco Rossi contro Cesare Pavese, per dire di modelli ancora vicini – figurarsi i “classici”! l momento più succoso del libro (ed è pure il più doloroso da dover condividere) è il “dialogo di Pierino e dello scolaro di Barbiana” nel quale il primo lamenta la malintesa applicazione del desiderio di abolire i privilegi scolastici (e sociali) e finisce a scoprire che il vecchio allievo di don Milani, ormai cresciuto e integrato, è stato addirittura arruolato in Fininvest.

***

Carmine Brancaccio, Laudano , Edizioni Eva

Viene da lontano, malgrado la giovane età, l’autore di questo Laudano. Quando pubblicò, nel ’97, Immagini di dimensioni, aveva appena 18 anni. Due temi mi legarono subito al poeta adolescente – e mi piacque trovarli nella sua acerba poesia consonanti con le mie prove di adulto. Il primo è quello della poesia – e ricordo, in un testo che proprio si intitola Poesia, “Sei amore, il più bello che ho. A te io mi affido”. La maturità sembra ormai prossima, e quell’amore di ragazzo è ormai una militanza consolidata. Possiamo essere certi che, fidandosi di lei, della poesia, il nostro cercatore stia per giungere alla padronanza del maestro. L’altro tema che in vario modo mi affascina e non poco mi turba è quello dello specchio, del doppio, della maschera, delle maschere che siamo o che portiamo… Ricordo del primo libretto di Brancaccio il brevissimo testo dal titolo “La maschera”: “A volte è proprio la maschera che ci rivela l’autenticità dello spirito” – sarebbe inutile ogni commento (anche se molte sarebbero le allusioni colte da cogliere in questi scarni versi). Mi prese subito, di questo suo nuovo progetto sulfureo e sofistico che mi fece leggere in anteprima, l’ardire della giovane mente proiettata oltre lo specchio del reale, oltre la quotidiana maschera. È un gioco che mi appartiene, in cui mi riconosco, o meglio riconosco le mie maschere, giocando a trapassare specchi e siepi e finanche muretti e muraglie. Mi riconosco in uno stile che è dunque una sfacciata esibizione di gioco (ma non leggero, non futile passatempo), prima di essere effettivamente risolto in esiti canonici o comunque identificabili. In questo Laudano è evidente come l’autore del puzzle abbia frammentato ad arte le varie scene di una recita a soggetto: bisogna, per stabilire anche quale parte si vuole o si può interpretare, ricomporre attentamente ciascun elemento del gioco. Chi legge un libro di poesia, deve accettare appunto di inoltrarsi in un terreno minato dal quale prima eliminare accortamente ogni intoppo e poi disporsi a seminarvi a sua volta. Qui – in questo libro – l’esito importa poco (ed è forse perciò che si propina il “laudano”, a lenire, a sorreggere lo stupore che può anche annichilire, in certi casi, se non ci si è preparati a  dovere per le asperità del cammino da affrontare): qui conta averci provato, che è l’arma dei giovani veri! Qui vive il grande gioco dell’essere e dell’apparire, del nascondere e mostrare. Qui si va oltre lo specchio e dentro il sogno, ma conservando acuta la percezione del concreto quotidiano: si vuole così scuotere l’albero dei frutti proibiti pur sapendo che se cadono fanno male, si vuole esplorare il bordo del credibile, ma, se “s’agita sgangherata la bussola”, chi ci orienterà nell’inconcluso labirinto che è “l’elegante follia del mondo”? Non ha ancora trent’anni, questo poeta che in appena 9 ha dato però alle stampe quattro volumetti, di crescente consistenza linguistica e tematica, né pare voglia considerarsi soddisfatto della dimensione attuale. Egli stesso infatti dichiara di proiettarsi a fingere altri mondi, un infinito possibile del quale pur nascostamente ci offre una definizione: “il grande parallelo del reale”. Vuole cioè esplorare nel suo fare poesia la possibilità di far vivere non una realtà che non esiste, ma la fantasia di una realtà che da qualche parte potrebbe esserci. Aspettiamolo ad altre prove: Carmine sa bene che gli esami non finiscono mai, e si sta preparando, senza dubbio in coscienza e con buone speranze di superare nuovi ostacoli, sulla via della conquista di sé.

Brancaccio SG

Carmine Brancaccio, Versi al succo di limone, Edizioni Eva

Prepariamoci ad una lettura che potrebbe farci la bocca amara. In questa corposa antologia di “poesie scelte a cura di Amerigo Iannacone” ne compaiono 75, provenienti dai sei libri pubblicati finora, tranne le ultime 5, inedite. È sempre difficile scegliere, comunque una scelta va fatta e qui sembra funzionare: l’idea dell’autore e del suo lavoro c’è. Si può ripercorrere la storia della sua formazione, comprenderne intenzioni e sviluppi, tensioni e progressi. Carmine Brancaccio pubblicò il primo libro a diciott’anni, e vi comparve subito una specie di talismano, un piccolo testo apotropaico, destinato a proteggere l’autore – scriveva egli stesso – dal buio dell’oblio. “Poesia”, si intitola quel testo, che opportunamente compare ancora in questa Antologia. “Sei amore, il più bello che ho / A te io m’af-fido”. Ecco la dichiarazione d’intenti del giovane poeta – fidarsi della sua creatura (innamorata), affidarsi alla scrittura per essere ricordato (“Voglio che almeno tu ti ricorderai di me” – con quel perentorio indicativo!). Ecco perché Immagini di dimensioni (un altro dei suoi titoli misteriosi) si offriva subito come una base di partenza – di lì era chiaro dove sarebbe andato a parare l’autore. “Non meravigliatevi”: è l’ultimo verso del libro, ed è il caso di chiedersi nuovamente chi e perché ha deciso di mettere a conclusione del libro questi e non altri versi (di sapore palazzeschiano, verrebbe da dire, se alludono – come pare – ad una voglia di giocare, e divertirsi, lecita ed esibita). Provocazione o fiducia estrema nelle capacità del lettore? Il quale viene reso partecipe di un percorso esistenziale articolato e insicuro, ma teso ad un traguardo (“aggrappato alle maniglie di quell’aura d’amore”) che diventa, è una confessione – e di questo si appaga -, un percorso di auto-conoscenza. È proprio vero che il succo di limone – astringente com’è – ci libera dalle impurità; possiamo quindi usarlo, leggendo questi Versi al succo di limone di Carmine Brancaccio, per depurarci dalle piaghe di letture stantie, per aprire la mente e prepararci a correre insieme a lui, pierrot/acrobata che sfida l’indicibile, e ci invita a credere che il sogno sia ancora possibile.

Brancaccio lim

Carmine Brancaccio, E la sera la calma paura dei gatti, Edizioni Eva

Stavolta il passo in avanti è notevole. Con la scaltrezza dell’esperto navigatore della scrittura, il non più giovanissimo Carmine Brancaccio si è misurato con la prosa narrativa originale – dopo il primo esperimento con “il Moroz” di qualche anno fa – toccando esiti di particolare pregnanza. Il suo ultimo libro, dal titolo peraltro rubato alla poesia, si configura come un sottile gioco di analisi, del sé com’è e come si vuole che si mostri: una specie di gioco delle parti in cui molto hanno parte gli eteronimi che si fingono personaggi della storia e prendono spazi inquietanti nelle pagine… Non che uno debba per forza cercare ascendenze e somiglianze, non è sempre necessario – ma qui è talmente fitto il gioco dei rimandi e delle allusioni, che (magari anche se non c’è, se non è espressa o evidente) la relazione si coglie, e fa pure piacere scoprire di averla colta (magari fa piacere anche a lui, al giovane autore che continua a misurarsi con le forme espressive provocando il lettore a giocare). Fellini è una felice sorpresa, sul terrazzo di una torre gemella l’11 settembre di un anno che non si può dire – ma si può ricavare da un’altra citazione di cronaca, esplicita questa, che rimanda alla vittoria dell’Italia nel mondiale di calcio (quindi al 2006). Poi si passa da Ligabue di “Radiofreccia” al “Bar Sport” di Benni, da “American graffiti” a “Mosche da bar”, dal giovane Holden al …giovane Werther: c’è un farsi uomo difficile e indolente, un crescere con la paura di dover crescere – un vorrei ma non posso che diventa pure, paradossalmente, potrei ma non mi va più. Allora, infine, forse più chiaro si fa anche il titolo – apparentemente stravagante: E la sera la calma paura dei gatti…  A sera, infatti, i gatti hanno paura nei loro occhi, paura di quel che li aspetta, di una notte in cui saranno tutti grigi, ma è calma, la loro paura, felina, controllata – come sa chi sa mettersi di fronte allo specchio e non teme l’incontro casuale che potrebbe turbarlo, e non è che una nostra faccia dimenticata che torna da un lungo viaggio… e non chiede che di uscire a salutarci, a dividere un tratto di strada, di vita…

***

[473] Carmine Brancaccio, Limpidezza, Oedipus

Ha lavorato, nell’ultimo decennio, questo poeta non più giovane che esordì giovanissimo oltre vent’anni fa; si è esercitato anche in prosa, nella narrativa e nella saggistica, ma la poesia rimane il suo campo preferito, e vi continua a lavorare, non con assiduità, ma con apprezzabile coerenza. Sono trascorsi più di dieci anni dalle affascinanti, ricercate Quartine di Pierrot, raccolta che vinse un premio in terra aurunca per diventare un libro: “per farsi giuoco di se stesso, Pierrot / giuoca sempre, Pierrot sempre giuoca”. Sono trascorsi quasi dieci anni dall’inquietante silloge Simplegadi e la notte (va ribadito per inciso quanto sia bravo a scegliere i titoli dei suoi libri), ed ecco dunque Carmine Brancaccio con le brevi composizioni di un libretto che mostra già nel titolo un ossimoro: Limpidezza… Rispetto al nome dell’autore, questo titolo è appunto un ossimoro: dire limpido al giovane Brancaccio era una specie di controsenso; invece qui riesce – forza dell’età che rende saggi, forse, o di migliore disposizione d’animo – a farsi capire quasi sempre, a scrivere in maniera sciolta come raramente in passato. Poche pagine per costruire un’idea di percorso lirico-esistenziale nuovo ma pure memore di altri già percorsi itinerari dell’anima. Raccolte in quattro sezioni, da tre a undici testi per sezione, le 25 poesie di Limpidezza sono per lo più brevi e molto brevi. Le prime cinque erano già presenti, come sezione inedita, nell’antologia curata da Amerigo Iannacone pochi anni or sono: Versi al succo di limone (che ne comprendeva settantacinque, incluso integralmente Laudano, il libro più rappresentativo del nostro autore, che occupava metà di quell’antologia). Ci sono, in Limpidezza, allusioni più o meno esplicite al vissuto mondo lirico già presente in Laudano, a segnare una continuità che fa ormai parte della vita intellettuale di Carmine Brancaccio. Ci sono due testi, uno brevissimo e l’altro che invece è uno dei più lunghi della raccolta, in cui compaiono immagini di bimbi associate alla solitudine dell’artista:  “La solitudine è quella condizione / umana che somiglia al canto / d’un bimbo seduto / in un angolo buio”; e poi, quasi in chiusura del libro, “Il poeta è un bimbo solo”… Dichiarazioni che non si possono semplicisticamente definire postcrepuscolari, anche perché nel libro ci sono altre immagini di segno diverso che denotano un convincimento intellettuale più maturo: “Tenerti lontana, mia Limpidezza, / è come atterrare frettolosamente / su una pista di menzogne terrene; / o tu sai del mio dolore, del mio male / che infonde l’essere parassita di fronte / a un giorno in cui comporre mi decompone”. Questa è la sua limpidezza: “comporre mi decompone”: più un augurio che una reale conquista, una condizione mentale e insieme un terreno da coltivare, ma dentro ce l’ha e farà di tutto per farcene partecipi. Ha appena quarant’anni, scarsi: avremo ancora Carmine Brancaccio sulle pagine di un libro, a dirci come una storia possa diventare uno specchio. E a proposito di fare libri, disse il toscanaccio Giuseppe Giusti: “Il fare un libro è meno che niente, se il libro fatto non rifà la gente!” – chiediamoci sempre se questi nostri diversi libri di versi possano, sappiano, vogliano “rifare la gente”, e come, altrimenti potevamo tenerceli nel cassetto, in qualche file ben custodito. Ma Limpidezza fa sperare: leggerlo impone scelte di campo nel giudizio – la gente deve “rifarsi” almeno un’idea di poesia [2018].

***

Lorezo Beccati, L’uccisore di seta, Kowalski

Anno Domini 1590: Genova. Dopo Il guaritore di maiali e Il mistero degli incurabili, torna il fortunato Pimain di Lorenzo Beccati a risolvere i casi più intricati in una città torbida e opulenta, la Genova di fine Cinquecento appunto, appena martoriata dalla peste. Il personaggio di Beccati, aiutato dall’intuito femminile della sua bella Maddalena, è impegnato qui a scoprire L’uccisore di seta, un misterioso assassino di modesti lavoranti, e deve intanto risolvere anche il misterioso furto del tesoro del doge. Thriller storico è definito il libro in copertina, e tale è: Genova non fa solo da sfondo alla storia, ma è la sua storia a farsi coprotagonista della vicenda narrata. L’attenzione ai fatti dell’epoca è curata e motivata, non soltanto pretesto. Fanno da coro ai protagonisti infatti tutta una corte di piccoli uomini e donne essenziali allo sviluppo stesso della trama. Il libro si legge – come un giallo che si rispetti – tutto d’un fiato, ma poi viene voglia di rileggerlo, per meglio assaporarne le pagine più dense dei sensi intensi dell’umanità che vi è rappresentata. Beccati non è uno scrittore votato alla storia, ma sa come farla ricca di minuziose descrizioni d’ambiente e come alludere a sentimenti e sensazioni con poche frasi  incisive. L’uccisore di seta rivela alla fine la sua impensabile soluzione, ma prima ha guidato il lettore attraverso episodi apparentemente insignificanti che invece costruivano il mosaico in cui leggere la chiave del mistero. La padronanza stilistica dell’autore conferisce al libro una dignità insolita in una storia di genere.

***

Luigi Bonanate, Le relazioni degli Stati tra diritto e politica, Guida

Quando il rapporto è fondato sulla sincerità, sull’onestà intellettuale, non fa notizia il discepolo che discute il maestro, poiché così gli ha insegnato proprio il maestro “a non aver paura di discuter nulla e nessuno, ad aborrire il principio di autorità e io lo seguii alla lettera…”. Così Bonanate, che di Bobbio fu allievo e di lui ricorda la “costante lezione di rigore, di dedizione, di semplicità e di libertà”, pur accettando sostanzialmente del suo professore le tesi e le proposte interpretative del suo insegnamento, ne discute anche certe posizioni, sempre comunque pronto a documentarne le istanze culturali. Ovviamente si discute di politica, internazionale soprattutto, e nel caso specifico di come interpretare la lezione di Hobbes, come è noto tra i filosofi preferiti da Bobbio. Il volumetto di Bonanate raccoglie otto saggi pubblicati nel giro di vent’anni, tranne gli ultimi due, inediti. Lo scopo dell’autore – malgrado a volte gli scritti siano d’occasione – non è celebrativo; volendo anzi presentarsi come “modesto contributo affinché il suo pensiero sfugga a ogni irrigidimento scolastico e a qualsiasi forma di autorevolezza retorica”. Emergono pertanto dalle pagine di queste relazioni degli Stati, sia pure, a volte, necessariamente, per cenni o sintetici riferimenti, i libri fondamentali di Bobbio, e l’analisi comparata dell’allievo spazia in un cinquantennio di interventi filosofici di grande rilievo, soffermandosi per lo più su quelli inerenti la filosofia politica. Bobbio ebbe sempre chiara la necessità – e qui ne risultano evidenti le motivazioni storiche e insieme etiche – di una cooperazione fra gli Stati. La sua idea di federalismo è ben nota, come la sua polemica con certe espressioni del marxismo e del socialismo (che Bonanate puntualmente ricorda); e come l’osservazione di una certa sordità della cultura politica italiana nei confronti della politica internazionale (pagine, quelle qui ricordate, degli anni settanta del secolo scorso, ma pare poco mutato il quadro degli interessi, se non nelle formule programmatiche).

***

Lino Busà, Vento di fuoco, Neomediaitalia

Busà

Il Movimento Indipendentista Siciliano è una spina nella storia siciliana, che poteva cambiare cambiando la stessa Storia d’Italia – e non è stato, come falliscono tante avventure e svaniscono sogni. Quel movimento che puntava a separare la Sicilia dal Regno e fondare addirittura una repubblica autonoma, fa da sfondo al coraggioso romanzo di esordio di Lino Busà. Ma Vento di fuoco non è un romanzo storico, non solo: le intenzioni dell’autore probabilmente sono anche storiche (una rilettura di eventi ormai lontani, col cannocchiale rovesciato, si potrebbe parafrasare), però c’è pure un po’ di biografia familiare e c’è comunque una consapevole analisi sociologica. Busà è siciliano, si occupa da tempo di antipatici fenomeni quali l’usura e il racket nel mondo del lavoro. Conosce bene i meccanismi socio politici e culturali che regolano e a volte inquinano il vivere civile. Un motivo conduttore pare faccia da sottofondo ostinato: una certa convinzione che la terra siciliana sia destinata all’isolamento, e la sua gente lo sappia, facendosene tuttavia quasi uno scudo di superba indifferenza. In questo romanzo, coraggioso appunto perché coniuga i fatti privati e le congiunture storiche, storicizzando l’attualità (perché la Sicilia di allora – siamo alla fine della seconda Guerra – può ancora essere letta come metafora di quella di oggi, e non la Sicilia soltanto), in questo racconto di un sequestro a fini politici la vena narrativa di Busà si esercita in varie forme espressive. L’inizio è manzoniano, con quel possidente inseguito da tre brutti ceffi che vogliono rapirlo – ma quanti film di mafia abbiamo visto che ci ricordano episodi del genere. Poi la piega degli eventi si ingarbuglia, si arricchisce e si dipana fino al convincente finale in minore. I personaggi vivono le loro piccole storie private senza sapere che stanno facendo la Storia, e alcuni vorrebbero davvero vivere solo la loro vita, ma sono travolti da fatti più grandi di loro – qualcuno ce la fa, qualcuno cede le armi. La struttura del libro è compatta e sono finanche sostanzialmente rispettate le classiche unità teatrali (la storia in sé in effetti sarebbe adatta ad una riduzione cinematografica); la successione dei capitoli si articola spesso in forma sincopata: momenti veloci spezzano il ritmo e accrescono l’aria da thriller. Ci sono pagine, in Vento di fuoco, amene e descrittive, quasi a far riprendere fiato nell’incalzare delle vicende; ci sono squarci di indagine politica con riflessioni anche amare, sospese – non è banale regionalismo ricordarle – fra “gattopardi” e “giorni della civetta”: Busà conosce la letteratura che ha fatto grande la sua terra, e ne tiene conto, pur giocando alla citazione subliminale, senza approfittare della grande lezione, se non per costruire una sua dimensione letteraria, originale e complessa. L’esordio promette nuovi sviluppi – quel “fuoco” soffia ancora [2018].

***

Raffaele Bussi,  I picari di Maffeo, Longobardi

Pregevole sintesi critica (e antologica), questo volumetto di Raffaele Bussi si propone come punto fermo sulla produzione in prosa di Pasquale Maffeo. I picari di Maffeo vuole infatti essere insieme analisi e stimolo, soprattutto invito a (ri)leggere e ripensare gli scritti vari di narrativa che Maffeo ha prodotto nell’arco di quasi mezzo secolo. Bussi accompagna questa lunga avventura dello scrivere prendendo per mano il lettore e passando in rassegna le varie opere; sempre con accurate osservazioni, confronti intertestuali, ampie citazioni e puntuali divagazioni storico-letterarie. Tanto per gradire, il capitolo introduttivo, “La Republique mondiale des lettres”, è un quadro di complessa ricchezza d’informazione, un’intensa riflessione sul “compito dello scrittore oggi”. Le “debordanti euforie inventive” dell’autore campano vengono filtrate in un crivello altrettanto elegante, essendo Bussi chiaramente affascinato dallo stile di Maffeo, dalle sue preziose, ardue arrampicate linguistiche e lessicali, dal suo procedere arguto e sentenzioso. Il capitolo conclusivo di questo imperdibile saggio di Bussi è un omaggio, indovinato e motivato, al Maffeo “surreale” – tema centrale peraltro nella narrativa dell’autore di Prete Salvatico, L’angelo bizantino,  Il Mercuriale. I personaggi più riusciti di questi romanzi (come pure molti loro fratelli di altre prove narrative) hanno certo caratteri “soprannaturali”, ma pure ci legano – noi di qui – ad una realtà altra che forse ci piacerebbe vivere. Ma sono rappresentanti di una realtà terra terra che ben conosciamo, combattuti sempre da fame e bisogno, spesso da uno slancio di carità che li solleva un po’ ma subito inesorabilmente ripresi nel vortice dell’esistenza.  I picari di Maffeo prende il titolo dalla felice somiglianza che Bussi trova (e giustifica in un capitolo chiave del suo libro: “Nipoti di Pulcinella picari della modernità”) fra i protagonisti dei romanzi di Maffeo (ma pure dei racconti: Lunario dei lazzari) e l’immortale Lazarillo de Tormes. “Maffeo scrittore contemporaneo ed universale?”: si chiede Bussi all’inizio del suo percorso critico, e le risposte le ha, le da, poiché Maffeo è un figlio del suo tempo che parla al tempo.

***

Laura Buscemi, L’estate delle farfalle, Risa

All’opera seconda di un autore si attribuisce sempre (non senza cat­tiveria) ca­rattere di verifica: se la prima volta gli si è per­donata qual­che leggerezza, lo si aspetta fiduciosi, ma pronti a but­tarlo giù per sempre; se aveva invece im­pressio­na­to favorevolmente, lo si attende al varco, stigma­tizzando il mi­nimo errore. Vent’anni però sono tanti, fra le Poesie di Laura Buscemi pub­blicate nel 1970 dall’editore Ga­brieli e queste Farfalle:  più degli anni che allora aveva lei! Il confronto può sembrare im­pro­poni­bile, ma  non inu­tile, almeno per poter af­fermare che il tempo tra­scorso non ha eli­minato, dal cuore del poeta, la pron­tezza all’e­mo­zio­ne, la gioia di u­na sco­perta, la voglia di sognare e cantare, in­can­tare, in­can­tar­si, non da solo… Ma vent’anni – pieni come sono di sta­gioni e di vita – significano pure crescita di capa­cità, sensi­bi­lità e scaltrezza di arti­sta; perché in questi anni La­ura non ha perso tempo. Per un po’ ha continua­to a scri­ve­re, pubbli­cando su “Bella”, una nota ri­vista femminile, una decina di novelle, gron­danti sen­ti­mento e dense di au­to­biografico lirismo, nel­le quali ha affi­nato le qualità e­spres­sive della sua pen­na, arricchendo la ta­volozza del­l’im­ma­ginazione. Dopo, ha letto e stu­dia­to, mantenendo accesa la fiac­cola della poe­sia, pur sot­to il moggio del quotidiano e non sem­pre dolce pe­so fami­liare e pro­fes­sio­nale. E poi… Poi, smascherata e stupita ella stessa, nuda contro lo specchio della vita, ma per nulla spaurita dalla scoper­ta, ha ritro­vato la strada mai perduta. Dal grigiore dei giorni, da un “grigio bozzolo im­poetico” (co­me scrive Laura Bu­scemi nella sua Nota) esce im­prov­viso un “volo di farfalle”… Dalla mono­tonia del quotidiano, subita, rassegnata e in qual­che modo in­fine protettiva, ci si sor­pren­de ca­sualmente ad u­scire, per vi­vere e possedersi – consape­vole rischio, e meta­mor­fosi – in un vo­lo della fanta­sia che accende e appaga i sen­si, risco­per­ti vi­vi, frullo d’ali che affa­scina e convince; e subito si de­si­de­ra offrirsi – malattia (e sal­vezza) di poe­ta, riconoscersi in colui che leggerà – in dono a chi sappia com­prendere, ac­cet­ta­re e condivi­dere l’in­cantesimo nuo­vo. Ma dove sono le farfalle del titolo? Nei caldi colori estivi di cui si tingono le pa­gine di questo libro, che del­l’estate conserva e cri­stal­liz­za i sensi e il calore; e nel leggero ma deciso – orien­tato – lib(e)rarsi delle parole che lo com­pon­go­no. Fin dalla dedica, in qualche modo provocatoria, è chiaro il verso in cui va letto il libro: la sua linea guida è l’a­more, la solare e vivifi­cante avventura di una storia (ideale o/e – e in che misura – vissuta, non deve importare, in poe­sia), di una storia d’amore. La parola amore, in realtà, com­pare poi so­ltanto cinque volte nella sil­loge, ma ben quattor­dici volte c’è la parola cuore, e quasi al­trettanto spesso c’è l’in­vo­ca­zione, più o meno esplicita, a un tu con­trap­posto ad un io, all’io che scrive e si con­fes­sa in desi­de­rio… Si dipana e si manifesta così un rapporto continuo, che è ab­bandono di sensi e ri­scatto di ra­gione, voglia di es­sere e di­re, di esi­stere per da­re. L’estate, non più solo casual­mente vissuta, fulgida nel suo ca­lo­re/colore e intensa nel suo sa­po­re/sopore, è stagione matura che soddisfa e placa, e dona in­sie­me fiducia e serenità, incita/invita a sognare, stac­can­dosi dal peso dei giorni: L’estate delle farfalle, ap­punto, e la farfalla diventa sim­bolo (lieve e inafferrabile, pena la con­ta­minazione che guasta e corrompe), dell’amore. Perché dalla smania  – e dalla pania – dei giorni il poeta si li­bera in armonia di parola… (“all’improvviso ti svegli”): e non è que­sta la ‘mi­surata’ lezione del buon epicureo, atten­to a non per­dere l’attimo che gli capiti in sorte di vi­ve­re, come la vita comanda, adesso e non dopo? Abbagliata e stordita dal calore di un’estate vis­suta in libertà di parola, farfalla an­che lei liberata dal grigio boz­zo­lo delle abitu­dini, Laura ha saputo cogliere (care diem!) il giorno se­gnato. [1992]

***

Laura Buscemi, Il colore del lago sotto la neve, Risa

Dopo L’estate delle farfalle, Laura Buscemi ritorna/ rina­sce in questo “lago sotto la neve” che fin dal titolo metafo­rizza l’esi­stenza: eredità protetta e  custodita proprio nel raggelarsi in una col­tre di memorie, da cui (“il brivido del­l’acqua appena mossa”) con tremore d’emozione rivive al tepore di una nuova estate, non neces­saria­mente vissuta: ba­sta saper sognare. Così la farfalla che visse un folle volo nell’estate del ’91, e sem­brava bruciata al calore di quel sogno d’amore, rivive, rinata come Araba fenice “nel ferreo giro di occulte rein­carnazioni” e pronta  bru­ciarsi ancora, a consumarsi nel dono di sé. Consapevole del ri­schio, però,  generosa sta­volta: “starò attenta a non bruciarti”. Il desiderio è fiamma che divora, è sete di possesso che il poeta conosce. Fingendo, continuando a fingere una nai­veté cui è difficile credere, Laura – esperta di letture a vasto raggio – sa come giocare con la lingua, e la tavolozza dei suoi colori ricorda ancora il volo delle far­falle. Così appare scoperto il gioco dei verbi nei quali è la forza del de­siderio, desiderio che è prendere, è “impigliare”, “afferrare”, “impri­gionare”, che è in certi imperativi di sua­dente perentorietà: “guar­dami”, “coglimi”. Come è curata la scelta, la posizione di tante parole, aggettivi (e certi participi congiunti alla latina) e pronomi (il richiamo continuo dell’io e del tu). È la chiave lirica in ogni caso a consentire l’accesso più age­vole al mondo poetico celato in questo lago: il tono lirico è sotteso a co­sti­tuire quasi un ordito principale in cui tra­mare la storia (o que­sta non-storia di impalpabili momenti – tanto rari i riferimenti ad un reale che pare esso pure farsi tessera musiva nella ragnatela del so­gno – puzzle che ri­marrà scompaginato). Dalle “coppe di miele” di “Spavento” al “peplo” della “Vestale” le suggestioni classiche sposano il ritmo franto del racconto, nel di­ve­nire dettato di un cuore che lascia ca­dere (indolente, o maturo epi­cu­reo?) le sue stille preziose, le sue parole di sangue. L’alfabeto del cuore (parola che l’autrice usa senza tema di abu­sare) continua ad essere per Laura il fondamento stesso della poesia; è il linguaggio dei sentimenti e dei sensi che si fa parola e messag­gio: non ve ne è mai abbastanza e va pertanto ringraziata lei che ne offre ancora, di sentimenti e parole, di parola-lievito che fa crescere chi legga ben di­sposto. Certo, è “fiaba di adulti” l’amore, che ha pure, come ogni fiaba che si rispetti, i suoi orchi e le streghe, i principi azzurri e gli ani­ma­letti parlanti, ma – appunto perché per adulti – non sempre ha il lieto fine. Anzi… ne resta spesso appena il sapore agrodolce della conquista occasionale e provvisoria. Non sempre si incontra l’amore che valga e che duri, quello che produce storie degne di essere conservate nella pinacoteca del cuore. Ma attenti ai cocci, se si rompe… Rompere uno specchio, spesso, non serve che a moltipli­care nei frammenti l’immagine che vole­vamo di­struggere… Così le ore che scorrono, più che lenire e sopire, ampli­fi­cano i ricordi, esasperandone il dolore. Se non si temesse il rischio di riscrivere il libro e compro­met­terne la lettura da parte di chi ancora deve iniziarla, ci sarebbe an­che altro da dire, da scoprire, svelare (e Laura si presenta soltanto “vestita di vita”!), ma… conviene fidarsi dell’ideale destinatario. La parola riscopre infine il suo potere salvifico: dal rina­scere al far nascere insieme chi legge il passo è breve. L’iti­nerario di Laura finisce per coinvolgere, pur così personale, gelosamente cu­stodito: perciò, “fino all’ultima riga di vita”, nella parola del poeta è lo spec­chio di mille esistenze. Malgrado le ansie e le delusioni, qualche rimorso e la paura di un brusco risveglio, c’è fiducia, infine: un seme sotto la neve può germogliare appena un soffio di tenerezza lo scalderà. [1995]

Cassieri – Caccia – Caliman – Carbonelli – Castellani – Cengiz – Ceragioli – Certosino – Cerilli – Cervone – Cipriano – Ciufo – Corbino – Contenti

Adele Caccia, Melodia per voce sola, Volturnia

Voglio cominciare dalla parola vertigine, poiché mi sembra una parola chiave (ma sento che Adele Caccia usa le chiavi peggio del buon Hitchcock… le fa scoprire a bella posta per dare segnali al lettore, e poi lo spiazza cambiando improvvisamente la serratura della porta, se non la porta intera!). C’è dunque,  inizialmente quasi in questo suo libro d’esordio, una “vertigine del mondo” (in Solitudine): un’espressione che schiude non solo metaforicamente un orizzonte sconfinato… e rimanda direttamente – anche se forse (o no?) inconsapevolmente – all’espressione (posta non a caso in chiusura del libro!): “mosaico di vertigini”. È la chiave, questa, che apre la porta più facile, quella stessa che porta nella mente poetante di Adele… L’autrice della Melodia per voce sola è ben consapevole di questa sua solitudine, più artistica che esistenziale, in verità, par di capire, ma è pure una dimensione umana che dà le vertigini, fa girare in tondo, a vuoto, su “certezze senza appoggi” (Evanescenza); mentre si vorrebbero appoggi di certezza per posarsi con serenità in mezzo alle difficoltà della vita, tra “rovi senza spine” (Precarietà [titolo emblematico]). Questa donna poeta ha saputo della vita per averla vissuta: ne fanno fede – pur senza avere notizia delle sue note biografiche – le sue parole sparse che sono impronte e vestigia, ricerca e approdo. Vertigine esistenziale, dunque, che è al tempo stesso (o prima ancora) artistica: può esserne chiave-spia il breve intenso testo Senza nome) che ben potrebbe invece intitolarsi Poesia, tanto parrebbe tradire un’intima sofferta (ma dolce) rinuncia – fino a chiudere le “Parole” nel “Silenzio”. Ma l’inganno è dichiarato: colpevole eppur piacevole, è il respiro stesso della poesia! Appare già abbastanza scaltra, Adele, in certi passaggi lirici, ma chi più scaltro la legge non casca nei suoi tranelli (a meno di non voler galantemente fingere di reggere un gioco tutto sommato gradevole)…  Un secondo importante nucleo tematico del libro – che infatti, attraverso lo specchio, conduce alla vertigine – è quello del rapporto con l’ambiente, il mondo, che è possibile sintetizzare nell’immagine dello “specchio rovesciato” (Londra in me): proiezione dello spirito, lo specchio ha sempre avuto il significato profondo di altro da sé, ma il poeta vi ha spesso cercato anche il sé perduto nel quotidiano, il Godot che non arriverà mai perché siamo noi stessi in attesa di… noi.  Ecco perché Pozzilli, il paese che non si dimentica malgrado la distanza geografica, è “valigia che non torni” (Paese chiuso); ed ecco perché si scopre, con amarezza infine, che “Il nunque è qui” (Nunque): e chiuderei proprio con questo termine, questo azzardoso plurimo calco linguistico, segno più che segnale di amara dislocazione personale, di chi canta a voce sola (e certo non voglio entrare nel merito della disquisizione filologica della distinzione fra emigrata, trapiantata o altro termine che comunque indichi un andare, un evadere, un fuggire da… ma il poeta è sempre uno che sta più in là, e sa di esserci finito o di essercisi trovato per caso, ma sta lì, dove pochi arrivano e vengono a cercarlo, dove pochi poi si fermano accanto a lui, dove pochi… forse mai realmente, imparano a condividere una melodia dell’esistere).   [2005]

 ***

Giuseppe Cassieri, Diario di un convertito, Mondadori

Non è sempre vero che “l’autore è il peggior critico di se stesso”: Giuseppe Cassieri, malgrado la sua stessa iniziale dichiara­zione di modestia in proposito, ha saputo dare del suo recente Diario di un con­vertito una profonda lettura che non è parsa solo umana – come d’al­tronde ci si apettava – ma appunto critica, oggettiva, illumi­nante come un saggio critico in effetti dovrebbe e non sempre riesce ad essere. L’occasione per questa felice scoperta del libro e del suo au­tore, è stata la presentazione del libro, non la solita presentazione uf­ficiale perché l’occasione voleva essere uno stimolo a far parlare so­prattutto l’autore, per costringerlo a svelare qualche trucco della sua arte, forse le ragioni ispira­trici del romanzo, ma soprattutto per spin­gerlo ad aprirsi ancor più di quanto nel libro stesso non si sia potuto scor­gere. Cassieri, si sa, in questo genere di trabocchetti casca molto vo­len­tieri: basta aprire il rubinetto….e in poco meno di mezz’ora ha dato lezione di cultura, di “presenza” cultu­rale (e umana). Quel che conta alle soglie del 2000, se vo­gliamo arrivarci evitando lunghe cadute a piombo nel­l’abisso dell’indifferenza che sovrana ci avvolge, quel che conta nel messaggio di Cassieri è l’esigenza di unirci e rispettarci tutti: soltanto così, se sapremo riconoscere i nostri limiti prima di voler contestare quelli degli altri (ma non è l’antica favola della trave e della pagliuzza?), solo aprendoci alla comprensione fraterna potremo spe­rare di vivere meglio. Per scendere più a fondo nei particolari di questa teoria, con­viene leggere il Diario di un convertito, con la vastità e le mille sfaccet­tature dei suoi temi, con tutte le sue chiavi di lettura, più o meno evi­denti, più o meno allusive, più o meno paradossali: con i suoi “perso­naggi nel de­serto” che siamo noi nel nostro quotidiano rischio di mo­rire di sete, ed è sete di sapere, d’amore, di vita. Autore di puntigliosa cultura e icastica finesse espositiva,  Giu­seppe Cassieri ha la parola facile, l’espressione essen­ziale ed esauriente la “misura”) di chi da tempo sa giocare con le parole, per esercizio di mestiere, per necessità. Cas­sieri è uno di noi – e non è facile retorica – perché si sente uno di noi. Malgrado la fecondia e la consapevolezza delle sue abilità espressive, spesso ha paura di non essere ascol­tato ed è contento di esserlo quando capita, perché sa che ormai è difficile farsi ascoltare: e vorrebbe che tutti ritro­vassimo la voglia, e la capa­cità, di ascoltare, noi stessi e gli altri, noi stessi negli altri, e non solo “per” amore…. Dall’ultimo romanzo di Cassieri, problematico e sua­dente (come l’impenetrabile Fatma, la deuteragonista), esce un messaggio irrinun­ciabile, forse “vecchio” ma per questo ancor più vero (forse è lo stesso del Seneca migliore): se non conosci gli altri non saprai chi sei. Nel Diario di Cassieri gli altri” sono i musulmani (non solo quelli della Cappado­cia), a noi vicini per indubbie affinità culturali, religiose e storiche; ma potremmo essere noi gli “altri” per loro, in prospettiva diversa: ecco, dobbiamo imparare, abituarci a non pensare più in ter­mini egocentrici (o “eurocentrici”), aprirci con umile disponibilità a studiare, capire, ascoltare gli altri chiunque essi siano. Al di là della finzione letteraria, oltre il dubbio sentimen­tale e religioso del suo protagonista Jacopo Taris, Cassieri pensa pro­prio che si debba aver fede, credere in un principio, in una forza, in qual­cuno…. una donna? un amore? una vita? Cassieri ci crede e con lui siamo indotti a crederci, a riflettere almeno stilla possibilità, l’oppor­tunità di crederci (di “convertirsi” almeno alla propria – non sempre ben praticata, spesso misconosciuta – fede), si è aperto un po’ di più anche a se stesso. Un romanziere, è vero, non ha forse il compito di aprire le fron­tiere, di abbattere le barriere di ogni genere che stringono i po­poli, che opprimono gli uomini, ma quello di aprire le coscienze sì, quello di schiudere gli occhi alle anime, ai cuori, quello sì. [1986]

***

Marcello R. Caliman Il dizionario del nonno Caramanica

“Il dizionario del nonno” è un libro coraggioso perché onesto, pregio raro oggidì, ed è scritto col cuore nella penna, col desiderio di fare il punto sulle convinzioni personali affinché diventino insegnamento, viatico, vademecum per il piccolo che appena si affaccia alla conoscenza del mondo, il nipotino Koen. Ma vale anche per gli altri piccoli di famiglia e per tutti i piccoli che vorranno riflettere insieme ai loro genitori su quali rischi si corrano affrontando il mondo senza un adeguato bagaglio di informazioni e stimoli culturali. Io non volevo semplicisticamente rischiare di pormi a contrasto con l’ideologia che è la matrice sotterranea di questo libro, anzi ne apprezzo la genuina volontà di continuare un discorso che all’autore è stato proposto da bambino e nel quale ha saputo vivere contento di sé. Non è poco, non tutti hanno certe fortune: un padre attento, una famiglia educata e una convinzione profonda alla base dei rapporti umani e sociali – vivi come se tutti fossero tuoi fratelli, preoccupandoti del loro bene. Il dizionario del nonno di Marcello Caliman è un libro da comodino, di quelli che si tengono vicino, a portata di mano, da leggere ogni tanto un pezzetto, senza pensare a come va a finire… qui si gode pagina per pagina, ogni pagina un momento di riflessione, e di crescita insieme. L’autore ripercorre tutta la sua vita, offrendosi a modello per il nipotino (e chiunque voglia seguirlo nel suo percorso iniziatici): dai primi anni di studio (presso i Gesuiti) a quelli maturi della professione, dal primo amore (che è rimasto l’unico, fortunato lui!) alla famiglia attuale, coesa e ricca di amore. E la parola “Amare” infatti è la prima voce del “dizionario”… non poteva essere altrimenti! Ma sorprendono parole come “jogging” e “kapò”, mentre più scontata appare la scelta di “genitori” per la lettera G, “Italia” per la I, “umanità” per la U. In qualche caso, Caliman riporta versi o frammenti in prosa di autori famosi, altre volte inserisce nel testo sue vecchie cose, gradevoli e funzionali. Così troviamo racconti come la favola fantascientifica della “sirena” della Grotta azzurra e la “storia di una dama e di cavalieri senza paura” ambientata in un realistico Medioevo, oppure i versi (dodici poesie) dedicati a “quattro trilogie tematiche: i miei tre figli, i miei tre nipoti, le terre a me care per nascita, elezione e radici, e alla paternità: mio padre, il padre abate e il Padre eterno”. Il corredo fotografico in appendice al volume (decine di immagini di varie generazioni di parenti e amici) lo completa proprio nel messaggio di testimonianza privata che l’autore ha voluto affidare alla sua opera. Più che andare a scomodare i maestri illustri che poi proporrà la scuola (se sarà una buona scuola), qui si propone una lezione di verità verificata. Offrire anche i volti di coloro che sono i protagonisti di un’opera corale come questo “dizionario” è pertanto il segno vivo di una precisa volontà educativa: le parole del libro non sono solo parole, sono il frutto di un albero reale, la famiglia, cui attingere il tangibile nutrimento per la vita. Marcello Caliman d’altronde ha appena pubblicato un complesso lavoro sul Matrimonio (Storia, rito, innovazione), e Il dizionario del nonno va letto anche come un completamento, un arricchimento in progress, del suo costante interesse per le tematiche sociali, da giornalista non soltanto, ma da uomo spiritualmente partecipe dell’umanità in cui vive e opera.

 

Marcello R. Caliman, Traetto è… , Caramanica

Nell’oceano di immagini e distorsione massmediatica che è diventata la nostra società, nel pullulare di banalità spacciate per verità di fede, nel pericoloso revisionismo che vorrebbe addirittura negare l’evidenza storica, è ancora necessario interrogarsi sul passato, rievocando in primis gli episodi fondanti della storia locale. Specie per la formazione di una coscienza cittadina, non per essere campanilisti in un mondo sempre più globale (nel bene e nel male, ahimè), ma per comprendere quanto il piccolo faccia parte del grande mondo, che è in fondo la somma di tanti piccoli mondi – affinché specialmente i giovani (distratti e superficiali, ma non soltanto per colpa loro) si formino una convinta consapevolezza di appartenenza –, pagine come queste servono a sistemare le cose. Da sempre cultore appassionato e ricercatore instancabile di storia patria, Marcello Rosario Caliman offre in questo caso un insolito modello interpretativo di lettura degli avvenimenti. Lo fa infatti in forma teatrale, quasi come un oratorio, e dato l’argomento sembra la maniera migliore. La sua densa scrittura è qui articolata in “voci” e documenti, alternandosi a creare una trama di viva palpitante emotività. Gradevole risulta la lettura di un testo concepito forse direttamente pensando alla sua “messa in scena”: lo si può leggere come un libro di storia ma si presta pure ad immaginarlo davvero come una sceneggiatura da rappresentare, con i personaggi in costume, sullo sfondo degli edifici dell’epoca. Ne rimane una sensazione commossa di partecipazione, che non si ha normalmente da un testo di storia. Caliman non ha bisogno di ricordare a se stesso di essere eminentemente un giornalista, prima che uno scrittore, e nemmeno deve dimostrarlo a qualcuno. La sua penna è dunque riconoscibile: chi lo conosce sa bene – anche quando racconta la grande storia, anche quando ricostruisce documentate vicende e le trasforma in agile narrazione – che può aspettarsi il tono colloquiale del cronista e insieme il suadente giudizio dell’elzeviro. Dare voce al popolo, far intervenire i protagonisti della storia minturnese a raccontare i fatti vissuti, è un espediente narrativo e teatrale di sicuro effetto. Il pescatore e la popolana, il parroco e il maresciallo dei gendarmi, parlano testimoniando non solo la loro esistenza, ma avvalorando la consistenza di una comunità: Traetto è l’insieme delle loro voci, e merita di essere ascoltato a conforto e conferma della più autorevole voce dell’Arcivescovo. Rispettando lo stile della grande opera in cui si inserisce, questo volume (quarto della serie Ad perpetuam rei memoriam) si chiude con una sostanziosa appendice documentaria, che serve a completare l’informazione storica, a chiarire episodi e personaggi. Il progetto dell’autore – che continua a numerare le pagine dei suoi volumi come fossero un solo libro – è quello di scavare nella memoria collettiva e farne dono ai suoi lettori, ai cittadini minturnesi di oggi e di domani, a tutti coloro che vorranno conoscere la città, le sue origini, la sua storia. Anche un agile e apparentemente leggero libello come questo che qui si presenta – appena una scheggia nel ponderoso corpus approntato dall’autore su Minturno (prima Traetto) – merita la considerazione di chi ha a cuore la sua terra e la sua gente. Storia e religione, pilastri che tengono salda la società, qui stanno insieme nella corale manifestazione di un popolo e dei suoi pastori [2018].

***

Fulvio Castellani, I graffiti del cuore, Ursini 2006

Le parole sono “lingue di memoria / scolpite nel marmo / e consegnate al vento”: Castellani le conosce bene, come sa bene che “il passato è passato” e proprio alle parole spetta il compito di custodirlo e farcelo riassaporare “come il mosto / che si è fatto vino”… In questi graffiti del cuore si colgono sprazzi di liricità colta – le vecchie matrici e la lunga frequentazione con la poesia di tutt’Italia lasciano segni evidenti. Le corde si tendono e vibrano di accenti commossi, a rievocare un momento (“per ricordare il volo di un pensiero”) o rimpiangere presenze perdute (“vuoto com’è il paese di memoria”). La poesia non ha scadenze, non ha un best before stampigliato… “Mosaico di parole”, “Oltre”, “Ci credevamo uomini” sono le punte di questi graffiti, quelle che più si incidono nell’attenzione e insieme rimandano ad altre, e alte, punte della produzione precedente di Castellani. È il caso di ricordare Segmenti e diaframmi, una silloge (del ’99) breve ma dalla compatta densità espressiva, nella quale una fresca commovente tensione anticipava già temi e toni divenuti poicongeniali (o lo erano e si sono affinati e inaspriti insieme). Lì “Scappatoia”/”Parentesi” erano un dittico esemplare di come si possa vivere una vita altra, poiché altri ce la dà nel guardarci vivere (è la chiave di Palazzeschi e Pirandello e Svevo e…) – la vita è quella che riusciamo a cogliere e godere nelle pagine interne di una storia che riserva ad altri “la prima di copertina”. Eppue ci nutrono i sogni e ci irridono le cicale spensierate: destino ci affratella di essere insoddisfatti e correre comunque verso dove… Viva la luna, infine, finalmente discreta, che non vuol turbare il sonno senza sogni di quei tanti “poveri cristi”!… Il disincanto di chi sa e sente vicina la meta permette di guardare ad un “anno nuovo, vita nuova” senza dimenticare e senza negare “diari risaputi”: domani chissà se davvero sarà nuovo, difficile dirlo ma difficile più ancora è fingere di crederci davvero. E sul cuore, sulla pelle tormentata di un cuore che tanto ha vissuto, si incidono “graffiti” che un giorno lontano diranno – a chi saprà leggere –  di un passato sofferto e fatto parola, e di un tempo/zattera rimasto “a galla” proprio perché ci si possa aggrappare e salvarsi.

Fulvio Castellani, Orme e penombre, Ursini

Il sottotitolo è illuminante: “La mia poesia (Antologia essenziale e critica)” significa che Fulvio Castellani ha deciso di sistemare da solo il corpus della sua ormai abbondante produzione poetica – probabilmente non perché abbia sfiducia in un qualche amico al quale affidare il compito, ma proprio perché aveva bisogno che la scelta fosse la sua, a questo punto della sua vita. Castellani sta per compiere settant’anni: forse deve anche a questo dato anagrafico il bisogno di mettere ordine e presentare al pubblico dei lettori quel che di meglio ritiene di aver fatto. La scadenza è importante, ed è anche passato un quarantennio dalla prima pubblicazione, Ho ballato nell’ombra. Fin dall’inizio, Castellani predilige alcuni temi che poi ha sviluppato senza tradirne le linee portanti: il tempo, soprattutto, il rapporto con il tempo che è un guardarsi allo specchio e giudicarsi: onesta posizione intellettuale che si propone – se non a monito – ad esempio. “La corsa diventa veloce / verso gli anni della verità” (“I miei trent’anni”), “sulla strada che ho percorso / incredulo di essere uomo” (“Quel giorno”), si può così ricostruire il percorso del farsi uomo e dolente ascoltarne il grido di scontento e delusione. Il fine del poeta è parlare al prossimo, affinché sia più chiaro per l’uomo il suo essere uomo, e più sopportabile quando ci si renda conto che è difficile comunque. Il poeta, un po’ Palazzeschi e un po’ Montale (ma tanti altri s’incontrano in queste duecento pagine), sa di essere “nato uomo / in una giungla di selvaggi” (lo diceva negli anni settanta, con parole purtroppo attualissime ancora), ma sa pure di essere un “povero straccivendolo di sogni” (i due testi sono in Prigioniero di libertà disuguali): è quasi uno schiaffo, uno sberleffo, doloroso perché consapevole di una impotenza di fondo: il poeta non cambia la vita dell’uomo se l’uomo non impara a guardarsi dentro (o a sputarsi in faccia allo specchio, se lo merita) come fa il poeta. Il tema del tempo si intensifica col passare dei decenni, si affina la scrittura e si scaltrisce la maniera di porsi ma l’onestà intellettuale è salda e l’assunto di partenza non si smentisce. La seconda poesia inserita in Ombre e penombre, “A braccia aperte”, è dedicata “a mio padre”; l’ultima è un commosso ricordo materno: “Come tanti anni fa” – l’autore, che ha costruito il libro a sua immagine, l’ha fatto apposta, pure a farsi perdonare l’incipit un tantino maudit, in quel “Deserto di follia” che ci si augura comunque sia rimasto solo un vezzo di gioventù…

***

Ceragioli

Elide Ceragioli, La libertà delle foglie morte, Zedda Editore 

Meriterebbero un’analisi più ampia le caratteristiche narratologiche di questo romanzo: la costruzione e la scansione del testo, il montaggio delle sequenze narrative (chissà come viene al cinema…), la giustapposizione dei personaggi e il rapporto più o meno determinato tra il loro pensare e l’agire. Almeno un elemento che è abbastanza sorprendente si può segnalare. Saremmo in difficoltà se volessimo individuare un protagonista nel senso classico del termine, e del ruolo. Lo si può definire Antonio, l’italiano dalle tante facce che alla fine ottiene tutto e anche di più (sulla sua soddisfazione si chiude il libro) – e quello che all’inizio sembrava il personaggio intorno al quale ruotano le vicende, Jacob, l’orfano due volte colpito dalla sorte, proprio dalla sorte è messo al servizio del falsario e ne diventa (inconsapevolmente, certo, ma per la sua abilità nel disegno) aiutante, aiutandolo appunto a raggiungere il suo scopo. Probabilmente è più giusto pensare che entrambi abbiano un peso determinante, di reciproco giovamento nell’economia generale della struttura narrativa. Forse il libro poteva articolarsi in una serie di racconti autonomi ed avere la stessa intensità di testimonianza e di affetto per un mondo colto in un momento difficile, di strenua lotta per la sopravvivenza… Un mondo di contrasti, un feroce mondo in cui vige ormai la legge del più forte (e si sa bene chi sono i più forti) ma dove anche il più debole riesce spesso a vincere la sua parte (e ce ne sono tanti, qui, che si arrabattano per non farsi scoprire come tali) – è un mondo che celebra vanamente un’aria da passato glorioso che presto sarà svanita, e in cui nuove forze cercano di farsi strada o per lo meno di non perdere quella faticosamente conquistata. Ci sono tanti personaggi che vivono vite a più livelli, con più o meno successo. Ci sono eventi che precipitano sui piccoli fatti quotidiani e ne determinano inesorabilmente la piega esistenziale… L’autrice con sapienza e misura regola tutte le storie e muove tutti i personaggi, dando a ciascuno il suo quarto d’ora di celebrità, si direbbe, le sue tre pagine di visibilità, e peccato se in quelle soltanto, in quell’unico momento nella storia (o nella Storia!) il poveretto acquista luce propria – e subito la perde, inseguito com’è da tanti altri in cerca di quarti d’ora, di tre pagine da vivere… A pensarci bene, non è così, sempre, anche ora, anche qui? Non è sempre una corsa, la vita, una lotta a raggiunger e trovare il posto in vista, scavalcando e scalciando i meno capaci, prostituendo l’anima spesso più che il corpo al miglior offerente? Le foglie morte, di solito, finiscono spazzate via a macerarsi in qualche rigagnolo… Di rado, però (succede, paradossalmente) proprio quando muoiono trovano la libertà – staccandosi dall’albero che le teneva legate alla sua volontà. Bisogna in definitiva aver fede nella missione che la vita ci riserva da compiere: così soltanto ci si potrà sciogliere da legami ossessivi e dar vita ad una privata costruzione dell’esistenza che si liberi da costrizioni e infingimenti. Oggi, certo, è più facile, se facciamo tesoro di quel che sappiamo; malgrado il bombardamento mediatico che ci subissa di conformismo (la propaganda dei nazisti era più abietta ma non più efficace): alla fine della storia come la racconta Elide Ceragioli, il sugo – direbbe don Lisander – si è molto ristretto, ma basta ancora a condirci il futuro.

***

Dante Cerilli, Ischitane, Federico

Poesia dell’ambiguità, è questa di Dante Cerilli, ma nel senso pieno del termine, non certo in accezione negativa; è poesia che costringe al dubbio, che non vuole raccontare anche se parla di esperienze concrete (ma vissute in un ambiente di sogno), si nasconde e si fa inseguire, preferendo suggerire polivalenze semantiche non sempre agili a sciogliere. È poesia che incalza e mette in angolo, specie chi abbia altre corde e l’abitudine ad esprimersi (e recepire) in modo più chiaro e diretto. Sono ambigue fin dalla copertina del libro, queste Ischitane, fin da quel desiderio (se lo è) espresso nel sottotitolo… e se ci fosse maliziosamente consentito di pensare che è dedicato alla splendida figura femminile che si staglia in primo piano nell’illustrazione [il quadro di Guido Irosa “Visione di un’isola”], non ci sarebbe altro da aggiungere – ma è ovvio che il significato di una parola di Cerilli va cercato ben oltre la parola, ben al di là della semplice denotazione: “per un abbraccio” potrebbe anche essere un complemento di causa (poesie scritte a causa di un abbraccio [e di chi?] tanto intenso da farsi indimenticabile! I sottotitoli o i titoli delle sezioni di un libro hanno a volte più importanza del titolo generale del libro stesso. Costituendo una specie di filtro subliminale in cui far passare non soltanto i contenuti reali (del libro o delle sezioni) ma quasi svelandone il trucco generativo e compositivo – Cerilli si fa maestro di titoli nel volume A passo d’uomo, volutamente biografico nella disposizione della materia poetica raccolta e presentata: “L’eco della presenza” (un ossimoro che proietta nel surreale), “Volti e luoghi d’altri pensieri” (un altro audace accostamento semantico)… Lasciano addirittura perplessi certi scatti linguistici a Cerilli peraltro congeniali, data la frequenza con cui si ripetono e la ricchezza che li caratterizza sul piano espressivo e figurale. Ci si ritrova sballottati alquanto, incerti se credere alla concretezza di un luogo piuttosto che affidarsi ai segni onirici che se ne staccano. E poesia della perplessità è questa nuova prova di Dante Cerilli, che si interroga su se stessa e pone inquietanti dubbi, nemmeno preoccupandosene troppo: si arrangi chi legge a trovare le risposte, a sciogliere gli enigmi, a scandagliare nei sensi delle cose che si fanno parole. Perplesso (etimologicamente) è chi si piega tante volte su se stesso, finendo anche per contemplarsi dall’ombelico alla punta delle scarpe, e inciampando nel proprio naso… come a volte fa il poeta, anche il nostro poeta, che alla punta del suo naso vede appiccicato il mito, non più lontano di un palmo se (novello Pinocchio) quel suo naso curioso gli cresce inopinatamente, avendo appunto scoperto l’inganno in cui dibattersi impotente: il mito è dentro di noi, se ci crediamo, ed è bugia cercarlo dove qualcuno presuntuoso ci dice di averlo nascosto. Si piega talmente tanto su se stesso, il poeta, che a volte gli si piega anche il verso, su se stesso, e gli casca una sillaba nel verso sottostante, spallando per trovare un po’ di posto. Fuori tempo forse questo artificio linguistico? Ma chi lo usa ne ha bisogno per una sua interna esigenza di misure e non gli si può imputare altro che la sua libertà (a meno che non debba proprio rappresentare, quel cadere dei versi, il rischio continuo che sta sotto i nostri passi di uomo, spesso incauti o malaccorti). Aspettiamolo al varco dei 40, questo giovane poeta intellettuale che non si vergogna certo di sembrare un professore, discreto comunque nell’esibire una preparazione culturale non comune, una capacità di rielaborazione attenta e consapevole di molte lezioni (che peraltro, almeno quelle, traspaiono da qualche citazione più o meno esplicita o esplicitata: come Pavese, in buona parte della sezione “Il mio paese è l’Italia” in A passo d’uomo). Aspettiamo per vedere se vuole insistere a darci grattacapi, o ci consentirà più spedite letture raccontandoci davvero la vita e non i suoi simulacri, operazione che finora molto bene gli è riuscita ma che senz’altro lo stanca, sia pure amabilmente (dev’essere uno di quegli scrittori all’antica che lavora con gusto e non si diverte se non si affatica un po’, manco glielo avesse ordinato il medico: il lavoro nobilita l’uomo, figuriamoci il poeta, che è un super-uomo!)… [2005]

***

Dante Cerilli, Piccolo volo leggièro, Samperi Editore

Il coraggio di essere padre non banalmente ma darsi nell’intimità più tenera senza falsi pudori – e più semplicemente di essere chi si è (uomo, marito, professore, poeta): Cerilli è esperto di mondi letterari e certo ha presenti le opere poe-tiche dedicate a familiari, amici, conoscenti, in-somma sa come comporre, e compone un piccolo enciclopedico capitolo esistenziale. Nel suo Piccolo volo leggièro, dedicato a suo figlio appena nato ma ricco di tante altre presenze, quanti nomi e luoghi e date! Sempre le date: Cerilli ha paura di perdere anche il minimo frammento di vita vissuta e nel farne versi lo fissa con esat-tezza cronologica nel percorso di sua esperienza, che è – ça va sans dire – umana e letteraria insieme. Piccolo volo leggièro raccoglie 33 testi scritti in un breve arco di tempo, due anni e mezzo, ed è ancora un passaggio di quelli cui Cerilli ci ha abituati nelle sue raccolte poetiche: una specie di diario continuo nel quale il poeta racconta e il lettore è chiamato a partecipare alla ricerca di elementi e tasselli adatti a ricostruire, magari decostruendo, un modello esperienziale. Nomi e date, dunque, ma non sono i soli espedienti atti a segnare il cammino da compiere. Un esempio almeno: in “Vedi le colombe” ci sono “monti dorellati e sabbia scotterella”; il primo aggettivo è quasi anagrammato in “ridarella” nell’ultimo verso (“l’ombra serena di pace ridarella”): devi sempre concedere a Cerilli il vantaggio della prima mossa, ma se giochi con lui rischi di vincere un bel salto nel mondo incantato della parola in gioco. Com’è nella riflessione tautologica di “Meglio non essere ponti” o in “Sei nel vento ala”, profonda meditazione sull’essere. E infine c’è lui, il figlio, Diego Mario, il maschio atteso e voluto, che rinnova il padre nel nome (ma il secondo, quasi a non volerlo fare sfacciatamente). La creatura appena nata è già invitata a farsi “brindisi” per “l’eternità che si rincorre”, è “meraviglia del vivere” e pure “un morire a se stessi”, che invita a stringere “un patto d’intesa”: nel “miracolo” che si schiude sono racchiuse “fides et ratio” – come a suggellare l’ideale staffetta tra padre e figlio. Il piccolo libro si chiude con un apparato di note degno di un testo di studio, ma la vita intera per Dante Cerilli è uno studio, un’attenta ricognizione di fatti e persone che segnano i tempi e sulla carta diventano segni del tempo e dunque poesia.

 ***

Maria Cristina Carbonelli di Letino, Impressioni d’autunno, Volturnia Edizioni

“Forse sono cresciuta ma non me ne sono accorta” – a un certo punto, disincantata, si rende conto l’autrice di queste Impressioni, ed esclama, poco dopo: “Crescere è un’altra cosa”. La complessa tematica del crescere e dell’educazione è una delle portanti del libro. L’autrice è una madre che è stata figlia consapevole dei ruoli familiari, e sa come fare un discorso che non sia “una battaglia persa” (provarci almeno, almeno credere di avere una possibilità di ascolto). Lei sa che nella vita vive meglio chi non fa troppo rumore. Così la sua poesia è semplicità fatta parola che si dà nella spontaneità di un rapporto di fiducia, come appunto è – dovrebbe essere – un rapporto educativo, perché si possa crescere, in quel rapporto. Lei stessa, anche se con il tempo gioca (ma non tanto), si accorge di essere al punto in cui (da un pezzo) si tirano le somme – eppure non vuole, sa che non conviene farlo. Poiché si può sempre “fare di più”, ma in tutta onestà noi “Facciamo di più?”.  Ed anche il lettore, logicamente, può fare di più, sforzarsi per lo meno di capire, accettare, rispettare la voce del poeta – poi, magari, ci si ritrova pure (e in quella voce, diventata sua, cresce). Maria Cristina Carbonelli di Letino si dichiara inesperta di scuole e accademie letterarie, ma conosce l’uso delle tecniche espressive e degli scherzi linguistici che in poesia sono leciti e necessari (ma certo non si vergogna di riconoscere che ancora “la luna/ ispira una poesia”). L’immediatezza descrittiva e narrativa colpisce sempre nei suoi testi; e sono pennellate di colori, e sono frammenti di vita – a volte sono la sintesi di colori e di vita, descrizione e narrazione. Come in “Notte sul mare” (dove “il tempo che passa/ fa una sosta,/ si accomoda e sonnecchia”!), in “Così ingombrante” (con quell’esemplare albero di fico, vecchio e storto ma “quasi più bello”), e nell’epilogo “È passato un altr’anno”.

 ***

[463] Metin Cengiz, Il colore dell’oscurità, LietoColle

Metin Cengiz

“Sono viaggiatore di me stesso”: una presentazione che è un programma esistenziale, non soltanto un’affermazione di poetica. Il poeta turco Metin Cengiz si dichiara per quel che sente di essere, ed è, impegnato come sa a dire in poesia quale cammino caratterizzi l’uomo ancora degno di chiamarsi tale. È pertanto opportuna – e si direbbe tempestiva, dati i tempi – la pubblicazione di questo suo libro, Il colore dell’oscurità, nella traduzione di Laura Garavaglia per la cura (sempre impeccabile) di LietoColle nella collana “Altre terre”. Metin Cengiz, che è anche un affermato teorico e saggista nel campo della poesia, merita di varcare il Mediterraneo con la sua testimonianza; ha vissuto e conosciuto abbastanza da permettersi una certa libertà di parole, e comunque la poesia non fa politica (anche se – oggi – non si può scindere la lettura di un libro di poesia turca dall’idea della libertà). I temi ricorrenti nel Colore dell’oscurità sono quelli degli affetti privati, della natura umana e dei problemi sociali. “Aiutami o parola”, esclama ad un certo punto il poeta, che sente il bisogno di dire e ha forse paura di sbagliare nel suo dire. Si esercita quindi in una specie di via mediana per la poesia, che è quella del raccontare la vita senza prendere apertamente posizione, ma presentando episodi e persone tali da creare una tensione sottile, e scuotere così l’attenzione, suscitare interesse. Di guerra si parla in qualche testo, di Gaza e dei danni subiti lì specialmente dai bambini (“ieri ho visto la morte…/ ora da Gaza esce il cadavere di dio”); si parla di tolleranza, anche con toni ironici, mascherando un po’ le intenzioni, come in “Primule e una pistola scarica”. Soprattutto si parla di umanità e di buoni sentimenti, di semplicità della vita e del tempo che passa. Metin Cengiz pubblica per la prima volta un libro in Italia; non solo per curiosità (non sono molti i poeti turchi da noi conosciuti), si deve leggerlo poiché attesta una capacità di spaziare liricamente e fissare lo sguardo su quello che siamo, che non dobbiamo sprecare se è bene, che dobbiamo evitare se è male [2018].

***

Davide Certosino, La filosofia di Massimo Troisi, Pironti

“Hai fatto una metafora…” “Ma non vale: non l’ho fatta apposta!” – in queste battute liberamente tratte dal Postino, è il senso della “filosofia” di Massimo Troisi. Appunto: un filosofo involontario, o “malgré lui-même”, direbbero quelli che di filosofia da “boudoir” se ne intendono da un pezzo. Insomma, non è difficile raccogliere – come ha fatto Certosino con pazienza – esempi del pensiero minimo di Troisi, spigolando nelle sceneggiature dei suoi film. Ce n’è d’avanzo, anzi… Lo sfortunato erede di Totò, come fu definito, ebbe forse più l’arguta ironia, la malinconica strafottenza, la consapevole impotenza di Eduardo. In questo libro di Pironti si trovano, organizzate in diciannove voci tematiche, le migliori espressioni, le più significative, le più famose dell’infinito repertorio. Da “famiglia” e “amicizia” a “sesso” e “religione”, a “politica” e “sfortuna”, a “Dio” e “cultura”… Davide Certosino sposa interamente la “filosofia” di Trosi, del quale nemmeno ha bisogno di dichiararsi apertamente ammiratore, poiché è evidente dalla messe di citazioni riportate. Della napoletanità di Troisi si è detto e si sa tutto, ma non dispiace scoprirne qualcosa di più: un attento osservatore delle cose umane, non solo del Sud. Nei suoi film, nei suoi scketches, nelle battute fulminanti come nei lunghi monologhi apparentemente senza senso, nella libera sintassi dei suoi discorsi arrampicati a volte a tanti puntini di sospensione, si coglie sempre una acuta visione del mondo, della società, della miseria. Ecco perché a un certo punto gli viene da esclamare, con la solita malinconia di quando esprime una verità che non riesce a mantenersi: “sono stanco di essere uomo”. Lo è poiché non vede giustizia, per chi sta male, soprattutto (“come mai – se è la fame la colpa delle cattiverie – chi ha la pancia piena nemmeno si comporta bene?” – vagli a dare torto…). Lo è pure nei confronti del prossimo, malato di acquiescenza e indifferenza: datevi una mossa, vorrebbe gridare, non ve ne state sempre ad aspettare il panierino; anche Dio è stanco di fare miracoli per chi non se li merita (specie se si accorge che “Gesù Cristo è venduto casa per casa come un’enciclopedia”).

 ***

Sandra Cervone, Oltre, deComporre

Leggiamolo come un eserciziario, questo sorprendente primo libro di narrativa pubblicato dalla poetessa (e attivissima promotrice culturale) Sandra Cervone. Non è giovanissima – un esordio maturo in un campo diverso da quello abitualmente frequentato indica una svolta (più o meno voluta, quanto meno per curiosità), o una più semplice necessità di misurarsi, anche con se stessa. Appunto: un libro di esercizi, quarantatre variazioni su un tema – per di più difficilissimo proprio perché apparentemente il più facile a dirsi, ovvero “in quanti modi si può coniugare l’amore” (e quanti amori ci sono, quante parole per dire ti amo…). Qui ci sono proposte diverse, molto diverse, quasi tutte tragiche negli esiti, sconvolgenti, ai limiti del “probabile”, come avvisa infatti il sottotitolo. E il titolo stesso è un perentorio avviso: Oltre, a poterci andare, c’è una dimensione alla quale ci avviciniamo con cautela, ma c’è pure un mondo in cui proiettare (dimensione onirica, subconscio, incubo) quello che da questa parte ci sembrerebbe insopportabile – ma ineluttabile, a volte. Sandra Cervone ha già esplorato in poesia territori molto vasti (e qualche racconto era pur apparso in rivista); ha dato voce ad altre figure, oltre la sua, ha sognato i sogni di altre donne fingendo che fossero i suoi (o viceversa, in poesia è possibile). La sua natura di poeta è peraltro evidente anche in certe pagine di questi racconti brevi e brevissimi, in certi brani lirici che sembrano momenti di quiete (appena un attimo di tregua nella tensione della scrittura, troppo spesso… prima della tempesta, che a sua volta sembra un’apotropaica liberazione). Ma la padronanza del ritmo in prosa, la scansione del periodo e della frase, nel variare della lunghezza del racconto e a seconda dell’esigenza creativa, indicano una consapevolezza di autrice che va a segno colpendo non soltanto l’immaginazione del lettore, ma la capacità di cogliere le cangianti sfumature del dire. Occorre infatti prestare attenzione, senza farsi prendere dalla trama (peraltro essenziale, a volte quasi inesistente): qui conta la parola, il suo manifestarsi, più che il divenire della storia, per lo più appena accennata, un pretesto per esercitarsi, per raccontare un’unica storia: quella di Sandra innamorata dell’amore.

 ***

Sandra Cervone, Ali,

 Andromaca soffre ancora di abbandono e solitudine, ma ormai sa pure come accontentarsi del sogno: “immagine più vera della vita non vissuta” verrebbe da (auto)citare. Ed è per questo che servono le “ali”, no? per continuare a volare oltre il presente, oltre il quotidiano (“ho conservato / le ali / per il giorno / del riscatto”). E colpisce la continuità, l’omogeneità di ispirazione, di espressione che potrebbe essere un pericoloso segnale di lirica monocorde, nel perenne guardarsi allo specchio del sogno (dichiarato) e dell’autoascoltarsi (tra l’accidia dell’inetto e la perfidia del sadico) – ma è invece, la compattezza stilistica che fa dei vari libri di Sandra Cervone un monobiblos, è un segno di orgogliosa affermazione di un io testardo a rincorrere l’io più vero dove è anche più difficile consistere: fra le spine del dolore, nell’oblio del dolore, quando il canto è “movimento arduo / e amaro” e la pace è “desiderio sussurrato / a fior di spine”.

***

Sandra Cervone, Di petali la luna, Perrone

Un libro importante di Sandra Cervone lo si aspettava da un po’, almeno da 4 anni, dall’uscita – nella collana la stanza del poeta – del piccolo libro La Luna e il Tempo. Dopo, solo presenze in antologie o periodici a varia diffusione. Eppure, come scrive Rossella Fusco nella prefazione di questo nuovo lavoro: “Sandra Cervone è poesia fatta donna”… Lei vive, respira poesia da almeno metà della sua vita! Di petali la luna è il sesto volume della collana “La Luna e gli Specchi” che la stessa Cervone dirige per l’editore Perrone, una serie di libri (ne sono previsti una dozzina) di autori del Golfo di Gaeta, aperta a poeti più o meno affermati ed anche ad esordienti. Questo poi è il compito che a Sandra Cervone piace di più, fare da “chioccia”, da scopritrice di talenti, da curatrice delle speranze altrui, in uno spirito di partecipazione totale alla funzione sociale della poesia. Del resto, si dimostra anche così una donna coraggiosa, se è vero – come scrive ancora Rossella Fusco – che “Solo chi non ha paura del dolore di vivere può consumarlo e metterlo al servizio dello scrivere e dell’esistere”. E perciò chi ha tanti numeri nella sua scheda bibliografica non disdegna di comparire in una collana insieme ad autori quasi sconosciuti. Le 70 poesie raccolte in Di petali la luna sono frutto di anni appassionati e profonda convinta dedizione, di lavoro sulla poesia propria e altrui, che consente ora a Sandra Cervone di mostrarsi consapevolmente matura e sicura dei propri mezzi espressivi. Al suo attivo, d’altronde, ha molte pubblicazioni nelle quali ha progressivamente affinato le armi e confidenzialmente rivolto il suo dire poetico ad un pubblico non di parte, che la stima e si fida del suo dire. Il titolo del volume è indicativo della sintonia ormai storica di Sandra Cervone con la luna, leopardiana e al tempo stesso ironica amica e compagna di sogni: Di petali la luna vede ovviamente la luna presente in gran parte dei testi che raccoglie. E infine, dopo essersi spogliata di perdute inutili esistenze, depurata di illusioni e provvisorietà, l’autrice di questo libro fondamentale nella sua esperienza di scrittura, può dire, con civettuola e soddisfatta consapevolezza: “mi vesto di luna” – mi vesto di fantasia e so come devo indossare un abito simile.

  ***

Lorenzo Ciufo, La casa nuova, Tutti Autori

Prima di mettere su casa, La casa nuova, appunto (la prima “casa” della sua carriera), il poeta esordiente ma non giovincello ha voluto che fosse arredata per bene. Attento conoscitore di tanta poesia, dalle officine artigianali alla più alta editoria accademica, Lorenzo Ciufo ha composto la sua prima silloge per la pubblicazione con misura e accortezza. Il libro (bello anche nella sua veste) presenta del nuovo autore che si offre alla piazza cattiva dei lettori un’ampia panoramica dei suoi modi di intendere e fare poesia. L’indice è suddiviso in sette sezioni: tre più estese (una ventina di testi), quattro meno. Si spazia dalle tematiche del paesaggio e del viaggio, a quella degli affetti, e dell’intimità più profonda. Le competenze letterarie di questo esordio sono decisamente notevoli: la scansione del verso è di solito arbitraria, il ritmo della trama espressiva ne risente, per certe asprezze che rallentano il fluire della frase; eppure vive nei testi migliori una sospensione che tiene alta la tensione del dire e la stessa attenzione del lettore ne viene contagiata. Non è un libro di fronzoli: La casa nuova è pronta ad ospitare i visitatori che vorranno incontrare Lorenzo Ciufo, ma non è per incontri occasionali – qui, chi entra, sappia che l’accoglienza è dignitosa, composta, complice, anche, ma non banalmente ricettiva, nient’affatto domestica… non venga a bussare a questa porta chi si aspetta dal poeta la facile consolazione della parola. Ci sono versi che è possibile isolare dai loro contesti e sarebbero – da soli – testi validissmi. Ci sono brevi testi che sconvolgono per la compatta densità del dettato. C’è senz’altro unitarietà di intenti ed esiti, in questo centinaio di pagine che si assemblano in una “casa nuova” come ambienti e mobilia, e utensili non solo, ma come abitanti che la vivono, come spiriti che la animano. E se La casa nuova è in qualche modo – come pur sembra di poter scorgere da certi indizi – una grande metafora della poesia, vuol dire che l’autore ha centrato l’esordio e in questa casa potrà starsene tranquillo poiché merita di starci e di ricevere gli ospiti che ne saranno degni.

 ***

Domenico Cipriano, Le note richiamano versi, Abeat Records

La poesia non ha scadenza, per fortuna…  un libro di poesie si può leggere ancora dopo qualche anno dalla sua pubblicazione – così una recensione presentata dopo un po’ an­cora dice a favore di un libro quel che va detto e conviene sapere. Tale premessa è ne­cessaria volendo parlare di una raccolta di poesie par­ticolare come Le note richiamano versi che per di più (oltre ad avere già un po’ di anni) nemmeno è un vero libro, trattan­dosi di una edizione in cd, sia pure fornito di libretto con i testi, e i testi sono poesie (alcune delle quali pubblicate anni prima in un libro vero, ma esaurito: Il conti­nente perso). Suc­cede pure, se invece di limitarsi a leggere i testi si ascolta il disco in quanto tale, con le intense musiche jazz di Ore­fice / Fioravanti / Leveratto, succede che si ascolta e si pensa soltanto alla musica. Ma la poesia di Cipriano potrebbe vivere an­che da sola in un libro di carta, per quanto si av­verta in più punti la sua forte volontà di parte­cipazione alla musica (un ulteriore ele­mento di – peraltro positiva – am­biguità è la voce di Enzo Marangelo, il quale a volte legge, a volte interpreta i testi facen­done un po’ una cosa anche sua). Domenico Cipriano scrive “le note richia­mano versi” e forse vorrebbe dire il contra­rio, essendo egli l’autore delle parole e non delle note, ma può darsi che voglia dire un’altra cosa, che abbia scritto le sue parole ascol­tando una musica interiore che gliele ha sug­gerite. In ogni caso, qui la stretta intesa fra musica e poesia è evidente e convin­cente. D’altronde, spesso nei testi si allude o si fa esplicito riferimento ai termini del jazz, agli strumenti musicali, a be-bop, a cool, al piano e al contrabbasso. La silloge poetica è dunque impossibile da scindere dall’accompagna­mento musicale; il disco è tale e come tale dev’essere fruito: il libretto accluso è funzio­nale (forse indispensabile?) all’ascolto più che destinato alla semplice lettura. “Ribaltate le luci ecco la storia […] è vero Pagliarani?” L’omaggio al maestro, a quel maestro, è infine significativo, sentito e forse anche dovuto, a chiarimento di un progetto compiuto. Se la voce del poeta è quella di un “doppio equili­brista: comparsa e protagoni­sta”, vuol dire in effetti che in questa prova letteraria pensata insieme alla sua componente musicale c’è la doppiezza creativa di un poeta all’ascolto, non della propria voce interiore soltanto, ma di quella armoniosa del mondo, con le sue luci e le necessarie protettive om­bre in cui attendere: “ancora un passaggio e si giunge a destina­zione”. Lettura ciclica, infine, poiché si pone come base e insieme esito di un ascolto – un libro (insolito composito pro­vocatorio) come questo di Domenico Cipriano ha bisogno delle note per essere tale.

 ***

Sergio Corbino, Le follie del menestrello Bernardo, Poseidon Editore

Sotto sotto qui c’è qualcosa che vive e trapela nel tessuto narrativo, e vuol dire non solo quel che appare e si legge in superficie. Almeno in parte, qui si allude a vicende e situazioni (per non dire a persone) reali, vissute forse dallo stesso autore, o sognate in qualche sua vita parallela; almeno in parte, questo racconto di formazione risente di una volontà pedagogica, non è solo divertimento – di tanto in tanto, qui, si riflette e si invita a farlo, in punta di penna, senza dichiararlo, ma si avverte l’intenzione. Cominciamo dalla dedica – ma si potrebbe addirittura cominciare dalla copertina, da quel menestrello che sta sopra la principessa a farci sognare di mondi lontani, di fiaba quasi, di “c’era una volta” o almeno di “tanto tempo fa”, e invece… ecco la dedica (di bruciante attualità) “ai bambini oggetto di violenze”, ma in tutta la storia, anche se c’è un triste, significativo episodio di tratta dei bambini, costoro poi non sono presenti in modo evidente. L’autore ha voluto nascondere dietro le fantasiose avventure dei suoi personaggi una implicita chiave di lettura del nostro presente? Così pure l’ambientazione nella “amena vallata” tra il Garda e il Brennero vuole probabilmente allontanare l’attenzione del lettore dal meridione che all’autore sarebbe più congeniale (ma tutto il mondo è paese, anche allora, e credibili risultano quei personaggi, in quell’ambiente come se fossero nostri conterranei – i loro difetti sono i nostri, di allora e di sempre). Follie, dice il titolo del libro ma paiono tutt’altro le imprese del giovincello, che sembra molto attento a valutare le sue imprese, ne comprende i fini, pianificandole o almeno cercando di gestirle al meglio. Il termine follie è dunque usato in modo ambiguo, o provocatorio: significa piuttosto folleggiare, fare il folletto (sporadicamente, in realtà, Bernardo fa il finto tonto o gioca la parte dello strampalato, ma è solo per legittima difesa). Il razionalismo del Settecento fa capolino malgrado sia difficile calarsi attraverso il libro in una precisa epoca storica. A volte, si penserebbe a qualche secolo prima, per quanto possa importare – in una favola! – la precisione della collocazione cronologica. Siamo anzi fuori del tempo, anche se ci sono date precise che aiutano a situare la vicenda nella seconda metà del Settecento (si direbbe nella prima parte della seconda metà), con qualche incongruenza forse casuale o voluta per dare un rilievo particolare alle azioni e ai personaggi stessi… Un pizzico di sociologia anima qua e là l’interesse del lettore più esigente: i soprusi dei signori, e il Magistrato ingiusto e corrotto; i rapporti fra le genti e le piccole corti dell’entroterra, lontane anni luce dalla capitale (Venezia?); gli affetti familiari che dominano e spingono a nobili imprese anche quando la legge del più forte imporrebbe maggior cautela nei comportamenti; il galateo e i riti di palazzo; gli artigiani e gli albori del “progresso tecnico” – le armi, la musica… Tutto però avviene e si svolge in penombra (e in effetti sono pochi i passaggi in piena luce), come tutto fosse all’interno a lume di candele, tutto come avvolto da una cappa innaturale, un velo di fatalità che smorza i toni quando stanno per esaltarsi. Raramente si alza la voce; qui tutto avviene, nel bene e nel male, poiché è così che deve andare – tutto procede in un senso che è il suo, inevitabile come la morte è il passo successivo, avvenente come un sortilegio cui non si può sfuggire.

***

[478] Elio Contenti, Gesù. Il profeta e la storia, Emmegi

 

La coraggiosa impresa di Elio Contenti si può considerare tra le pietre miliari degli studi cristologici degli ultimi anni: testimonianza di attenzione al sacro ma con gli occhi del comune sentire, di una passione generosa e fuori dalle scuole, questo suo Gesù. Il profeta e la storia costringerà parecchi a riprendere i libri in mano. Non solo quelli più noti ma pure i testi dedicati alle religioni del vicino Oriente, e alla storia dei Romani in Palestina. In questa rigorosa ricostruzione storica e letteraria (non solo i vangeli canonici, è ovvio, ma gli apocrifi e altri scritti del suo tempo), Gesù si staglia nella sua umanità a tutto tondo, o quasi: mancano comunque notizie su alcuni anni della tarda giovinezza, anche se Contenti ipotizza un lungo viaggio in Persia, sulle orme dei magi, i sacerdoti del mazdeismo – religione dalla quale Gesù sembrerebbe profondamente ispirato nel concepire la sua rivoluzione contro la tradizione dell’ebraismo. Rischiando peraltro di farsi proclamare re dal suo popolo esasperato e in attesa del messia, e dando così il destro ai poteri forti dell’epoca per farlo fuori più o meno legalmente. Forse più per calcolo, politico, che “per viltà” (come sembra sostenere Dante), Pilato finisce per passare alla storia come inconsapevole sponsor del messianesimo di Gesù. È lui che – condannandolo a morte contro le stesse abitudini dei Romani, per non farsi nemici in terra di forti contrasti – consegna l’agitatore di folle osannato come profeta eccezionale al destino di “figlio di Dio”. Contenti pare anche lui sentire in qualche modo il fascino della figura inquietante di un uomo certo fuori dal comune, autore di “miracoli” e predicatore di bontà, involontario fondatore di una religione che regge da due millenni (anche nelle sue contraddizioni rispetto al messaggio originale). Molto spazio in questo suo libro (e il sottotitolo è illuminante: “Cronache dalla Palestina dalla profezia di Zarathustra al dubbio di Giuda Iscariota”) è dedicato all’analisi di personaggi che non sono certo di contorno: Giuda soprattutto, e i sacerdoti e Pilato, con Erode a palleggiarsi la sorte di uno scomodo ribelle. Pur professandosi ateo – ma appassionato lettore di testi sacri – l’autore di Gesù. Il profeta e la storia non riesce a parlare del Messia semplicemente come personaggio storico, vissuto e documentato nelle sue azioni nella Galilea del primo secolo. La suggestione rimane: chi era e come ha fatto e perché ha fatto quello che – pur filtrando vangeli e altri scritti – rimane un itinerario straordinario? Ma anche solo proporre l’interrogativo e cercare lucidamente proposte di interpretazioni è un compito degno di rispetto. Contenti lo fa conscio dell’ardire, pronto a mettersi in discussione, senza alcuna concessione retorica [2019].

Campolo – Capanna – Capasso – Cappi – Carbone – Carelli – Cerro – Cervo – Coccoluto – Cominale – Coreno – Cremona

Campolo

Giuseppe Campolo, Annuvolata, Edizioni Eva

Romanzo di formazione? Ammesso che un libro come Annuvolata possa essere tranquillamente classificato in un (solo) genere! È piuttosto uno straordinario romanzo di formazione che sembra formarsi esso stesso fra mille contraddizioni, all’inseguimento di un protagonista anomalo: una specie di Candido che attraversa la vita senza sporcarsi pure a contatto con le più squallide e comunque provocanti situazioni, tra personaggi ambigui, o ancor meno reali di lui. Oddio! La storia del coso amputato che poi ricresce… fa un po’ senso! Comunque, prima – e anche dopo – questo terribile accidente, il giovinotto ne passa di belle e di buone, sfarfalleggiando qua e là con degnazione, quasi compisse il dovere di rendere felice il prossimo… È da leggere, questo libro, se non altro per dare soddisfazione e insieme scacco all’autore che dice di non sapere “a che farne”, se scrive, eppure confessa che gli è presa “la voglia irresistibile di menar la scrittura” (e il suo alter ego, il protagonista di Annuvolata, ha scritto a dieci anni “un poema in quartine endecasillabiche a rime baciate”)… forse inseguendo “la chimera dell’interlocutore ideale”. Lo fa, quindi, e dice di non volerlo fare, come un po’ avviene in tutto il libro al suo stesso protagonista, spesso tale solo casualmente, di episodi ai quali nemmeno presta molta attenzione, subito preso com’è da nuove ricerche esistenziali, da incontri e non di rado scontri. “Mi chiedevo davvero: ma infine chi sono io?” E subito dopo – anche se passiamo dalla fine della prima all’inizio della seconda parte del libro: “Forse sono un profeta”… Probabilmente ci vorrebbe un buon psicanalista, come capitò a Svevo e al suo Zeno; invece Campolo vorrebbe “psicanalizzare Dio”! (potrebbe anche essere un modo per capire come mai il mondo va tanto a rovescio)… Estremo sberleffo alla creatività dell’artista e all’ordine costituito del mondo? Ma questa Annuvolata (il significato del titolo è chiaro solo all’ultimo) sa, neppure tanto nascostamente, di un grande apologo sulla purezza, un viaggio iniziatico di quelli che una volta si imponevano a chi si affacciava alla maturità e finivano per essere un banco di prova impari alle forze di qualcuno, che poi ne avrebbe serbato indelebile il ricordo fallimentare.

***

Mario Capanna, Il Sessantotto al futuro, Garzanti

Uno che invece davvero “ha fatto il ’68”, fino a diventarne quasi un simbolo e rimanendo un simbolo anche quando – per così dire – si è ritirato a vita privata, è Mario Capanna. Aveva già dedicato altri due libri alla rievocazione di quell’anno, e di come se ne è sviluppata l’ideologia connessa: il primo a venti anni di distanza, Formidabili quegli anni (recentemente ristampato); il secondo dieci anni dopo: Lettera a mio figlio sul Sessantotto. Ora “viene a comporsi la trilogia”, scrive, per sistemare organicamente il suo pensiero da protagonista e poi da osservatore e infine da storico. Il Sessantotto al futuro è in verità un titolo apotropaico: significa forse che quell’anno formidabile vada proiettato ancora oltre questo nostro presente? E Capanna vede nella cifra stessa che lo indica una funzione catartica, poiché all’inverso si legge una cifra altrettanto emblematica, quella dell’89 che pure ha segnato un’epoca e in qualche modo ancora la segna. “Togliemmo il mantello al re”, scrive Capanna, per dimostrare che era nudo… Ma il re se lo riprese subito, ci furono gli anni del riflusso e, peggio, del terrorismo di vario colore. “Il Sessantotto non ha ucciso nessuno”, sì, è vero, ma ha fatto violenza alla logica e non sempre la logica è disposta a farsi violentare. Ironia della sorte, il bersaglio di allora, lo sviluppo, il progresso, sono ormai in crisi, e non per merito del ’68. L’involuzione dei nostri giorni dev’essere frutto di ben altre congiunture globali che i formidabili figli dei fiori nemmeno immaginavano, pur volendo portare al potere la loro immaginazione.

***

Anna Maria Capasso, Gioca con me, Caramanica

 Capasso g

La matura consapevolezza che il gioco della vita – e quello ancora più crudele della poesia che cerca di rappresentarla – ha regole dure e difficili da reggere; la serena disponibilità a giocare comunque, nella vita e con la poesia, comunque sia, comunque vada, chiunque vinca, chiunque sia destinato a vincere – sono queste le due costanti della poesia di Anna Maria Capasso. Il poeta lo sa “che gioca con la vita e le parole”… L’autrice di Gioca con me sa pure che il tempo non gioca a suo favore, avendo appreso e avendo cominciato piuttosto tardi a praticare quelle regole dure e difficili. Ed ha voglia di raccontare, di scrivere, di fare il suo gioco – sa che “ogni vissuto è scritto”; e quel che sfugge alla scrittura può anche andare “al diavolo”: non valeva la pena! (perciò le interessano pure i “santi che non fanno miracoli”, come una vita sospesa “tra carità e mondezza” – e andrebbe citata intera “Morte di un cane” per la sua forte carica di realismo lirico; e così c’è un’anima “che ruggisce inferocita”, forse perché “nata per vanità di un fattore distratto”, ma infine sa che “oltre la scorza c’è il seme buono”… perché “ogni cosa ha un doppio senso”). D’altra parte, se “il senso della vita” si fa poesia, ecco che questa è “un pezzo di coscienza da recitare in pubblico” (dove è fondamentale appunto il rapporto col pubblico, chiamato a confrontarsi, a giudicare, anche – altrimenti non ha senso quel messaggio che nasce dal privato e si trasmette fuori di sé). Potrebbe essere un’altra epigrafe, come pure “vivo virtualmente le passioni della mente” (trascrizione personale del famoso augurio leopardiano: “io nel pensier mi fingo”). E si potrebbe continuare: d’altronde, è lei che apre il gioco e deve aspettarsi giocatori adeguati, capaci magari anche di batterla sul suo terreno. Capita, non è un’onta, anzi significa che il gioco è impostato bene e le regole sono chiare per tutti. Allora… Pronti? Diamo le carte e cominciamo! Si gioca con la poesia di Anna Maria…

***

Anna Maria Capasso, Tenera madre, Caramanica

In un libro d’esordio che contiene un corposo numero di testi (qui – in questo Tenera madre di Anna Maria Capasso – sono una settantina) è facile trovare pecche (a voler fare il critico schizzinoso); altrettanto facile, però, è trovare perle poetiche: in un libro d’esordio, specie se maturo (l’esordio, ma di conseguenza dev’esserlo il libro stesso) appaiono sedimentate esperienze diverse, necessariamente sofferte e risolte, che hanno prodotto parole e hanno chiesto di essere comunicate, partecipate. Ed ecco i testi migliori del libro, quelli che testimoniano una convinta adesione alla vita (ai sentimenti, alla natura) e una profonda disposizione a darsi, in forma di parola. Anna Maria Capasso si offre, davvero con tenerezza di madre, a ripercorrere momenti di vita – e speranze e sogni e illusioni e delusioni – facendone dono e mettendosi a nudo senza infingimenti, anzi, con molta onestà. Un po’ di coraggio in più, avrebbe forse permesso miglior compattezza al libro, ma a sessant’anni ci si può anche consentire il lusso di affacciarsi alla finestra della vita e sciorinare in pubblico il meglio e il peggio di sé, proprio perché già in sé è avvenuto il filtro e comunque il passaggio dalla vita alla pagina ha consentito di stemperare le asprezze e moderare le gioie. Ci sono pagine che da sole valgono il libro: “Il tramonto dei vinti”, “Per grazia di Maria”, “Ispirazione fugace” – la riflessione sull’esistenza, l’adesione alla fede, la natura di poeta; sono momenti di sicura intensità e di sicura presa emotiva. Anna Maria osa immagini ardite in alternanza a soffuse descrizioni di paesaggi, ma a volte – come in “Napoli”, “Al primo sole si muore”, “Attesa” –, l’ambiente, il paesaggio-stato d’animo, si fanno specchio in cui lo stesso lettore accorto possa guardarsi e trovare il momento di un suo stato d’animo, la memoria di un suo paesaggio. Come ci si trova nella varia tematica lirica e riflessiva che Anna Maria tocca in punta di penna, quasi sempre con lieve grazia, di rado affondando nella cattiveria che pure certe vicende potrebbero averle procurato. “La crocefissione”, “Serenità”, “Napoli”, “Distacco”, “Incontri”: la serie iniziale dei titoli è un continuo gioco di incastri e contrasti, un altro segno di approccio non casuale all’arte poetica. All’inizio e alla fine del libro, quasi a chiuderlo circolarmente, l’espressione che gli dà il titolo: “tenera madre” in “La crocefissione” e, leggermente variata, in “Vocazione materna”. Si può leggere molto nella metafora della “tenera madre”: è lei stessa, Anna Maria, nei suoi manifesti affetti umani; è la terra, la natura e forse la poesia, vera madre capace di ogni tenerezza se il figlio le si abbandona fiducioso… Quello del tempo che passa è uno dei motivi chiave di questa raccolta. Il coraggio dell’età sembra addirittura diventare un’ossessione (ma è un dolce ossimoro, indice di serenità) nei dichiaratissimi “sessanta”, che appunto segnano la soglia di una matura consapevolezza, non come un traguardo, piuttosto un rilancio di esistenza a nuovi (e ancor più coraggiosi) impegni di umanità: la poesia è il primo passo! Il rapporto del poeta con la sua poesia, il passare del tempo, lo scorrere dell’età anagrafica nel più vasto passare delle stagioni, sono le trame in cui si articola la silloge di Tenera madre – con una notevole e in qualche passaggio addirittura sorprendente coscienza artistica e con leggera autoironia, non priva di una punta di amarezza. L’autrice, che non ha mai perduto “interesse per gli studi umanistici e lo scrivere” (pure svolgendo ben altro tipo di attività, come si legge in copertina), mostra competenze che senz’altro le permetteranno nuove più convincenti prove letterarie, se vorrà proseguire l’arduo cammino.

 cci08092016

***

Anna Maria Capasso, Controvento, Caramanica

Sembra subito retorico, perfino banale, parlare del cuore di un poeta e vederlo (poeticamente) “messo a nudo”: è stato detto una volta e certe espressioni non dovrebbero essere ripetute, pena – appunto – la retorica della banalità. Ma Anna Maria qui davvero lo fa e lo dice, lo dice e spera di essere creduta, per lo meno compresa… da un lettore che vorrebbe forse definire (per restare in ambito bodleriano) “mio simile”, in grado pertanto di leggere e vedere dentro la sua poesia il cuore straziato offerto alla salvifica carezza dell’amico. Poiché ha bisogno di amici, la poesia di Annamaria Capasso, non di lettori occasionali; ha bisogno di anime inquiete che siano disposte a scoprirsi – scoprirsi, anch’esse – messe a nudo davanti allo specchio. Controvento nasce da un lavoro di anni, dalla pratica paziente della scrittura, da fogli nel cassetto e memorie nel computer: è il frutto di un complesso periodo esistenziale, nel corso del quale l’autrice ha scritto e pubblicato, ha frequentato gli ambienti letterari giusti e ne ha tratto esperienze. In questo libro si avverte, rispetto alle prove precedenti, una più accorta manipolazione della materia lirica, un approccio più deciso e convincente alle forme. La cifra caratteristica è l’essenzialità, in certi casi la rarefazione: nel verso poche parole, e pochi versi dicono quel che va detto. Si cresce – parrebbe davvero il caso di parafrasare il suo titolo – anche “controvento”, faticando cioè per mantenere la strada, spingendo contro le avversità e procedendo comunque in spregio alle regole, quelle troppo anguste, quelle che non fanno fare un passo se non appoggiandosi agli appositi sostegni. Anna Maria Capasso non insegue insomma un traguardo, ma ci arriva perché – tanta l’animosa forza che la spinge e la guida – è lì che deve giungere: al suo cuore messo a nudo. Controvento, d’altronde, è inevitabile: cammina cammina, arranca arranca, soffri soffri e ti trovi spogliato degli abiti che avevi, privato di ogni difesa ed esposto ormai non solo alle intemperie – all’ironico giudizio di chi guarda e non comprende il perché dei tuoi sforzi, anzi aggiunge al danno lo scherno supponente della sua norma. E allora ha ragione Annamaria a mettersi “controvento”, a farsi scompigliare i vestiti nella sua marcia decisa, a fregarsene di chi le si mette di traverso, del vento stesso – che poi siamo tutti noi quando non vogliamo concedere al poeta semplicemente la sua onestà intellettuale, la sua determinazione a guardarsi intorno come guardando dentro di sé.  “Non invecchia il poeta” (scrive Annamaria) – il poeta lo sa, ed è una pena, poiché vorrebbe riposare, a un certo punto, tirarsi da parte. Ma sa pure che la sua maschera deve continuare a fare la sua parte in commedia fino allo stremo, fin quando almeno il gioco dell’esistenza gli consentirà un ruolo. E ’a maschera chiù bella è chella naturale: senza bisogno ’e carta, senza bisogno ’e culure… Perfino quando recita, il poeta sa che il suo lettore, il suo “simile”, vuole vederlo a nudo, con la sua faccia, sulla quale leggere le emozioni dal vivo, senza trucchi, infingimenti, inganni. La sua faccia, il suo cuore: la poesia è linguaggio di sentimenti costruito perché altri sentimenti vi si possano specchiare, ritrovarsi, riconoscersi. “Verrà sera”… certo, verrà, quando sarà il momento, ma saremo in buona compagnia [2018].

***

Al­berto Cappi, In atto di poesia, L’assedio della poesia

“L’incontro fra psicologia e linguaggio è stato sempre come il substrato di ogni sua espe­rienza poetica, dentro una lin­gua reinventata all’uopo per la lapida­rietà del verso folgo­rante, che procede per squarci imme­diati e subito avanza alla sco­perta di nuovi orizzonti”. Così qualche anno fa si presentava Antonio Spagnuolo nell’Autodiziona­rio degli scrittori ita­liani: non quindi una comune dichiarazione di fede nei con­fronti della poe­sia ma slancio della mente, in nome del quale conserva un senso il la­voro dello scri­vere. Per questo la sua casa editrice – pub­blica libri fuori commercio, per gli amanti della parola – si chiama L’Assedio della poesia (genitivo oggettivo o sogget­tivo? Conoscendolo, viene da optare per una poesia che ci stringa d’assedio, costringendoci a venire a patti con l’intelligenza); per questo il logo è l’alfa, simbolo dell’origine del linguaggio e in­sieme della vita; per questo l’ultimo libro edito è In atto di poesia, una antologia che fa il punto sull’ impegno di cinque poeti accomu­nati dalla scommessa sul linguaggio. Insieme a Spagnuolo, sono altri due napole­tani, Franco Cavallo e Ciro Vitiello, con Mario Lunetta e Leonardo Mancino, ognuno presentato da un cri­tico (rispettivamente Munaro, Loddi, Nazzaro, Lanuzza, Tesio). Cu­ratore del volume è un poeta – e cri­tico: Al­berto Cappi

***

Claudio Carbone, ‘O laureat, Gaeta

Sorridere di se stessi è un dono riservato a pochi, e sempre più raro. Troppo più facile, in verità, ridere di chiunque non voglia es­sere come noi, di chiunque ‘diverso’ non voglia seguire il gregge. Abba­stanza rari fino a non molto tempo fa, i laureati co­stituiscono oggi un vero gregge, nel quale si fa sempre più difficile scorgere – am­messo che vi siano ancora – i ‘capi’. “Come le pecorelle…” di dantesca memoria (“e ciò che fa la prima, e l’altre fan­no”), il conformismo degli intellet­tuali pare un’om­bra vischiosa che ottenebra ed av­vol­ge, im­pedendo di mettere a frutto – paradossalmente – proprio quell’intelletto che la laurea dovrebbe aver qualificato in sommo grado. Una volta, poeta laurea­to era chi avesse chia­ramente meritato, e degnamente conservato, la fama che il suo titolo gli ri­conosceva. Oggi – e lasciamo stare i poeti, per carità di patria (o di gregge!) – i laureati più che la fama cercano di affermare la propria ‘fame’, insaziabile, quasi a dover com­pensare atavici digiuni ingiustamente pa­titi. Se questa premessa  al libro di Claudio Carbone sembra un po’ troppo amara, è segno che – non avendolo ancora letto, o non aven­dolo ben compreso – lo si vuole scambiare per un goliardico pamph­let da festa della matricola d’antàn, di quando al­meno una volta l’anno era lecito scherzare e scherzarsi addosso. Claudio, in­vece, ha colto, con garbo e spirito pungenti – sia pur non privi di qualche (mai vol­gare) licen­zio­sità -, il lato umoristico del perso­naggio laureato,  e l’ha colto con ironia o sarcasmo; trasformando inoltre cia­scuno dei suoi personaggi (la galleria dei suoi amici lau­reati) in ‘carattere’: ciò che ciascuno fa deve quasi farlo per forza, perché così vuole il ruolo che si è scelto e cucito ad­dosso, per essere nel mondo quel che il teatro del mondo chiede ad ogni recita, e non si può rinunciare, pena l’uscita dal mondo. Ecco l’amarezza che nasce dal sorriso, dalla capacità – non co­mune – di sorri­dere di se stessi, che Claudio mostra di avere. A parte la composizione autocelebrativa (“u scem’ ‘e comitiva… cu chella capa ch’è ‘na iurnata ‘e sole…”), an­che gli altri ritratti hanno un che di per­sonale, perché in ogni ‘figura’ di laureato l’autore legge un po’ se stesso, pro­prio perché laureato, con i suoi tic, le fissazioni, le il­lusioni man­cate, le voglie irrisolte, lo sconforto di aver tanto la­vo­rato e “la laurea ogg è passat’e mod… ma la giuvnezz’ormai n’ torn arret…”. Tra le considerazioni più o meno intrise di saggezza popo­lare, e “coraggio”, in genere attribuite ad un “emble­matico perso­naggio (chigl), sempre presente” a fare da grillo parlante, ce ne sono al­cune che fanno riflettere per la loro sentenziosità per nulla allegra: “Gliù scuorn, ha itt chigl, ogg n’ cià us… è begl avé la scritta da dut­tor, ma pure la fortun tè nu prezz… e allora sient a me: la vita è amar…”; per cui – sarebbe auspi­ca­bile – “’o frutt n’adda scì rind a na serra, e l’omm adda fa men ‘o laureat”. L’immediatezza del dialetto non tragga in inganno: il di­scorso è serio, meditato, profondo: Mò cummenz ‘a lotta e la fatie, / mò s ver l’omm e ‘a vera forz, / prim’e suspirà ‘lassa fa a Die!’ / la sangh s’adda ittà assiem ‘a scorz.[ 1987]

 ***

Claudio Carbone, En el lugar de las rosas, Amargord

Ci aveva lasciati piuttosto perplessi, Claudio Carbone, nel suo ultimo libro, Sagome e specchi... C’erano tre “segni”: aria, acqua, terra e – il fuoco dov’era? Ed ecco che ci propone una nuova intensa silloge che potrebbe avere come titolo proprio “il fuoco”! Aveva dunque lasciato fuori da quel libro una intera sezione per farne un libro a parte? Forse, o forse no… comunque adesso quella sezione mancante esiste, quel fuoco c’è e ci brucia di poesia. Ed è anche un fuego, questo libro essendo stato pubblicato a Madrid, e direttamente in edizione spagnola con testo a fronte (con l’attenta traduzione del poeta Carlos Vitale). La compattezza della breve raccolta è impressionante: sembra scritta di getto come fosse un unico canto d’amore in ventuno frammenti. Eleganza e stravaganza sono i caratteri di questa nuova proposta poetica di un autore – ed è spesso chiaramente percepibile – che ormai, al quinto libro, si sente autorizzato a rischiare (ma sa bene che la forma non va stravolta e il lessico, per quanto ardito, non va forzato oltre il buon senso). Vi sono pochi cedimenti visibili che pure sembrano anch’essi necessari nel loro essere più deboli pedine sulla scacchiera dei sensi e sentimenti che Carbone squaderna sulla tavolozza. La sua natura di pittore è sempre evidente, in certe espressioni, in certe scelte cromatiche, nell’uso stesso della parola. Al posto delle rose, è la sua donna che campeggia nel giardino della vita (sa di antico paragonare la donna alla rosa, ma la soluzione estetica qui adottata – che giustamente dà il titolo al libro – è una personalissima pennellata di umanità). Non è una dedica esplicita ma è una presenza tanto evidente da meritare questa raccolta poetica: se fosse stata la quarta sezione del libro precedente avrebbe perso indubbiamente il prestigio che le dona il fare libro a sé. Con pieno merito, anche per colei alla quale il libro è dedicato.

***

Claudio Carbone, Ceralacca, deComporre Edizioni

Parco di sé, Claudio Carbone offre di tanto in tanto assaggi del suo lavoro poetico (che si alterna a quello pittorico) per fare il punto e sistemare gli armadi della memoria, e per guardare avanti con rinnovato slancio. Questa nuova raccolta di poesia, dal titolo ammiccante (e dalla riuscitissima presentazione tipografica, nella collana “Poetry” delle Edizioni deComporre), è la sua sesta pubblicazione. Evidente la maturazione – si avvertono i quasi trent’anni di lavoro alle spalle – ma ancora più evidente è la volontà di chiarirsi: Carbone qui si guarda crescere, raccontando squarci della sua esistenza (fin dalla dedica ai genitori, che non ci sono più), in certi scorci narrativi tagliati però come un quadro astratto, nella proposta espressiva sincopata, raramente distesa. La cifra stilistica è in lui sempre più controllata. Il primo testo è già rappresentativo: “Via Milano” – lì c’è la casa dell’infanzia, della famiglia, lì si torna e di lì si comincia ancora.  E così “Viandante” cerca di situare il presente in un “affaccio” di memorie, e via leggendo si incontra l’uomo che è diventato tale perché ha custodito il suo esistere, ha salvato i legami con quel che c’era, senza dissipare “la consapevolezza del miraggio”. Allora ecco perché Ceralacca, quella che forse non si usa più e serviva a chiudere i pacchi preziosi di documenti o lettere importanti: queste poesie, appena venti, costituiscono un lascito, un dono a chi viene, a chi verrà, a chi vorrà farsene ricco insieme a chi lo presenta (come “abbondanza del poco”, dice, con quanta amara consapevolezza e al tempo stesso con ispirata disponibilità umana). “L’odore della ceralacca”, il testo conclusivo, è – necessariamente, si direbbe – dedicato ai genitori ed ai fratelli, come a sigillare con un abbraccio la famiglia e la vita, la poesia e la stessa natura umana. [2017]

***

Rodolfo Carelli, Per compagno il monte, Il Ventaglio

Nel­l’agone che per tanti anni lo ha visto impegnato (a tempo pie­nissimo) al servizio del ‘pubblico’, Carelli de­pu­tato ha saputo la­sciare spazio all’uomo sentimentale, capace di cogliere nel sorriso del prossimo una speranza – e la forza – per continuare a vivere come aveva deciso, in armonia con il creato, in nome di quella su­periore armonia che è la forza – non solo la speranza – di chi crede. Dalla sua formazione classica, peraltro, ha ereditato una in­vi­dia­bile disposizione all’equilibrio, alla misura, al modus ed alla­ ra­tio, per dirla come va detto. Man­tenendosi dunque in bi­lico (ardito ma sapiente esercizio) tra compo­stezza classica e accensione spi­rituale, riesce, variando il tema del battello che cerca un porto in cui rifugiarsi, a toc­care un “arenile di fraterna attesa / dove approdo relitto alla deriva / per ri­partire va­scello d’alto mare” (in “Per questo tuo ostinato amore”). C’è il motivo di Alceo, ma le figure dei Dioscuri protet­tori sono mu­tate nell’ineffa­bile presenza consolatrice del Dio che salva dalla di­sperazione, con il suo Amore. Nella collana Carte d’Europa, diretta dall’ex-europarla­men­tare Franco Compas­so per le edizioni Il Ventaglio, l’antologia che rac­co­glie il meglio delle prime tre pubblicazioni dell’ex-par­la­mentare Carelli ha titolo Per com­pagno il monte,  mentre la nota edito­riale s’intitola “Un poeta e la sua terra”. Non si può infatti non associare subito il libro ed il suo autore alla terra pontina che nel parco del Circeo esalta il suo connu­bio tra l’uomo e l’am­biente: di questa terra ormai è tra le voci più rappre­sen­tative. Pur le­gato al paese natale (in provincia di Benevento), pur conservando uno spi­rito campano-sannita nell’arguzia che in qualche maniera oscilla tra Lucilio e Orazio, è nella terra lacustre ai piedi del Circeo che la poesia di Carelli ha trovato humus  per vi­vere. So­prattutto perché lì si è po­tuto con­ser­vare nella sua fede umana il ‘provinciale’ che non avrebbe saputo adattarsi al­l’os­sessiva frenesia cittadina. Il contrasto città-provincia è infatti uno dei temi por­tanti nella poesia di Rodolfo Carelli, caparbio pendolare per tanti anni pur di non rinunciare alle sue passeggiate e bici­clettate sul lago, sul mare, nei boschi del parco nazionale. Uno dei testi esemplari per comprendere il suo mondo poetico di (fat­to – c’è ancora quella “pen­sosa solitudine” del­l’esor­dio – di attenzione al mondo da cui si cerca di non farsi con­taminare, di riflessione sull’uomo cui si raccomanda il rispetto delle radici) è “Mille altre vite”. Il poeta non è “uno”, è sempre invece tanti dentro di sé: non è possibile e non è oppor­tuno – e nemmeno c’è bisogno di sco­modare Pi­randello – pre­sentare sempre agli altri la stessa faccia. Una poesia è tale, anzi, per quanti più lettori apre una porta, offre una chiave, pone un pro­blema dell’e­sistenza. “Anch’io mille al­tre vite avrei voluto vivere / con mille e mille altre sentirmi in comunione / ma sul punto di di­sperdermi in mille rivoli / mi sentirei esaudito in una manciata / di semi gettati lungo un solco a germogliare… / con mille legami di af­fetto che ti tengono / stretto al tuo ruolo per un improbabile volo / spaziale, il giro sulla giostra do­menicale.” Per un figlio (sia pure adottivo) della terra di Circe è inevi­tabile il confronto (sia pure trasfigurato) con Ulisse, viaggiatore nel tempo e nella coscienza. Il tempo stesso è un motivo ricorrente: “il passato ha recuperi impensati / ti preclude il senso del fu­turo…” (“La città”)  e si fa senti­mento del tempo: “la notte… fonde pas­sato presente fu­turo / nell’ardente rovello del cuore” (“Tutta aderisce”); si fa consa­pevole ma non amaro presentimento:  “a noi si addice / un amore quieto/ … teneri come siamo / vul­nerabili / sotto la scorza / degli anni” (“Querce da sughero”).

  ***

Maria Benedetta Cerro, Allegorie d’inverno

Ci sono varie possibilità per avvicinarsi alla scrittura poetica di un’autrice come M. Benedetta Cerro, non certo nuova alle pubblicazioni anche se – non essendo prolifica come altri suoi colleghi scrittori – più difficile rimane cogliere i nodi nella tela che tesse ormai da un quarto di secolo, con sei libri che hanno comunque avuto significativi riconoscimenti critici. Per comprendere il suo sentimento del tempo (lo sguardo ironico e disincantato – almeno in apparenza, poiché fa trapelare al sua sottile inquietudine), si può leggere un titolo, quello della prima sezione di Allegorie d’inverno: “L’orologio di Dalì” – e lo sappiamo quale idea di tempo liquido rappresenti quell’orologio… Ecco che hanno un senso preciso citazioni come “Con quale indulgenza mi degna / il tempo delle sue briciole d’eterno!” (è un doppio paradosso che il tempo si sbricioli dall’eterno e sia indulgente di tali briciole), “come giorni dentro un calendario…” (dove il salto del/nel tempo è dato da una perdita familiare accettata come viatico per il dopo – che non avrà “dentro il male”), “il tuo orologio guasto segna le ore del nulla” (Dalì sorride o sogghigna: non si può “segnare” il tempo con i nostri orologi): bisogna rassegnarsi a vivere il tempo nella sua provvisoria pastosa perduta (non)essenza. E per comprendere un’altra fondamentale nota espressiva di M. Benedetta, il sentimento della scrittura, ci si deve rifare a “vi parlo in forma di scrittura. Le parole trafitte dal silenzio vanno dentro stanze vuote…” anche se poi “la vita di carta non ne regge il peso”. Scrivere non sempre risolve o riscatta la pena di vivere (pena di buio che veste i giorni): è il peso dello spirito che è “greve”. Ha ragione Carlino: è “un lungo monologo” ma forse non “a bassa voce”. M. Benedetta Cerro è (sempre all’apparenza, forse per abitudine ai rapporti educativi) capace di farsi ascoltare senza alzare la voce – che però è una voce forte, decisa, piena di tenera volontà di fare il bene anche se difficilmente troverà amici al cuore. Alla scrittura si riconosce comunque il valore di apertura/chiusura nei confronti dell’altro, del mondo esterno – la parola è “il cardine e la spranga” della porta e dell’animo (in Regalità della luce). Ecco perché (voglio) “accogliere la parola che trema di eternità”. Il cerchio si chiude: due libri distanti un lustro pieno hanno un tono simile nella disposizione spirituale del poeta, nella sua disponibilità a farsi martire di esempi. La luce chiarisce il tempo, lo fissa, mentre prima forse languiva sul tavolo dell’esperienza. Ora sembra che si possa guardare intorno (e dentro di sé), anche se “ascolto il sogno rompere quieto i margini del dire”: con quali esiti, il poeta si pone a scrivere (“uno che scrive versi … quale giudizio attende”)? Ma “invecchio con gioia” – non tutti possono dirlo, segno che nel tempo non si è perduto il tempo quando era necessario tenerlo, quando se ne poteva fare tesoro e trasformarlo in parola, in “regale” parola, e “luminosa”, affinché altri ne cogliesse almeno un barlume, a rischiararsi il cammino.

 ***

Maria Benedetta Cerro, La soglia e l’incontro, Edizioni Eva

Questa nuova raccolta poetica di Maria Benedetta Cerro è dedicata a Riccardo Scrivano, che è stato docente universitario di chiara fama, genero e in qualche modo erede del grande Walter Binni, amico e corrispondente epistolare di Benedetta, ormai da alcuni decenni. Quale migliore regalo può fare un allievo al suo maestro? L’occasione è il novantesimo compleanno dell’anziano professore, nonché amico – e un dono poetico farà certo piacere a entrambi. Poiché di un certo genere di regali, si sa, gode anche chi lo fa, non solo chi lo riceve. E qui la poetessa mette in gioco le sue carte migliori, per comporre una silloge poliedrica e convincente anche se nata in momenti diversi. Chi la segue e la conosce, chi ha apprezzato i suoi libri, sa bene cosa cercare nella sua poesia e non rimane deluso. La soglia e l’incontro, Benedetta lo dice nella sua nota personale, è un “dialogo che immette in una totalità ignota all’anima stessa” che si dona e incide segni. “Incontro” e “dialogo” è in definitiva la prima dimensione in cui si manifesta la poesia, che si fa parola condivisa dopo una privata sensazione, nell’esigenza avvertita di comunicarla. Questo piccolo libro è articolato in quattro sezioni asimmetriche. La prima, le “Sette poesie manoscritte” inviate da Benedetta all’amico, si chiude con una stupefacente dichiarazione di poetica: “Ora sono io scrittura – ma, aggiunge l’autrice – nel bianco è ciò che voglio dire”. La poesia bisogna che il lettore contribuisca a costruirla, leggendo con attenzione, in modo scaltro e penetrante, scovando sensi e sottosensi nelle parole, fra le parole – Ungaretti pure scrisse qualcosa del genere (a proposito degli spazi bianchi) – Arrivare a definirsi “uno scrivente nulla” è l’esaltazione dell’amore che caratterizza il poeta: è nulla se non viene riempito dalla comprensione del lettore. Probabilmente è anche una chiave di lettura delle Lettere a Lucilio di Seneca. Ed è bello quest’altro gioco, dell’amica che rivolge al maestro (è la seconda sezione del libro) le riflessioni che le hanno suscitato le epistole di un maestro al suo allievo. “È necessario l’andare” ma “l’ora appartiene al tempo”: affannarsi non vale, se non a capire quanto vano sia affannarsi. Anche per questo il poeta cerca sollievo “nella musica del verso” (è il titolo della terza sezione)… musica pure a volte respinta “come una insidiosa seduzione”, mentre si cerca di asciugare la propria espressione lirica, eppure sentita come interiore e in qualche misura necessaria panacea. “Non so se dei sensi la ragione o del pensiero fu la strana passione della lingua”. E in fin dei conti “Così poco l’anima impara nel suo continuo apprendistato”. Ma se è anima di poeta, almeno riesce a scavare sulla carta la voragine nella quale si incidono i segni sofferti dell’andare quotidiano, nella quale si confidano i dolori e le passioni che fanno la vita – è il crescere insieme che accomuna chi scrive e chi legge, e pure chi insegna con amore e chi con amore lo riceve, quell’insegnamento, e ne fa tesoro e a sua volta lo dona affinché altri… Il dialogo è una soglia, sì, ma quanto facile da attraversare, in poesia!

 

Maria Benedetta Cerro, La congiura degli opposti, LietoColle

Che cos’è questo libro di versi (bello, nella preziosa veste delle edizioni LietoColle) che fin dal titolo mira a confonderci? Forse è proprio l’attuazione di una congiura a nostro danno, ordita però non sappiamo da chi, una congiura di opposte ragioni che si scontrano e ci coinvolgono. Eppure, da una simile congiura – è lei stessa che lo dice – il poeta guarisce (come fosse una malattia, dunque, come ci si potesse ammalare di opposizioni). Il che significa probabilmente che possiamo guarire dalla lettura di un libro come questo proprio se saremo capaci di assorbirne la poesia? Il fatto che un libro di poesie faccia nascere tanta perplessità è già indizio di un lavoro riuscito – non certo per coloro che ancora presumono che la buona poesia debba essere comprensibile per essere tale. In questo caso, l’autrice de La congiura degli opposti, Maria Benedetta Cerro, ha voluto o comunque ha cercato (ottenendo il suo obiettivo) di prendere l’attenzione del lettore in un vasto gioco di specchi (e “Lo specchio inaccessibile” è una delle sezioni di questa articolata silloge). La congiura degli opposti richiede pazienza, più che attenzione: non basta leggere e rileggere, bisogna sciogliere enigmi e schivare allusioni che fanno deragliare il senso verso i limiti estremi di un’espressione elegante e sorniona, ricca di riferimenti preziosi, erede di vaste letture assimilate, che poco si cura di chi entra (bellissima l’immagine di copertina: la porta che si schiude invita a visitare un mondo magico: addirittura è Psiche a farci da accompagnatrice). In definitiva, conviene fidarsi e seguire lo svolgersi del libro, nelle sue sezioni, nei suoi capitoli, nelle sue visioni, nella suadente scrittura di un’autrice ormai giunta a livelli di sicura consapevolezza e pertanto in grado di stupirci e commuoverci, come una “funambola”, che in un gioco estenuante rischia di smarrire le regole, eppure sa che “strali sono le parole ed hanno la mia inermità ferito a morte”… Non si può smettere, una volta avviata la ruota, di giocare aspettando il numero buono. Intanto: “Non stringere troppo le ciglia / lascia un piccolo varco / se l’anima volesse un poco uscire”.

 ***

Cervo Mtlb

Aldo Cervo, L’autunno di Montalba, Edizioni Eva

Commovente fino alla commozione! Non è facile tautologia retorica… L’autunno di Montalba di Aldo Cervo è – si potrebbe davvero dire con Svevo – una autobiografia che “non è la mia”, non è di chi l’ha scritta, ma di chi c’è, nel libro, e sono tanti (una autobiografia corale), e infine è “di chi gli serve” (anche questo si potrebbe dire con qualcun altro)… È il libro di una vita che si forma fra tante altre vite e se ne nutre e ne soffre quando se ne vanno – ma sa che è così, non ci si può far niente. Siamo olive macinate dal frantoio inesorabile del tempo! La metafora è d’obbligo, considerato che il “protagonista” vero del racconto è proprio un frantoio, attorno al quale si snodano e si costruiscono esperienze di un paese, immaginario solo nel nome, poiché tutti i riferimenti ambientali e geografici sono precisi – in una  toponomastica riferibile tranquillamente alla Caiazzo dell’autore. Aldo Cervo racconta e scrive, scrive per raccontare e racconta per esercitare la sua voglia di scrivere, pratica encomiabile se porta a simili risultati di così godibile lettura! E quale palestra migliore che quella offerta dal mitico paese che è il suo paese. Figure ed episodi si stagliano nel microcosmo diventando paradigmi, e l’autore si fa portavoce della comunità, anche se dice continuamente la sua, e senza pudore, non ne ha bisogno: la scrittura gli consente di uscirsene in levità di canto, e virare sul versante dell’ironia, se avverte il rischio della caduta stilistica, che non c’è, salvata appunto da una battuta, una riflessione che costringe a sorridere anche il lettore. La vena espressiva di Aldo Cervo cesella figure indimenticabili, abitanti di un paese dell’anima che ci ruba l’anima ed è un peccato che la lettura duri così poco. A meno che non si faccia tesoro di queste pagine, conservandole per riassaporarle quando la malinconia del vivere quotidiano ci impedisce di pensare che – tutto sommato – è meglio trastullarci con un cavallino di cartapesta (regalo dei sogni della nostra infanzia), piuttosto che assoggettarci al fasullo caleidoscopio di immagini che ci sbattono in faccia per farci dimenticare di essere uomini.

 ***

Aldo Cervo Papini. Nel novecento letterario italiano, Edizioni EVA

Tra i libri di casa, quelli di Papini erano ben visibili, massicci anche se piccoli di formato, e con quei titoli strani: che significa “finito”, per esempio, mi chiedevo, riferito a un uomo? come fa un uomo a finire? E quel misterioso Gog, era poi quello che avrei ritrovato in un altrettanto misterioso poemetto pascoliano? Ma soprattutto Il libro nero… Io non sapevo leggere abbastanza da convincermi ad affrontare un volume così grande e senza figure, e però sentivo rispetto per tutto quel che in casa si rispettava, in primis i libri, naturalmente e tra i primi quelli di Papini. Queste memorie mi ha fatto rivivere Aldo Cervo quando mi ha regalato il suo Papini, portandomi anche a chiedere perché uno ancora decida di dedicare il suo tempo ad uno scrittore come lui, al di là della celebrazione del mezzo secolo dalla morte. Lo scrittore caiatino del resto dichiara per Papini una antica consuetudine universitaria, mai rinnegata ed anzi coltivata con convinzione e solidarietà non soltanto critica. Nu vas’ ’a pizzichill’… così ti prende un piccolo ma succoso lavoro critico di Cervo: pare appena un buffetto amichevole e si rivela un pugno deciso che costringe a riflettere. La sua devozione al toscanaccio terribile (che dopo gli inizi di “compiaciuta spavalderia” antifilosofica diventò apostolo di retorica italianità e poi di una sofferta ritrovata fede) si sviluppa in una rapida ma esauriente analisi dell’opera complessa del poligrafo che più di altri seppe dire la sua verità fuori dal coro. Antipatico e scomodo per questo, non meno importante, però, di chi rimase nel coro. Anche la prefazione di Cerilli arricchisce questo volumetto importante, in realtà un piccolo saggio, più che una prefazione dovuta come direttore di collana – segno anche di un profondo rispetto per l’autore del libro e insieme per lo scrittore di cui nel libro si parla. A volte una goccia scava, si dice, e un piccolo contributo critico può scavare nella memoria arrugginita delle patrie lettere per rendere un po’ di giustizia tardiva a qualche nome troppo facilmente archiviato tra i sorpassati (cioè a dire inutili). Il lavoro di Cervo, pubblicato per di più da una piccola casa editrice, forse non salirà agli onori della critica accademica, ma ha una sua innegabile dignità e pertanto va considerato nel novero dei libri da consultare e da tenere presenti per gli studi futuri su Papini.

***

Salvatore Coccoluto, Pino Daniele, Imprimatur

Salvatore Coccoluto si interessa di spettacolo, e in particolare di musica (leggera se vogliamo) almeno da una decina d’anni. Ha pubblicato nel 2008 il suo primo libro dedicato alla radio di Renzo Arbore. Poi, tra gli altri, si è interessato di Califano e Mia Martini. Gli piace un certo versante della produzione musicale, e lo dimostra ancora con l’ultimo lavoro uscito con etichetta Imprimatur: Pino Daniele. Un lavoro di partecipe umanità e di attenta analisi discografica. Attraverso i dischi, quindi – e come altro si potrebbe raccontare la vita di un cantante? Che poi è stato ben altro che un semplice cantante (cantautore e sia pure napoletano – che già significa pure attore e forse ancora qualcosa di più): Pino Daniele ha segnato la scena della musica leggera italiana per alcuni decenni. L’ha segnata con la sua presenza umanissima e colta, la professionalità di musicista e quell’umana cultura partenopea che fa di Napoli, da sempre, un centro nevralgico dell’idea stessa di canzone. Tutto questo nel libro di Salvatore Coccoluto c’è, poiché l’autore – non più giovanissimo – di questa biografia (che – recita il sottotitolo – è “una storia di blues, libertà e sentimento”) ce l’ha egli stesso nel sangue un’aria partenopea. Da appassionato, ma ormai a buon diritto potrebbe fare il critico nel settore. In questo suo libro corposo e motivato, anche sul piano bibliografico, Coccoluto accompagna il viaggio esistenziale e artistico di Pino Daniele dagli albori alle ultime produzioni e alla promessa rimasta incompiuta. La sua ricerca sul campo – seriamente condotta con l’aiuto dei collaboratori storici del cantante napoletano (Raffaele Cascone, ad esempio) – è completata da una serie di interviste con alcuni dei compagni di strada di Pino Daniele: in primis James Senese, e Rino Zurzolo, Joe Amoruso e altri. Un ricordo affettuoso è quello di  Massimo Troisi(“Io ho fatto tutti i film per le musiche di Pino Daniele”), l’amico prematuramente perduto, vittima dello stesso problema al cuore che affliggeva il cantante. È un documento imperdibile, questo libro, per tutti i fedelissimi non solo, ma per chiunque voglia cominciare a capire quanto il fenomeno “Naples power” sia stato fecondo sul piano musicale e soprattutto anche socialmente importante. Dichiaratamente di sinistra (“mi definirei un socialista che non guarda più ai partiti ma alle persone” – diceva) Pino Daniele difese coraggiosamente la sua libertà di parola, non semplicemente come artista (“I’ so pazzo”) ma come persona. [2016]

***

Pasquale Cominale, La pesa del cuore (poesie 1970-2012), ilmiolibro.it

Anniversari importanti quasi impongono un momento di riflessione – insieme alla gioia di poterli festeggiare. Pasquale Cominale sta per compiere 60 anni, e intanto celebra i 40 dalla prima pubblicazione di poesie. Lo fa raccogliendo in volume tutta la sua produzione poetica, opportunamente rivista e sistemata. Dato il genere di pubblicazione dichiaratamente (auto) celebrativa, conviene dar conto dell’intero contenuto di questo libro, che fin dal titolo fa i conti con il privato e lo mette sulla bilancia dell’attenzione pubblica. La pesa del cuore (poesie 1970-2012, recita il sottotitolo) intende proporsi come summa di un lavoro nel campo della poesia che si è finora sviluppato attraverso piccole (e rare) pubblicazioni accompagnate da una sommersa ma continua attività occasionale (solo in parte edita). Pasquale Cominale ripresenta dunque, “con alcuni ritocchi”, Cristalli, Il ritorno, Fuochi di marzo, Un filo di parole, i suoi libri, insieme ad una vasta scelta di inediti, con l’augurio “che bastino” (dice l’autore stesso che ha curato il ponderoso volume) a soddisfare un benevolo lettore. Ma sessant’anni non sono ancora il momento del redde rationem, per quanto lecito sia il rendiconto provvisorio che mette ordine fra le “nugae di più di quarant’anni”… Che poi nugae non sono, poiché anzi i testi di Pasquale Cominale hanno spesso misure insolite, da poemetto o polittico. La compattezza del volume unico (impreziosito per l’occasione anche da una ricca selezione di fotografie) consente di condividere con il poeta la soddisfazione per questa sua “testimonianza”: il prodotto letterario di una lunga fedeltà alla parola scritta qui trova spazio e giustificazione. Chi conosceva l’autore ha modo di ripercorrere, depurata, la strada compiuta e posseduta, ormai, da esperto conoscitore dei mezzi adoperati. Chi non ha avuto modo di frequentarlo, scopre d’un tratto la sua convincente parabola creativa, proprio perché La pesa del cuore permette di pesare tutta insieme la mole (agile, elegante) del fare poetico di un autore che della misura ha fatto il suo credo.

Cominale

Pasquale Cominale, Innamerica, Loffredo  

Ricordo, da ragazzino, che si rideva degli strafalcioni linguistici e grammaticali che trovavamo nelle lettere dei parenti dall’America: ne avevamo in Canada e negli Stati Uniti. Chissà che fine hanno fatto le numerose che misi da parte, proprio per farne – quando avessi avuto tempo, voglia e capacità – un lavoro di analisi sociologica… Per una qualche legge del contrappasso, viene quasi da piangere adesso leggendo quelle raccolte da Pasquale Cominale nel suo rigoroso e commosso Innamerica (le lettere degli emigrati di Sessa Aurunca ai loro familiari 1917-1941). L’opera di Cominale ha il pregio del linguista (per la cura delle ricerche lessicali, la fitta trama dei rimandi filologici) ma più ancora si apprezza per il suo fine sociologico. Inevitabile infatti la riflessione che scaturisce dalla lettura di questo libro: perché non riusciamo a comprendere e accettare l’immigrato fra noi, noi che tanto a lungo abbiamo vissuto il dramma dell’emigrazione in tutti i suoi risvolti, economici non solo, sociali, finanche politici? “Innamerica”, come scrivevano sgrammaticando i nostri nonni emigrati, non si stava poi tanto bene come si era sperato, si soffriva molto la malinconia dell’abbandono, ma la forza di volontà e il pensiero dei cari lontani permetteva di resistere all’ostilità dell’ambiente. Casuale il ritrovamento di questo tesoro, preziose testimonianze umane e storiche, in un vecchio faldone mal conservato nell’archivio del Comune di Sessa, dove Cominale lavora. Ma la determinazione dell’appassionato e la competenza dello studioso hanno consentito di trasformare il caso in necessità, la necessità di raccontare oggi il nostro ieri nemmeno tanto lontano, di far conoscere le radici prossime della nostra storia in una sorprendente miniera di notizie. Le 126 lettere raccolte da Cominale fanno parte della documentazione allegata alle domande di sussidio presentate durante la seconda guerra mondiale all’Ente Comunale Assistenza di Sessa: servivano a dimostrare che – proprio a causa della guerra – era difficile ricevere il regolare versamento da oltreoceano, che per molte famiglie era spesso l’unica fonte di sostentamento. Sono un doloroso intreccio di storie ordinarie, che diventano la storia di una comunità e rappresentano la più grande storia di una nazione. Sessa Aurunca è – come emerge dal lavoro qui presentato – lo specchio di una situazione generale che interessava buona parte dell’Italia, non solo meridionale.

Mariano Coreno, Un albero per ombrello, Edizioni Eva

Sarebbe esercizio minimalista parlare di minimalismo per questi versi di Un albero per ombrello, come sarebbe ipocritamente fuorviante parlare di poesia autoreferenziale per uno che scrive quasi sempre in prima persona tratteggiando in maniera esemplare la propria vita. Tant’è: Mariano Coreno parla di sé perché è l’argomento che conosce meglio, ma lo fa smorzando i toni, usando – forse poiché vive da mezzo secolo e più in Australia – quel particolare understatement anglosassone a noi poco congeniale, ma essenziale quando si voglia (come lui fa) sommessamente raccontarsi sperando di essere ascoltati. Operazione salvifica, quindi, non solo per l’autore, che scrive, racconta e distilla il “miele” e il “sale” dei giorni, ma per il lettore che assapora e vive, di quei giorni, il racconto distillato nei versi. Mariano Coreno si dovrebbe definirlo “il poeta della vita”, tanta la sua attenzione al mondo quotidiano, allo scorrere del tempo, alle forze che regolano l’esistenza. In questo ciclo naturale si scopre la stessa dimensione umana, e la si definisce in maniera filosofica, cioè eminentemente poetica. La poesia – se è tale, se parla e comunica, appunto – la si può partecipare e abitare come una casa nostra, come una spazialità da condividere. Ma Coreno è pure il poeta della morte tranquilla, attesa come una prosecuzione della vita, e pertanto anch’essa “abitabile”, senza tante paure, senza patemi, con la stessa naturalezza con la quale va affrontata la vita. Basta crederci; non è facile, certo, ma in queste poesie così dense e vitali di Mariano Coreno si può leggere una convinta adesione ad un credo che è il frutto delle leggi che si vedono reggere il mondo, quello che noi abitiamo e pertanto ci appartiene. Mariano Coreno è un cuore che balla il tango (dice, e così riesce a sollevarsi dal fango dei giorni), nell’affannosa corsa in cerca di parole nuove, per comporre la poesia mai finita che è la sua vita – che gli si deve augurare ancora lunga, se vale (ad majora, semper!) come ispiratrice di poesia, per lui e per chi poi la legga – per noi.

***

Renzo Cremona, Neve, Edizioni Eva

Nulla a che vedere con il delicatissimo e insieme struggente omonimo racconto di Maxence Fermine, ma si fa leggere con trepida attenzione Neve di Renzo Cremona, anzi neve, poiché scrive sempre in  minuscolo i suoi titoli… E comunque, non si smentisce: la sua scrittura è al solito molto controllata, su un piano si direbbe parallelo a quello che ci si aspetterebbe da un narratore. Cremona ha un suo progetto di coinvolgimento del lettore fondato su trame allusive e spesso illusorie, nel senso che nemmeno sono trame, piuttosto indicazioni di itinerari mentali. Pertanto, bisogna adattarsi a seguirli senza aspettarsi di arrivare chissà dove… Infine, forse, ci si troverà in una dimensione alternativa dove è possibile che esistano altre vite, o la nostra, anche la nostra, ma quando sarà, o se sarà… Questo racconto che esce ora nei “colibrì” delle Edizioni Eva si sviluppa in capitoli di varia estensione e propone azioni e sensazioni di personaggi incredibili (nel senso proprio che si stenta a crederli tali e non invece idee di persone immaginate solo allo scopo di creare l’azione stessa o la sensazione che si descrive). Ma alla fine della lettura si percepisce come un senso di liberazione… l’abbiamo scampata bella: non facciamo parte di quel mondo che è un altro mondo, onirico o virtuale… O non deve piuttosto venirci il sospetto che quello onirico o virtuale sia quello che crediamo nostro? Insomma, è un’operazione letteraria che molto probabilmente sarebbe piaciuta a un surrealista; noi accettiamola come esercizio di alta scrittura, ma riflettiamo un momento insieme a Renzo Cremona: facciamo attenzione a come giochiamo la nostra esistenza: potrebbe cominciare a nevicare e sommergere tutto: meglio allora godercela, finché non fa troppo freddo. È solo una chiave di lettura, ma teniamola, non si sa mai…

***

Renzo Cremona, sedici settimane / δεκάξι βδομάδες (traduz. Keti Maraka), Edizioni EVA

Esce direttamente con traduzione in greco nel piccolo formato della collana i colibrì, questo libretto di un giovane (ma non tanto) ed esperto già poeta dei sentimenti. È un lavoro delicato malgrado la tematica proposta sia quella rischiosissima dei sensi – e per di più dei sensi Cremona ha scelto quelli che tanto piacquero a tanti poeti greci della classicità, quelli di un lui che scrive a lui. Anche per questo, per questo legame con una maniera di esprimersi che un tempo era tanto diffusa da potersi ritenere “normale”, le sedici settimane di Cremona (che altrimenti farebbero piuttosto ricordare il titolo di un banale film patinato di qualche anno fa) hanno una levità di tono esaltata da una sobria ma non quotidiana filigrana lessicale. Appena 28 brevissimi testi, ma densi di letteratura, e si nota (e si apprezza) la conoscenza altra che l’autore ha del fare poesia – andare a cercare ascendenti e maestri, ispiratori o modelli sarebbe facile gioco intellettualistico; e invece qui va cercata sempre la spontaneità di un’espressione che è spontaneità di esperienza, ed è poesia per il suo trasferirsi sulla carta dalla vita vissuta, dalla genuina voglia di comunicare (e comunicarsi nella parola). Non si può evitare di pensare a Kavafis, almeno, e al nostro Penna, per certe atmosfere, per certe allusività descrittive, alla sensuale freschezza di Saba… Ci sono immagini e situazioni che sfiorano le accensioni dell’eros rimanendo nel dominio della compostezza – la poesia è nella grazia che emana da uno sguardo, da una parola, da un gesto sospesi, accennati… “siamo un’isola perfetta/ io e te/ al centro della notte”; “…la mia lingua/ riproduce/ esattamente/ il racconto che hai/ sulle tue labbra”.

Renzo Cremona, cartoline da trapani, Edizioni Eva

Il solito imbroglio di Renzo Cremona – dice una cosa e ne fa un’altra, per attirarci dove vuole: dentro di noi, passando però per le infinite forme in cui lascia manifestarsi la sua parola. Meglio: facendoci gustare (come una buona tazza di tè: ha appena ristampata, ampliata, la sua raccolta il canone de tè) e invogliandoci a gustare ancora il sapore della sua scrittura apparentemente monocorde e aperta invece a mille possibilità di interpretazione. Renzo Cremona ama guardarsi intorno, spedire “cartoline” agli amici (e a se stesso, pure), ama sentirsi scorrere dentro parole che diventano messaggi in bottiglia per naufraghi lontani… Così le sue cartoline da trapani (ignora l’uso delle maiuscole) hanno il taglio di piccole riflessioni, ed è la città stessa che si manifesta, a volte in prima persona: sono scritti brevi e brevissimi (tipica forma espressiva di questo autore) che solo chiedono di essere sorseggiati e promettono di fare bene. La forza di queste paginette (è la sesta volta che Renzo Cremona si presenta nella – adeguatissima – collana “i colibrì”) è nell’asciutta mancanza di enfasi, nella chiara volontà di mostrare soltanto quel che c’è. Qui la città di Trapani è vissuta nei suoi vicoli nascosti e sul mare in cui si sporge aggressiva, e nei quartieri antichi e sui monti vicini: ventidue immagini mentali che diventano fotogrammi da conservare, custodire, affidati allo scritto (elegante e misurata, al solito, la sua scrittura, consapevole la lingua, fascinoso l’uso di metafore, analogie…) – ne possiamo cogliere sprazzi e spizzichi di geografia ideale, ove nasconderci al bisogno, qualora avessimo bisogno di ritrovarci al di là del banale quotidiano. Inutile – e potrebbe essere fuorviante, poiché è giusto che ciascuno, i lettori tutti, abbiano e mettano a prova la propria intesa con queste “cartoline” a loro indirizzate – è inutile indicare le pagine “più belle” o “meglio riuscite” (secondo quale canone, poi? trattandosi di un sui generis che deve piacere com’è, o lascia perplessi): citare però “porta ossuna” e “i misteri” è indice di maggior adesione da lettore: “è una la luna, o sono tante le lune?”; “sarà un giorno lungo, mamma, ma non come le notti in cui mi hai tenuto la mano”…

Camilleri – Carlino – Cassir – Correia – Cortellessa – Ceronetti – Cavalli – Ciampi (Barbieri) – Cibecchini – Carnevali – Calabresi

Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là, Mondadori

Il 2008 è particolarmente ricco di scadenze della memoria e ricco appare il panorama delle pubblicazioni dedicate a rievocazioni di vario genere, di varia parte. Sì, perché se è di parte anche il libro va meglio, costringe a prendere posizione e se ne parla magari anche in tv, che non guasta mai, anzi aiuta un pochino la circolazione. Spingendo la notte più in là è un libro toccante perché scritto da un figlio che non fece in tempo a conoscere ed amare suo padre come avrebbe voluto, come avrebbe meritato. L’autore Mario è il figlio di Luigi Calabresi (“e ho detto tutto!”, direbbe Peppino). La sua è la storia privata che privata non ha potuto essere di un bambino cresciuto orfano. Nell’anno in cui si celebrano i 60 della Costituzione, i 40 dal ’68, i 30 dal rapimento Moro (e dalla sua morte), nel clima da campagna elettorale che da noi si respira quasi perennemente, lo sfortunato figlio di uno sfortunatissimo impiegato dello Stato decide di confessarsi in pubblico e lo fa con estrema dignità, da giornalista, senza fare polemiche. Nel suo libro, ricco di illuminanti testimonianze dirette non solo personali ma di altre vittime del terrorismo, si coglie una volontà di fondo: parlare di sé per dare un esempio. Di comprensione e di tolleranza, ma pure di sdegno e sia pure contenuto anche questo in una superiore capacità di accettazione. Perché “accade a un certo punto che persone solitamente mansuete, che hanno troppo senso dello Stato, diano segni di insofferenza” ma il “rispetto per i propri morti impedisce di trascendere”, anche se “la sofferenza è spaventosamente grande”. Ci sono pagine in questo piccolo libro che andrebbero studiate nelle scuole come un testo di Seneca o Agostino. “La storia dell’omicidio di Biagi è una storia di follia ma anche un apologo sul linguaggio. Sull’uso leggero poi disinvolto infine irresponsabile delle parole”: è forte l’appello del giovane Calabresi contro la stantia liturgia delle polemiche (specie quando ci sono ricorrenze, anniversari, celebrazioni: e anche l’editoria se ne nutre). “Una lapide per Calabresi? bisogna pareggiarla con una scuola intitolata a Pinelli”: una provocazione? Forse, però, non si può sempre permettere che la pazienza sia sinonimo di vigliaccheria.

 ***

Marcello Carlino, Scritture in vista. Cinque studi su usi di arte in letteratura, Bulzoni

Difficile da procurarselo, difficile anche da leggerlo, ma un saggio del prof. Carlino è una gioia dei sensi – la sua scrittura (si arrampica a volte ardita e costringe a periclitose escursioni sintattiche) è una sfida all’attenzione e pertanto costringe all’attenzione e non perdona chi si distrae, premiando invece chi vi si accosti ben disposto –, è un viaggio nella bellezza. Questa raccolta di saggi pubblicata da Bulzoni ha come tema l’arte in letteratura, attraversando in “cinque studi” la letteratura italiana sullo spartiacque del 1900, ma partendo dall’Inferno dantesco. Il primo capitolo del libro è infatti dedicato al I canto dell’Inferno; il secondo esamina il Fuoco di D’Annunzio, il terzo l’indistinto nella poesia pascoliana, il quarto la Notte di Campana e l’ultimo è dedicato al futurismo. Lo scopo dichiarato dall’autore di un simile esame critico è quello di scoprire “elaborazioni di immagini ed escogitazioni visuali che stanino il linguaggio verbale, che lo scuotano dalla sua inerzia, che lo sollecitino a rimettersi in gioco e, rinnovandolo o accrescendone la vitalità, lo chiamino alle responsabilità di significare…”. Il rapporto implicito o – se possibile verificarlo – esplicitato, fra opera letteraria e opera d’arte, è un campo di indagine appassionante. Sono sempre stati attenti, gli scrittori, a darsi più o meno precise coordinate riconducibili all’arte. Carlino segue e sviluppa, ad esempio, le chiare indicazioni (di stampo wagneriano) di D’Annunzio a proposito di una Venezia decadente, gonfia di arte-vita. Nel “Gelsomino notturno” di Pascoli si coglie un riferimento all’indefinito di matrice leopardiana, ma pure al “divisionismo” pittorico dei suoi tempi. Wagneriano è anche Campana, autore peraltro di una “poesia colorita, la quale spesso insegue tracce marcate di suggestioni visive”. Come si nota nelle strutture verbo-visive di Marinetti, ricalcate dalla pubblicità (fenomeno attualissimo, d’altronde). È un libro necessario, questo di Carlino: Scritture in vista è già nel titolo un programma ben preciso – non significa forse dare visibilità alla forma scritta in modo che ne permanga il messaggio, che meglio si fissi nell’occhio interiore del lettore una immagine letteraria? Così vengono presentati gli autori oggetto del suo dire e così procede il critico nel suo dire: è un lavoro certosino ma divertito, poiché – più che puntare alla lezione diretta e dirimente – Carlino crede che al lettore vadano concesse regole e scappatoie, proposte questioni e aperti sentieri alla personale esplorazione dei testi. Così la forma scritta finisce per somigliare alla tessitura pittorica, assumendo un andamento ondivago, come le pennellate dell’artista, i chiaroscuri, le macchie di colore, gli artifici che fanno una figura ma le danno anche tagli visivi diversi a seconda di chi la guardi.

***

Marcello Carlino, Ciociaria quella terra di viaggi che non dico, Guida

Dopo il Cilento di Maffeo, nella collana “Ritratti di città” diretta da Ugo Piscopo per l’editore Guida, ecco un’altra regione “che non c’è”… e forse il sottotitolo del libro di Carlino ha (anche) questo significato: la sua Ciociaria, infatti, è piuttosto un luogo, uno spazio dell’anima, custodito nella memoria. La Ciociaria – che si protende verso Roma, la piana pontina e l’Abruzzo e la Campania – “accade che s’apra e si chiuda, s’allunghi e si restringa come una fisarmonica, rendendo incerti, aleatori i suoi confini”. Ma si può viaggiare senza dire per quale terra si viaggia? E allora le coordinate geografiche e antropologiche, storiche – materiali, in definitiva – vanno date comunque, anche se in una forma che è piuttosto una confessione di impossibilità a precisare. “Città di città, la Ciociaria è un’area geografica che non c’è. Eppure è realissima, portando con sé anche la realtà di una enclave, di un porto franco del pensiero, di un regesto di città invisibili”. E a proposito di Picinisco: “il panorama è straordinario, la vista vi spazia sul tempo”. Infine: “è nella spazialità del paesaggio urbano che l’azione del tempo si lascia cogliere in particolare rilievo”. Queste citazioni dovrebbero chiarire lo spirito dell’autore di un simile libro (“non una guida, non un saggio storico” dice Carlino) che si configura come una personale antologia “di annotazioni, di divagazioni”. Il professore pendolare, che da decenni preferisce viaggiare sulla tratta Frosinone-Roma per non perdere il rifugio-salvezza della provincia, qui ferma le sue memorie e le sue considerazioni, e propone una lettura del territorio privata ma documentata, esemplare anzi per la ricchezza delle citazioni di luoghi e personaggi. La Ciociaria è stata sempre terra di passaggio e quindi “terra di viaggi”, attraversata un tempo dalla Via Latina (l’odierna Casilina) tra Roma e Napoli e il Sud. Ha attratto conquistatori e ospitato illustri visitatori: “la sua è una storia di viaggi e di incontri”. L’autore considera questo suo piccolo libro “una specie di vacanza” – dalle sudate carte degli studi universitari – ed essendo, sentendosi in vacanza, prende anche licenza dalla (abituale) scrittura accademica per esprimersi in maniera più rilassata, a volte anche sospesa tra lo sdegno e l’ironia (Giovenale docet), ma sempre curando il dettato nei dettagli della pagina. Bellissimo il capitolo che Carlino, dichiarato ammiratore di Gozzano, dedica a quella che considera “la filosofia del tramonto”, che nasce proprio da una considerazione sul relativismo gozzaniano e finisce per farsi carattere di una terra “relativa” com’è appunto la Ciociaria, e si trasforma comunque in augurio, perché “l’estremo manifestarsi di un tramonto” (la crisi manifatturiera che ha colpito la regione) sia almeno leggibile come attesa di “un nuovo giorno”. Inevitabili quindi, in un lavoro come questo, le riflessioni sul tempo, anch’esse relative però poiché legate all’ambiente: “nella spazialità del paesaggio urbano l’azione del tempo si lascia cogliere in particolare rilievo”.  L’autore confessa inoltre, fra i numerosi riferimenti personali, di poter abbracciare  con lo sguardo “dalla finestra del mio studio… circa un quarto dell’intero territorio della provincia in cui sto”. Che più? Quotidianamente, si può dire, spettatore privilegiato e testimone rigoroso, si comunica della sua terra e ne coglie le mutevoli essenze e insieme avverte e registra i mutamenti ambientali che – nel tempo! – ne alterano lo spazio.

Carlino cioc

Marcello Carlino, Dodici osservati speciali, Bulzoni

Ecco subito chiaro quando e perché un libro non ha scadenze, meno ancora se è un libro di poesia o dedicato alla poesia, in forma di analisi, com’è questo saggio di Marcello Carlino (beati sempre i suoi studenti), e per di più analisi composte come fossero intimi colloqui a sistemare imponenti bagagli di conoscenze critiche. Il professore scrive – e probabilmente fa lezione – come chiacchierasse con amici alla pari (presumendo che sappiano abbastanza per seguirlo o almeno abbiano predisposizione a sintonizzarsi sui suoi canali espressivi) – in ogni caso svaria continuamente nei registri e si arrampica su citazioni e rimandi, scende nei testi e sconfina nei contesti, e propone penetranti chiavi di lettura e sistema interpretazioni a confronto. I “dodici osservati speciali” del titolo sono – raggruppati in tre quartine – appunto dodici poeti del primo Novecento, legati “nello spazio dello straniamento, della critica, del disincanto” (cioè Palazzeschi, Govoni, Lucini e Gozzano), oppure “tra inquietudini di scrittura e scosse di linguaggi” (e cioè Rebora, Campana, Sbarbaro e Cangiullo), o “in uscita dall’avanguardia” (cioè Montale, Saba, Ungaretti e Pavese). Come si vede dalla scelta degli autori “osservati” e dai titoli delle sezioni del libro, questi “atti di analisi testuale” di Marcello Carlino vogliono essere una specie di storia (e microantologia) critica della poesia italiana del Novecento per grandi categorie e piccoli esempi. Perché il professore vi riversa fiumi di conoscenze e tutta la sua passione di studioso, insieme alla volontà di proporre ad un pubblico medio, colto e disponibile, uno strumentario (si sarebbe detto una volta) adatto a scernere per proprio conto altri valori, in altri autori, altre mode, o tematiche o correnti letterarie. Ecco perché un libro come Dodici osservati speciali non ha scadenze, potendosi anzi assumere come fondamento per la critica a venire, ricco infatti com’è di proposte interpretative e di metodologia applicata. Carlino – comme il faut – parte dai testi quando parla di un autore, e sceglie un testo, qui, per ciascuno dei suoi “dodici osservati”, lo assume come emblema di poetica e per l’appunto ne osserva – a carte scoperte – le fattezze formali e il carattere del contenuto. Poiché ritiene giusto, anzi dovuto, “che si vada a vedere, scoprendo tutte le carte del gioco (quel che è giusto chiedere, ormai senza benevolenze preventive o deferenze verso gli intoccabili di qualunque schiera, per tracciare il bilancio di un secolo di letteratura)”. Impossibile non cogliere, insieme ad altissimi momenti di riflessione che non è solo critica, evidenti lacerti di confessione da lettore incallito eppur sempre disposto a leggere con genuino impegno in cerca di nuove suggestioni.

***

Marcello Carlino, Poetica, Guida

Carlino

Il professore si diverte… Marcello Carlino ha lunga pratica e scaltri mezzi acquisiti sul campo che gli consentono di cimentarsi con cipiglio e competenza nell’ardua rivisitazione di un tema così vasto e comune al tempo stesso, poiché da sempre i pari suoi, i professori che fanno i critici hanno dovuto misurarsi con tutta una serie di canoni costituenti quel che una volta si definiva – rifacendosi proprio ab ovo – lo strumentario del mestiere. E allora, dichiarato fin dall’inizio del suo saggio che “in principio fu Aristotele”, la Poetica dello Stagirita è presa come punto di avvio per la ricerca che (dopo un accorato capitolo sul come e perché “la poetica non smette di esserci utile”, anche oggi che “nemmeno la letteratura se la passa bene”…) si chiuderà con la dovuta dichiarazione di “poetica privata”. Così, nel capitolo intitolato “la mia poetica”, Carlino sintetizza rapidamente, esemplarmente, tutto il percorso storico critico appena affrontato e si mette a nudo come lettore che si ispira a Benjamin. Ma seguirlo nel percorso tracciato attraverso due millenni di riflessioni (in particolare l’estetica novecentesca) su cosa sia e come funzioni la pratica dello scrivere è un viaggio nel nostro stesso essere, che appunto è tale poiché è nel suo dirsi, nel farsi altro da sé mentre si dice. Poetica di Marcello Carlino inaugura una collana di libri che l’editore Guida dedica – coraggiosamente, dati i tempi – alle “parole chiave della letteratura”. Già pronti altri volumetti agili e densi (accattivante lo snello formato tascabile). Il secondo, chissà quanto a caso, sembra chiudere apposta la lacuna aperta nella “Poetica” dalla quale parte Carlino nella sua analisi: quella relativa alla commedia, non pervenutaci, come si sa, nell’opera di Aristotele. Alla Commedia dedica il suo saggio Giulio Ferroni. Subito dopo segue il Futurismo di Nazzaro. Temi fondanti della critica letteraria, come si vede, idee portanti per chi voglia avvicinarsi e farsi condurre per mano in un terreno ricco di sorprese. La Poetica raccontata così invita a rileggere con occhio più attento ed animo meglio disposto le opere conosciute, invita a riconsiderare posizioni ritenute acquisite, a scegliere magari tra le formule di rito quelle meno rituali.

Carlino ps

Marcello Carlino, Gli scrittori italiani e la pittura, Ghenomena

Gli scrittori italiani e la pittura è un libro che si fa apprezzare subito, e profondamente gustare nelle sue pagine, intense di passione – addirittura più umana che critica. Quello che infatti più favorevolmente impressiona è lo stile colloquiale del professore. Marcello Carlino fa sentire che la materia è sua e vuol farla nostra – e lo dice, si dichiara senza nascondersi, e perciò convince di più. La scelta delle chiavi di lettura (“Sei modelli di descrizione di affioramenti pittorici nelle opere di letteratura”, esposti nella quarantina di pagine introduttive: un sostanzioso indizio di metodo che contraddistingue la serietà operativa del critico) è senz’altro condivisibile, e certo utilissima per chi voglia misurarsi sullo stesso terreno affrontato in questo saggio. Particolarmente gradevoli i paragrafi dedicati a Gozzano metaletterato (tra i più citati) e a Pascoli colorista. Come sembra azzeccata – e quindi anch’essa gradevole – la scelta degli esempi nelle varie sezioni in cui si articola la disamina della materia. Da Marino (e Caravaggio) a d’Annunzio (e Dürer), da Praga fino ai futuristi; e Dante, molto presente (“la teoria applicata del colore” e “qualche noterella in punta di piedi sull’allegoria” – qui davvero il professore si diverte, more solito, a giocare con la scrittura). Forse non ci sono altri studi del genere, senz’altro non ce ne sono come questo di Carlino – serviva fare un po’ d’ordine, in una disciplina fondante com’è quella che approfondisce un rapporto fondante: arti figurative e scrittura vanno insieme da quando si scrive e si dipinge (i riferimenti alla classicità sarebbero molteplici e giustamente Carlino qui cita addirittura Omero). Insomma, ci si sente più ricchi, grazie a questo appassionato e appassionante lavoro che davvero andrebbe letto nelle scuole, ma dovrebbero conoscerlo anche gli addetti ai lavori di entrambi i campi, i quali potrebbero (dovrebbero!) rendersi conto che non si va da nessuna parte se non si sta in compagnia: Gli scrittori italiani e la pittura schiude ipotesi di collaborazione involontaria o inconsapevole, casuale o forzosa, ma il più delle volte analizzando sapute e volute forme di collaborazione tra artista e poeta: sono quelle che danno i risultati migliori, d’altronde, posto che le arti sono sorelle e non devono litigare, anzi, aiutarsi e sostenersi a vicenda.

***

Marcello Carlino, Il regionale delle sei e quarantatré, Robin

Il regionale delle sei e quarantatré è senz’altro un romanzo: è il banco di prova più serio più severo per uno scrittore – per quanto scaltro e sicuro dei suoi mezzi espressivi (già provati in qualche modo nell’asciutto saggio narrativo di Ciociaria), per essere stato, a lungo, un professore ed essere sempre un critico attento, un esperto di letteratura e dunque di forme e di schemi della letteratura (quella contemporanea, a preferenza), e per di più mai limitato all’esercizio del suo campo d’azione specifico, ma a suo agio anche in altri campi, quali le arti. È forse una dichiarazione subliminale, ma quasi alla fine del libro compare la parola che va sottolineata poiché potrebbe schiudere la porta e far luce oltre il tunnel: “è una metafora” (scrive l’autore, aggiungendo pure “un incubo tra i peggiori”) e si riferisce direttamente al treno che del libro fin dal titolo è l’animato protagonista, animato com’è dai suoi tanti viaggiatori, ma in via subliminale quella parola parrebbe alludere appunto al libro stesso, alla incredibile storia che vi scorre… E allora il treno stesso sarebbe la metafora della vita; e il fatto che sia uno sgangherato “regionale”, al quale capita una di quelle giornate da non augurare al peggior nemico, che sia un treno di seconda serie a vivere l’avventura di questo libro la rende più simile alla vita comune dei tanti personaggi comuni che sono interpreti del mondo come lo conosciamo. Retorica? no, perché Carlino a questo suo treno pur concede un’anima – può darsi malandata ma sempre anima e anima mundi, o speculum mundi. Dunque, Il regionale delle sei e quarantatré è il diario (di bordo e pure molto fuori bordo) di una giornata fuori del tempo e dello spazio, eppure così ricca di vita che sembra vera. Qui ci sono Gozzano e Buñuel, Fellini e Pessoa (per dirne alcuni, tanti essendo invece le fonti esemplari cui si attinge perché fluisca il viaggio del nostro “regionale” sulle sue rotaie, le quali ben presto finiscono per scomparire e lasciare strada al flusso continuo dell’immaginazione), ci sono tanti che vengono in mente e vengono in aiuto all’autore, ma ser­vono al lettore: questo mi ricorda Charlot – questo mi parla di… e questo… C’è infatti la bombetta di Charlot ma c’è pure Totò, e chi legge trova naturalmente chi gli serve per sentirsi a casa. Rischia davvero di essere un libro-testamento: cos’altro si potrebbe inventare per raccontare la sua vita (proprio quella di Marcello Carlino, professore pendolare per decenni, il quale, senza mai nominarlo, come sguazza nei panni del protagonista!), per dire delle sue manie e le pas­sioni di una vita, il suo credo e la rabbia delle disillusioni… Non fa sfog­gio di cultura, il professore che sa di letterature ed arti varie, anzi con­disce certe pagine con la ben nota autoironia di segno gozzaniano, con l’andare dinoccolato dell’amato Charlot – pure nel gioco della lingua si diverte, nello scimmiottare uno pseudoplurilinguismo oggi di moda ma senza sostanza. Questa volta il professor Carlino, che per indubbia capacità di scrittura è ben conscio di come si debba scrivere (e perfino cosa convenga e quando scrivere), si è dilettato, più del solito, nel trascinare il lettore verso domini ardui a scalarsi, per giungere infine poi dove nemmeno si riconoscono segni di usati per­corsi, in un vacuo novunque, come lui lo chiama, ubi difficilissimo è consi­stere, figurarsi addirittura trovarsi a proprio agio. La descrizione della città fantasma che precede l’allucinante straniante finale del libro (aperto o chiuso che lo si voglia considerare) è da manuale di genere. Come appunto quando una perfida nebbia ci sta intorno o solo di fronte a impedire il passaggio, ovattando le cose vicine, nascondendo del tutto quelle più lontane. In una simile dimensione fisica, che diventa al tempo stesso uno status dell’anima, lo scrittore e il lettore insieme perdono contatto con la realtà, e salgono e scendono da quel treno regionale che ansima e zoppica e perde progres­sivamente l’orientamento – simbolo chissà quanto occasionale della so­cietà nella quale perdiamo cognizione dell’essere, forse finanche una sana apotropaica cognizione del dolore –, e scoprono che non c’è altro, oltre quello che ritenevano tale, uno specchio del nulla [2017].

***

Delio Carnevali, Divinità del dubbio. La malattia della ragione, Book

Serioso esegeta o arguto provocatore che lo si voglia considerare, Delio Carnevali è comunque degno della massima attenzione quando scruta, analizza, cerca di curare a suo modo “la malattia della ragione”. È questo il sottotitolo (illuminante in chiave di lettura) del suo libro Divinità del dubbio (genitivo soggettivo o oggettivo, chi sa?), una raccolta di saggi “scritti nell’arco di quarant’anni” che – a suo dire – “sono la dimostrazione del fatto che, intorno a certi problemi, l’uomo sostanzialmente gira a vuoto” (verrebbe subito da consolarlo, ricordandogli che girare è già vivere, come ben sanno i pianeti del sistema solare). Ciò significa che il primo a voler guarire da quella malattia è proprio lui – ma vuole senz’altro aiutare chi legge a capirci di più, a riconoscere sintomi e procurarsi antidoti, nel caso si ammalasse. Perciò Carnevali ha voluto “tradurre in libro quello che doveva essere soltanto una sorta di diario”, per essere utile a coloro che – anche inconsapevolmente – soffrono o rischiano di soffrire. La vita è bella, si potrebbe concludere, perché cadere in tentazione? perché sciuparsela cercando di capire oltre i limiti dell’umano sapere? Ma è proprio questo il problema di fondo: è in quanto tale che l’uomo soffre, poiché non può evitare di porsi domande esistenziali alle quali difficilmente trova risposta. “Viene spontaneo chiedersi perché l’uomo fin dai primordi non si sia procurato la morte per sfuggire alla consapevolezza dell’orrore della vita” (posizione non certo nuova, ma dolorosa da affermare ancora). Nella successione dei capitoli di questo libro (sull’anima e la legge, la democrazia e la politica, la famiglia e la guerra), Carnevali si interroga e propone personali soluzioni ai dubbi, ma affida soprattutto all’uomo un messaggio: non facciamoci schiavi di noi stessi, di una visione del mondo antropocentrica ma limitata alla nostra meschina misura. Fondamentali i saggi “I nuovi schiavi” e “Il mito della felicità”. Il pessimismo di fondo che sembra annidarsi nelle pagine di questa Divinità del dubbio (è importante capire se si tratta di genitivo soggettivo o oggettivo!) può essere superato se si riesce a cogliere della vita gli aspetti meno compromettenti, quelli che non ci spingono a domandarci continuamente chi siamo, per non arrivare davvero alla triste e paradossale conclusione che “solo il suicida possiede veramente la vita!” La Verità è inattingibile dalla ragione” – farsi una ragione di questo assioma sarebbe già una conquista: non si può conoscere “origine e destinazione” dell’uomo, tanto vale rassegnarsi ad essere quel che si è – signori del mondo conoscibile, e non è poco.

 ***

Camilleri N

Andrea Camilleri, I racconti di Nené, Melampo

Pare di vederlo, malgrado egli stesso ci avvisi che “di questa intervista ne avete solo l’audio e non anche il video”… ma pare davvero di vederlo: ci sono i suoi tic, la sua sigaretta e “pause, movimenti delle mani e del volto”. Si tratta infatti di una serie di interviste preparate per una trasmissione televisiva su RaiSat Extra di alcuni anni fa: “I ‘cunti ‘i Nené”, curata da Francesco Anzalone e Giorgio Santelli (che adesso ne hanno curato la pubblicazione in volume: I racconti di Nené). Qui Andrea Camilleri si scatena nella memoria della sua vita. La misura breve dei “capitoli” (la trasmissione infatti prevedeva “puntate” di pochi minuti) gli consente di isolare frammenti e metterli in successione, senza costrizioni di cronologia o logica esistenziale. Ci sono episodi buffi e drammatici, privati e pubblici – ma, essendo lui l’autore e il personaggio, tutto quadra, tutto si tiene alla superiore ottica del regista che è sempre stato (e narratore, va da sé: questi “racconti” sono certo uno dei suoi romanzi più belli). C’è, all’inizio, il bambino “balilla” che a dieci anni scrive al Duce offrendosi volontario per la guerra in Africa (e “M” gli risponde pure!); c’è la visita a sua nonna – spesso raccontata – di Luigi Pirandello, vestito da Accademico d’Italia, che gli sembra un ammiraglio… ci sono i mafiosi e gli americani, c’è la politica sullo sfondo e la vita culturale d’Italia, vissuta in prima persona (succosi e malinconici episodi). Camilleri non si esalta, come non si è abbattuto nei momenti negativi: la sua maniera di presentarsi è nota – a chi almeno una volta l’abbia visto intervistato: come non fossero fatti suoi, discreto con gli altri e con se stesso, un filino ironico, quasi mai polemico, apparentemente senza cattiveria. Eppure, ad ascoltarlo, a leggere queste pagine nell’agile libretto di Melampo, si colgono lampi di verità che ci coinvolgono, i soliti avvisi al lettore che l’autore di Montalbano semina nelle sue storie, più o meno inventate, ma tutte verissime se ci cogliamo, appunto, la nostra umanità.

***

 Andrea Camilleri, Noli me tangere,  Mondadori

Non sembra nemmeno Camilleri, per quanto è garbatamente affettuoso nei confronti del personaggio, il principale motore della storia, che – paradossalmente ma non tanto – compare solo all’ultima pagina per darci la botta in testa di una rivelazione impensata (eppure preparata con dovizia di indizi). La costruzione è da giallo (la signora è scomparsa… e ne parlano tutti quelli che per un motivo o per l’altro hanno avuto a che fare con lei) ma si apre subito a diverse letture, a sorprendenti e inquietanti chiavi psicologiche. La simpatia del lettore è catturata progressivamente, mentre si coglie il sospetto dell’inganno. Sappiamo che il narratore sa proprio tutto e ci aspettiamo che ci freghi in qualche modo. Noli me tangere è infatti un viaggio di espiazione redenzione assoluzione, tutto tranne che un giallo (nel senso che la signora non è stata rapita né uccisa: si può dire poiché appunto non è un giallo convenzionale): alla fine trionfa la vita, quella vera, quella che si dà non per dissiparla con ostentata generosità, ma per amore di sé negli altri. Il vecchio Camilleri colpisce ancora nel segno e nel segno di una scrittura pulita, essenziale, efficace allo scopo. La sua scaltrezza di costruttore e la sua profonda lettura dell’umanità qui sono al servizio di un’idea ambiziosa – ci si può cambiare d’abito e di pelle, basta convincersi però  che fuori, oltre il piccolo orizzonte quotidiano, qualcuno ci aspetta. Così, dopo aver finto di soddisfare l’appetito di nemmeno si riesce a ricordare quante persone, si desidera appagare il bisogno elementare di chi non altro può chiedere che una vita più dignitosa. Noli me tangere, appunto, non pretendere di misurare il tuo bene sul mio corpo: mentre cerco di raggiungere il cielo che mi prefiggo di toccare, non voglio più compromessi. Nella giostra incredibile di personaggi di questo breve romanzo, non si può fingere di non riconoscere qualcuno e volerlo giudicare secondo coscienza. [2016]

***

[487] Andrea Camilleri, Conversazione su Tiresia, Sellerio

Camilleri T

Il privilegio della divinazione, più che un dono, è “la più tremenda delle condanne” – Tiresia avrebbe preferito una vita normale, da uomo, piuttosto che fare l’indovino e vedere come “il futuro è spesso fatto di amarezze, di dolori, di malattie, di morte”. E avrebbe preferito vedere con i suoi occhi la realtà, piuttosto che divinare, cieco, per dono divino. Forse perciò l’ormai quasi cieco Andrea Camilleri ha voluto misurarsi con questa figura straordinaria. Omero e Sofocle, Euripide, Ovidio, Dante: nel mondo classico Tiresia è personaggio molto presente – per le possibilità che offre di riflessione sui rapporti fra umano e sovrumano; ma pure di recente (Apollinaire e Stravinskij, Pavese e Pound, Cocteau e Virginia Woolf tra gli altri numerosi del secolo scorso) lo hanno sfruttato, offrendogli a vario titolo cittadinanza fra i miti continuamente aggiornati ai quali scrittori e artisti diversi hanno fatto ricorso. Forse Camilleri soltanto poteva (permettersi il lusso di) “conversare” su Tiresia, ma conversando con Tiresia, anzi quasi da Tiresia, come se cioè fosse lui stesso quel vecchio protagonista di tanti momenti letterari nella storia della cultura occidentale. La sintonia del vecchio autore di “Montalbano” con il cieco indovino in questa sua Conversazione su Tiresia è assoluta e imperdibile. Poiché dono più bello e più ricco non ci poteva venire da un grande vecchio come Camilleri. Qui egli apre il baule del suo teatro (cioè la vasta e variegata e tanto bene posseduta biblioteca della sua anima) e ne fa scaturire un’ora di deliziose armonie, un florilegio di libri e scrittori, di maschere e personaggi, di poesia, che hanno fato la storia della nostra letteratura. La “conversazione” del papà di Montalbano (qui pure ricordato con affettuosa ironia) è fatta di continui rimandi e citazioni, di aperture psicologiche e tiratine politiche, proprio com’è nel suo stile abituale di osservatore speciale della società. Tiresia è una figura universale – averle dedicato un così succoso e gustoso pamphlet è segno di colta arguzia e commossa partecipazione, di spirito teatrale e bravura enciclopedica. La recita che poi Camilleri ne ha fatto a Siracusa (“Solo su queste pietre eterne”) è da antologia del teatro universale [2019].

***

Andrea Camilleri, La novella di Antonello da Palermo, Guida

Si diverte da par suo il papà di Montalbano, a scrivere come fosse Boccaccio una “novella che non poté entrare nel Decamerone” e che immagina di aver trovato fra le carte di Giovanni Bovara (immaginario studioso del Decamerone), il quale a sua volta sosteneva di aver trovato il manoscritto originale in Tirolo o giù di lì. Gioco nel gioco, dunque, un doppio apocrifo: la collana degli “autentici falsi d’autore” comprende infatti libri che potrebbero essere stati scritti da… e invece sono scritti alla maniera di… però nella lingua di un autore (quello vero) che finge di usare la lingua dell’autore fittizio, facendone in qualche misura la parodia. Questa esemplare prova narrativa di Camilleri  alla maniera di Boccaccio (veramente boccaccesca!) è forse il coronamento di una lunga attesa: è nelle sue corde il racconto garbatamente erotico, essendo più volte trapelata nei suoi romanzi – e lo stesso commissario Montalbano non ne è esente – una certa compiacenza nell’accenno a situazioni morbose (a volte sfociate in esplicite, conturbanti esaltazioni – da placare con un bagno a mare). Qui, con la copertura di tanto nome/nume tutelare, l’esplosione dei sensi è totale; nel doppio gioco delle parti in cui si caccia l’autore e caccia pure il suo personaggio alla fine questi salta su come se appunto l’autore, dopo tanto misurarsi abbia perso (volontariamente) la misura dell’etica, nel trionfo e nel godimento della beffa estrema. Può essere che “qui tutta sa di ricerca, di esperimento” (come è scritto nella conclusiva “nota al testo”) – ma è detto di Boccaccio e ovviamente riguarda l’autore stesso della novella di Antonello! È lui che costruisce nuove formule per aderire allo stile che ha voluto imitare. Che sfizio! E che bello vedere il sorriso aleggiare dietro l’abituale fumo sul volto di Camilleri… se la ride stavolta, e ha accettato senza dubbio con gusto di scrivere questo apocrifo per Guida. Se ne fa ricca la collanina che va crescendo di nomi e di imprese. Saffo e Platone, De Sanctis e Wittgenstein, Tasso e Cartesio: grandi nomi che rivivono nelle pagine di oggi per avvicinarci senza remore all’ieri che abita comunque in noi.

***

Michel Cassir, Houda Kassatly, Beyrouth, Al Ayn

 Cassir

È proprio vero che l’uomo – quando ci si mette di buzzo buono – è capace di sorprendenti risultati in ogni campo… anche nel distruggere le sue stesse creature, non casualmente ma scientificamente, consapevolmente, non vittima di un raptus incontrollabile (magari perché ha deciso che un quartiere storico di Beyrouth debba essere demolito per far posto a nuovi edifici di edilizia residenziale). Così questo libro è straordinario nel raccontare, con immagini e parole, quanto stupido sappia essere l’uomo che distrugge una città, la sua città, che è la sua storia. “È un libro – scrive Michel Cassir nella sua prefazione – che ci ferisce ma nello stesso tempo affascina… È una storia d’amore, di dignità”. D’altra parte, è col passato che bisogna fare i conti, è il passato che nutre il futuro (e la fotografia “permette di ricostruire il sogno, arma del futuro”). È Beyrouth la protagonista, in un “clair de ruine” che nel sottotiolo allude forse a un romantica musica di sottofondo, alla morbida atmosfera che nelle foto (splendide, vive, di Houda Kassatly) spesso si coglie, malgrado il degrado. Nonostante la distruzione in corso… Qui assistiamo a un “ballo di fantasmi” – e in sottofondo come musica andrebbe meglio una “danza degli spettri”. È un libro, letto nei versi e nelle riflessioni di Michel Cassir, che deve farci riflettere, deve indurci a considerare che fatti non fummo, eccetera – e invece è lì che andiamo a finire, alla brutalità, alla cieca violenza che strazia. Sfogliando e sfogliando queste pagine, non possiamo evitare di sfogliarle ancora: il magnetismo della luce, dei colori, delle superfici, dei vuoti è stupefacente – un vortice di sensazioni scaturisce dalla incredibile variazione sul tema: disfacimento (ma statico, fermato nel tempo dall’obiettivo e consegnato al nostro sguardo – fissato pure nelle parole che a loro volta leggono e fanno leggere). Si aggiunge la spesso lancinante, sempre pungente forza delle parole che accompagnano le foto, a volte ironica, a volte paradossalmente icastica: è l’ossimoro della sinestesia. I sensi che si scontrano e non vorrebbero.

***

Ennio Cavalli, La cosa poetica, Archinto

Con elegante ironia, Ennio Cavalli disillude il lettore che si aspetta chissà quale viaggio, visto che il sottotitolo di questa sua cosa poetica appunto allude alle avventure di un detective, cioè ad un’impresa notevole, realizzata a partire da indizi e risolta in agnizione di reo… Ma non si va a caccia di delitti, qui, anzi, ci si offre a ventura di incontri – si squadernano, con apparente nonchalance e insieme con sentita partecipazione umana, vicende private proposte ad esempio, aneddoti altrettanto esemplari, colte definizioni linguistiche e provocazioni lessicali, citazioni e divagazioni. Tutto con la leggerezza che solo chi ha scritto la favola di Po e Sia sa come usare (magari con uno sberleffo à la Palazzeschi), anche scrivendo un lavoro a programma che poi programma non è – chiaro fin dall’inizio che si tratta di un viaggio (nell’imprevisto ma pure nel prevedibile), nei domini vasti eppure conosciuti/conoscibili della scrittura, del fare poesia, dell’essere cosa poetica che vive nel suo dirsi… In queste pagine c’è da cogliere in abbondanza, a saziarsi anche gli incontentabili, c’è da raccogliere una messe di suggerimenti, suggestioni, da farne indigestione. Ma lo scaltro autore di questo libro, giocando da par suo fin dal titolo (ampiamente giustificato, peraltro), si propone proprio di apparecchiare una tavola alla quale ci si possa servire a piacimento, o, anche, per necessità. È un teatro interiore, quello che Cavalli allestisce per noi, chiamandoci a partecipare, facendoci consapevoli e compartecipi di un disegno letterario insolito eppure addirittura banale nell’impianto: le riflessioni di un poeta sul fare poesia (bella forza!), trasformate però quasi in un’autobiografia, farcita peraltro di rimandi ad altre biografie di riferimento, affinché il lettore sappia sempre che si tratta comunque di exempla, di inviti a riflettere attraverso modelli che hanno funzionato e dovrebbero ancora funzionare, se applicati al meglio. “Il lettore è l’altra metà dell’opera”: l’abbiamo già sentita, ma il poeta aspetta sempre qualcuno che gli porga l’altra guancia – solo così ha senso e fine l’operazione dello scrivere, soltanto se la cosa da privata diventa pubblica, diventando un po’ altra cosa da quel che avevamo in mente, ma prendendo altra vita, vivendo oltre la nostra.

***

Guido Ceronetti, Sono fragile Sparo poesia, Einaudi

 Ceronetti

I grandi vecchi a volte rompono le scatole, stanchi dell’abitudinario conformismo per cui le scatole devono rimanere allineate secondo un ordine che piaccia o non dispiaccia a chicchesia. Ma loro appunto se ne infischiano di chicche e anche di sia (come direbbe Totò), e dicono quello che pensano. Ne hanno l’autorità e se ne assumono il rischio, come il grande vecchio (e grande irregolare) della poesia italiana Guido Ceronetti. Da svariati decenni, l’autore di Un viaggio in Italia, Ti saluto mio secolo crudele, Trafitture di tenerezza  va componendo un suo compatto diario letterario (prosa e poesia, teatro e giornalismo), sempre con l’occhio attento a come gira il mondo. Questa nuova antologia poetica nella “bianca”, preziosa fin dal titolo, Sono fragile Sparo poesia, “propone quanto all’autore stesso sembra la migliore testimonianza” del suo lavoro, del suo formulare “qualche ideogramma di compassione, di ricordo, di desiderio della luce”. Ceronetti attinge ai suoi non molti ma tutti significativi libri di versi, da Compassioni e disperazioni, La distanza, Gineceo, Scavi e segnali… Lo scopo è dichiarato in premessa: “che questa scelta di quanto ho fatto per la poesia italiana trovi le vie del cuore di tutti quelli, ignoti, ai quali sarà stata dedicata”, e l’epigrafe da Rilke, “Poesia è esistere”, sviluppa quella dichiarazione programmatica, legandosi pure alla chiusa della prima poesia antologizzata: “Che una poesia capace li raccolga sulla lingua della sua lacrima” – e allude a quanti saranno in grado di gustare, partecipando al banchetto. C’è di tutto, in questa cornucopia che versa a profusione la quintessenza di una vita: Ceronetti, si sa, ha sempre giocato con un lessico scelto di estrema pregnanza, stili e forme di cangiante arditezza linguistica e retorica, temi privati e sociali attraverso i quali ci accompagna (Diogene e Caronte insieme) in cerca del fine cui dovremmo tendere se davvero sapessimo di essere chi siamo. Forse “l’Amore Infinito” che tutti ci aspetta potrebbe essere la chiave di tutto il nostro vagare e divagare, finanche delle sciocche presunzioni che segnano la nostra “bieca Italia di congiura” nella dantesca invettiva immaginata per l’infelice Eluana (“bandiera persa qui nel gelo sola”).

***

Hélia Correia, Bastardia, Caravan

Correia

Un’allucinata corsa verso l’azzurro che è la fonte (e la fine) della vita – una estenuante ricerca di sé nella radice inconoscibile: un padre mistico al quale si desidera tornare (ma è piuttosto come una ascesa a ritroso nell’utero generante). Bastardia, della scrittrice portoghese Hélia Correia – già tradotta in Italia -, è un piccolo stupefacente libro, di quelli che forse riescono solo ai lusitani, ai quali è concesso di respirare il sogno del viaggio anche senza viaggiare. L’autrice riesce a coniugare il chiarore della vita – che però si direbbe caravaggesco, nei suoi contrasti vivissimi di luci e ombre – con la miseria del disfacimento e della morte, quando il fuoco dell’esistere si scurisce e si incupisce come in un quadro desolato di Goya. È un piccolo capolavoro, Bastardia, ed è una storia compatta, che si srotola coerente e non si può nemmeno leggere a capitoli, tale e tanto forte essendo la spinta centrifuga che proietta il giovane infelice protagonista a fuggire due volte dal comune appartenere all’umanità: il suo definitivo farsi azzurro dà il senso di una illuminante verità all’inquietante angoscia di cui ha vissuto. Hélia Correia tocca in questo suo lavoro narrativo un deciso vertice di inventiva – la suggestione della sua storia, incredibile (ma costruita come fosse verisimile), lascia incerti nel giudizio – o bisogna essere esperti di letteratura iberica per classificare i meriti di un libro così concepito. Cogliere messaggi dalle sue pagine è facile come perdersi nel gioco delle vicende – non ci si può distrarre, eppure ci si sente catturati, travolti infine dalla passione che lei comunica.

***

Andrea Cortellessa, Le notti chiare erano tutte un’alba, Mondadori

Attualissima, e opportunamente ristampata, l’Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale curata da Andrea Cortellessa: vi si possono leggere, in tempi di celebrazioni (più o meno retoriche, è inevitabile, ma pure necessariamente storiche) del centenario, alcune fra le voci più pure che si ispirarono agli eventi drammatici della Grande Guerra. Nelle fitte e documentatissime oltre 500 pagine sono raccolti però non solo i più noti Marinetti e Saba, Ungaretti e Montale, Alvaro e Sbarbaro… tutti i poeti più importanti del Novecento italiano che alla guerra presero parte; insieme a loro compaiono minori e minimi nomi che pure hanno lasciato una testimonianza di quella immane tragedia (versi d’occasione, a volte, appena dignitose espressioni liriche, ma sempre col piglio di chi non vuole, non può tacere di fronte all’esaltazione e poi allo sconforto). Le notti chiare erano tutte un’alba, il titolo del libro, è un verso di Montale (da “Valmorbia”, in Ossi di seppia), ed è un titolo di speranza, aperto al futuro di luce che si aspetta dopo il buio della desolazione, della paura, della rabbia. Forse meglio sarebbe stato prendere in prestito l’ungarettiano “Ho tanta stanchezza sulle spalle” (da “Natale”, poesia peraltro non inclusa nel volume). Cortellessa ha suddiviso l’ampia messe dei testi scelti per la sua ricostruzione lirica in dieci sezioni più due (“La guerra-festa”, “-cerimonia”, “-riflessione”, “-lutto”, “la guerra lontana”, “la guerra ricordata”…): è così possibile farsi un’idea non scolastica, fuori da certa iconografia ideologica, di quel che significò l’esperienza bellica per gli intellettuali italiani. Quelli che al fronte ci andarono e quelli che rimasero a casa, coloro quindi che scrissero in trincea, soffrendo direttamente il dolore dei combattimenti, e coloro che ne ebbero notizia, ne ricevettero l’eco, eppure parteciparono: significative certe espressioni di Gozzano e Bontempelli, di Buzzi e Trilussa, a parte ovviamente il focoso d’Annunzio, il futurista Soffici… Una piccola bibbia della parola in guerra, una specie di “come eravamo” poetica, che è insieme un libro di storia e geografia, sociologia  e psicologia. Qui l’uomo, l’uomo italiano di un secolo fa, si mostra senza veli, senza schermi e persino fuori dagli schemi: qui la carne è debole e l’anima vacilla. La Storia, quella con la maiuscola, finisce anche da parte: le piccole vicende di ciascuno la sommergono nel canto sommesso che ne scaturisce.

***

Paolo Ciampi, Beatrice, Polistampa

Paolo Ciampi fa il giornalista (ufficio stampa della Giunta regionale toscana: ufficio in Piazza Duomo a Firenze!), ma – o forse proprio perché è giornalista – ha un debole per le storie vere da trasformare in storie narrate… Così ha scritto Gli occhi di Salgari, così ha scritto Un nome (rievocando la vicenda della professoressa ebrea Enrica Calabresi), e poi si è incuriosito alla figura di Jessie White, l’infermiera dei Mille… e a quella di Beatrice Bugelli. Costei (alla quale ha dedicato il libro Beatrice, pubblicato l’anno scorso da Polistampa) era una pastora analfabeta vissuta tra il 1803 e il 1885. Ma fu acclamata poetessa da alcuni intellettuali di spicco della sua epoca, tra i quali il Fucini e il Tommaseo – che non è dire poco (a parte Ruskin e qualche altro ancora). A lei Ciampi, scrivendo in prima persona, dedica una accorta ricerca umana e culturale, facendo vivere lo straordinario personaggio negli ingranaggi della vita letteraria della Firenze un po’ snob – anche capitale d’Italia! Così costruisce a modo suo una credibilissima storia vera, calandosi nei panni e nei sentimenti della “poetessa montanara”, citando a più non posso dalle sue strofe ricche di profonda umanità (come a dichiarare che davvero poeti si nasce)… Chi voglia comprendere come si possa fare di una persona semplice e “diversa” un caso – come oggi usa tantissimo, ahimé (ma non abbiamo inventato niente) – legga questo libro di Paolo Ciampi, partecipi insieme a lui a una scoperta di vita.

***

Tito Barbieri e Paolo Ciampi Caduti dal muro, Vallecchi

Appassionata rivisitazione di quello che una volta si disse il Comunismo reale, Caduti dal muro di Barbieri e Ciampi è un esempio riuscito di cronaca calata nella grande storia. Barbieri (già sindaco di Cortona del PCI) compie una lunga serie di viaggi nei Paesi una volta comunisti (ex-URSS, Cina, Vietnam etc…) in cerca di verifiche, ma soprattutto di risposte alla domanda che si porta addosso, come un vecchio vestito di cui non ci si riesce a disfare. “Ma come, mi domando, si poteva essere così incapaci di vedere?” – e lo dice uno che è stato “dentro”, che avrebbe potuto avere gli occhi aperti… eppure: “oggi è come se da allora fossero trascorsi anni luce”. La chiave di lettura di questo volumetto (formato compatto, bordo arrotondato, una specie di libretto rosso da portare in tasca e meditare continuamente) è proprio in quelle affermazioni a confronto. C’è stato un tempo in cui si preferiva non vedere, ma per fortuna è molto lontano. Certo, i segni ci sono, in giro per il mondo se ne colgono parecchi, a indicare le contraddizioni di un’epoca che pure si credette (quasi) infallibile. Barbieri viaggia e scrive mail all’amico Ciampi, anch’egli scrittore (importante un saggio su Salgari appena uscito), il quale – più giovane e quindi meno esposto al rischio dei rimpianti – risponde con le sue riflessioni e precisazioni alle osservazioni, a volte confessioni, del più anziano “compagno di strada” (le contrappunta, a volte) con acute motivate argomentazioni sul quotidiano: alla storia appena passata, che in parte è stata la grande Storia del Novecento, si contrappongono le piccole storie (ma esemplari, anche queste!) di tanti piccoli uomini che hanno camminato con le loro gambe e pensato con la loro testa. Caduti dal muro diventa così un dialogo-dibattito che si può considerare aperto… è aperto al contributo morale di chiunque si senta in grado di aiutare il prossimo a capire la natura umana, specie in tempi duri, difficili, dolorosi. È sempre possibile, infatti, che l’uomo sappia riscoprirsi tale, anche quando sembra troppo tardi.

***

David Cibecchini, L’Arcobaleno, La stanza del poeta

 Il linguaggio che usa Cibecchini è soltanto in apparenza immediato, poiché lascia trapelare lo studio (fosse pure inconsapevole) sui legami e i significati verbali. La freschezza del dettato nasconde senz’altro un lavoro di elaborazione personale – c’è in definitiva (se non il labor limae) il labor animi, ed è quello che fa la poesia. Si avverte leggendo la sofferenza dell’autore che vuole comunicare, e cerca il modo di farlo, poiché sa che deve, e non può tenersi dentro le sue intuizioni. Le sezioni in cui si articola il volume dicono già delle sue intenzioni poiché, con una certa dose di coraggio, essendo alla sua prima prova pubblica, vuol farci conoscere chi è e che cosa pensa, non soltanto perché pensa di essere capace (magari nemmeno è presuntuoso come dovrebbe essere un artista, non certo come lo sono certi neofiti da sbarco), ma vorrebbe anche essere ascoltato. E questa, che in qualche modo è pure presunzione – etimologicamente almeno! – questa è una forma di poesia: quando si hanno idee e le si vuol comunicare, bisogna anche cercare di toccare il bersaglio grosso dell’attenzione. I titoli delle sezioni dell’Arcobaleno di Cibecchini, in fila come sono, sono un concentrato della sua visione del mondo, e della sua rappresentazione dello stesso in poesia (è soltanto un po’ strano che ponga “la Natura” dopo “l’Amore” – e non prima, subito dopo “l’Origine”, ma altrimenti l’ordine è giusto: origine, amore, natura, gioventù, guerra, saggezza). Significativo in ogni caso che al termine del volume, comprendente 50 poesie, l’ultima abbia proprio il titolo “Poesia” (la prima era invece “L’Arcobaleno”, come il titolo complessivo). Gioco scoperto, dunque? Ma no, magari adesso l’autore ci confessa che non ne sapeva niente, che non l’ha fatto apposta, che può anche darsi è un errore di stampa (e mi incolpa pure per aver controllato male in tipografia…). Non importa, non deve saperlo l’autore quel che c’è nella poesia – o rischia di non essere poesia – è meglio che lo scopra chi la legge: la poesia è di chi la legge, molto più di quanto appartenga a chi la scrive proprio per affidarla ad altri, no? se no, se la terrebbe nel cassetto o nella memoria del suo elaboratore.

D’Agostino – D’Amato – DeAndré – deMagistris – DeSilva – Defelice – DeFilippis – DeLeo – De Luca Em. – DeNapoli – DeLuca E. – DeVivo – DiMonda – DiBiasio S. – Di Stefano – Drano

Luciano D’Agostino, L’Amore che non muore, Ciolfi  

L’apparente fragilità strutturale di questo delicato libretto dedicato all’amore, L’Amore che non muore di Luciano D’Agostino, è segno invece (e segnale) di una malcelata volontà, si direbbe didascalica, a beneficio dei neofiti (e non solo). E lascia cogliere e si risolve infine in una densità tematica indicativa di consapevole passione. Le quaranta brevi e brevissime composizioni della silloge – in una specie di viaggio (mai tardivo, se affrontato con la giusta dose di umiltà da apprendista) che è un viaggio di conoscenza, quasi di iniziazione all’amore – esprimono quanto l’autore abbia accumulato di esperienza sul campo, quanto abbia appreso, e sa che ancora ha da apprendere. Non è mai tardi per imparare che un cuore innamorato “non teme il naufragio”, se il mare da navigare è “la tempesta dei tuoi baci”. Forse tardi ci si rende conto di essere “nomadi inconsapevoli che scalano i cieli”, ma fin dall’inizio il poeta sa (e questi versi fanno da epigrafe alla raccolta): “Noi siamo le parole sulle labbra della notte e degli amori”. Non muore l’amore, se c’è un cuore che lo canta, un poeta che lo scrive… D’Agostino ha cuore di poeta e se ne fa quindi araldo, impenitente nella maturità che pure vive come “un’estate che acceca il passato”, e – lontano da tempi esaltanti (e pericolosi) – “si fa beffe del dolore”.  È chiaro alla fine che non solo d’amore si tratta, di quello dei sensi, dei sentimenti, di quello che normalmente consideriamo tale, ma L’Amore che non muore di Luciano D’Agostino è universale, è l’amore per la vita, per il mondo, per l’umanità che ci circonda, che siamo, tutti. Così è chiaro perché alla fine del libretto c’è un testo come “La barca”, che si chiude con una lancinante verità: “ogni volta che muore un bambino [si strappa] un pezzetto di cielo”, se “uomini sordi” stanno, “ciechi marinai”, sulla barca che è il mondo, e soltanto dall’amore può essere guidata.

  ***

Federica D’Amato, Avere trent’anni, Ianieri

D'Amato

I traguardi ognuno li fissa quando vuole o quando ritiene che sia opportuno, quando “gli servono”. Come i bilanci. Ora che vanno di moda i politici e i poeti “ragazzini”, e a noi ci rottamano, i bilanci si fanno già a trent’anni… forse è un tantino presto, converrebbe aspettare che più lungo sia il passato per valutarlo, specie quello artistico. Però è bello pensare che almeno i giovani ci facciano partecipi dei loro bilanci: chissà, magari si fidano, ascoltano anche quello che diciamo, e perfino potrebbero darci la grande soddisfazione di capire e accettare quel che diciamo. Eccoci dunque di fronte a Federica D’Amato (che intanto, prima ancora di Avere trent’anni, ha già pubblicato altri libri): può “servire” a qualcuno la sua poesia? Fare un bilancio insieme a lei aiuta i nostri giorni ad essere migliori? È una poesia di finta nonchalance, la sua, di apparente immediatezza – nel presentare argomenti, situazioni, emozioni, rapporti. Un’ardita spericolata scansione di versi costringe a correre spesso in cerca di un approdo, almeno un appoggio, che – solo a volte, per fortuna – non c’è, o è nascosto così bene da sfuggire all’analisi sommaria del testo. Ma qui è proprio la parola la salvezza, nell’incalzare degli anni che impongono accurate indagini esistenziali o perigliose accelerazioni di percorsi pur prevedibili e non per questo agevoli. Qui, ora, bisogna fare i conti con quello che si vorrebbe dire e non si sa bene come dire. L’interlocutore ideale sembra nascondersi, scontroso o scherzoso, e varrebbe anche la pena sforzarsi ancora un po’ per accattivarsene le buone intenzioni – ma più forte è il desiderio, la volontà, l’urgenza di non farsi del male, di restare nel guscio (la parola/nido). Il laboratorio del fare è interdetto a chi non sappia o non voglia o non riesca a manifestare disponibilità d’animo. Non a tutti è consentito l’accesso: qui si lavora per costruire un futuro, o ricostruire una identità che gli anni mettono in dubbio. Qui “accade proprio questo”: ci si mette in discussione, forse anche in gioco – e la posta è ben alta, è “entrare nel tempo e segnare per sempre” (un gol per la storia).

***

Fabrizio De André, Alessandro Gennari, Un destino ridicolo, ET

Chi l’avrebbe detto? O forse sì… Che Fabrizio De André fosse anche uno scrittore di qualità (sia pure con l’aiuto di Alessandro Gennari: Un destino ridicolo, Einaudi, appena ristampato dopo la prima edizione del 1996) lo si poteva forse immaginare, per la messe di storie minime raccontate nelle sue canzoni migliori. Ma vederlo in copertina davvero fa un certo effetto. Come fa un certo effetto leggere un romanzo – breve ma densissimo di eventi e personaggi (uno dei quali si chiama Fabrizio e fa canzoni di successo, un altro è un Alessandro…) – avvertendo chiara la vena personale che alimenta qua e là una trama ricca di colpi di scena. Fino allo stupefacente, tristissimo, finale. E sembra una di quelle canzoni alle quali ci ha abituati l’indimenticato De André, con le sue puttane di Via del Campo, con la sua Crêuza de mä, con le mille facce del suo privato Spoon River. “Santi, vagabondi e mascalzoni convivono in questo romanzo…”, è scritto in copertina – forse proprio santi no, ma spesso anche i malfattori compiono una buona azione che li redime, e i vagabondi finiscono per trovare qualcuno che offre loro il modo di fermarsi. I casi della vita, in un piccolo ambiente come quello del quartiere di Genova in cui si ambienta la gran parte della storia, sono casi piuttosto banali e perfino squallidi. Chi ci vive, e sono i protagonisti di tante canzoni di Fabrizio De André, vive povere esistenze illuminate a volte da una fortuita apparizione di umanità. Sarebbe interessante sapere fino a che punto Gennari è intervenuto nel lavoro di scrittura o di revisione del testo.

 ***

Domenico Defelice, Nicola Napolitano, Pomezia notizie

Uno di quei libri che una volta si sarebbe potuto scrivere con facilità, un epistolario fra intellettuali… una cosa ormai sempre più rara. Invece Domenico Defelice – poliedrico scrittore calabrese attivo per decenni nella promozione di eventi culturali – ha sempre conservato le lettere che gli inviava Nicola Napolitano e qualche anno dopo la morte dell’amico ne ha fatto un libro. Quella tra Defelice e Napolitano – anch’egli scrittore polivalente – fu un’amicizia trentennale, vera, fraterna, malgrado la differenza di età. Rispettando una promessa fatta in realtà a se stesso, ma certo di interpretare i sentimenti dello scomparso, l’autore di questo commovente ricordo pubblicato nella collana “Il Croco (i quaderni letterari di Pomezia-notizie)” compie in effetti un’opera altamente meritoria. Sparse nelle varie lettere, si trovano considerazioni sociologiche (e pedagogiche, in senso lato), riflessioni sul fare poesia e sulla vanità della speranza di poter con quella cambiare il corso delle cose. C’è, spesso, e più nelle ultime, la consapevolezza di trovarsi ai margini della società, che mal sopporta gli spiriti liberi. Discorso ovviamente ancora attuale, e bene ha fatto Defelice a riproporcelo nelle parole accorate del professore-poeta Nicola Napolitano, attento a quel che gli succedeva intorno eppure distaccato nel formulare giudizi mai di parte, piuttosto ispirato ad un superiore spirito di umana fratellanza. Il “quaderno” curato da Defelice comprende una sua doppia introduzione: “Poeta e scrittore innamorato della terra” (breve raccolta di scritti già apparsi in rivista) e “Sette brani tra natura e sociale” (analisi di testi esemplari). In definitiva, un atto d’amore, nato dalla riconoscenza per il continuo supporto affettivo che emerge dalle lettere qui raccolte: l’anziano scrittore non perde occasione per incitare il giovane ad avere fiducia in se stesso, prima che negli altri (fiducia che a lui personalmente comincia a venir meno), a scrivere e testimoniare come sa fare (com’egli stesso è sicuro di aver sempre fatto) – quasi uno specchiarsi di due personalità (sofferte esperienze esistenziali provenienti da un ambiente simile), in cerca di una risposta difficile alla inevitabile domanda: cui proderit? Defelice almeno pensa che pubblicare queste lettere contribuisca a rilanciare una sfida – bisogna sperare che altri la raccolgano: credere in sé non sempre basta, ma continuare a crederci aiuta a vivere.

***

DeFilippis Rosalba De Filippis, Il filo forte del liuto, Campanotto

Molisana di Macchiagodena, che non disdegna di scrivere poesie per la sua terra (“sono donna del Sud”), Rosalba De Filippis vive a Firenze e pubblica con l’editore Campanotto di Udine. Ha al suo attivo, prima di questo Filo forte del liuto, per lo stesso editore, Sotto nevi di carta (del quale “possiede una capacità di fascinazione maliziosa” scriveva Renzo Ricchi). Una eccezionale compattezza è il carattere di questo piccolo libro che comprende una cinquantina di testi: persone cose umori sentimenti si affacciano in una insistita variatio mantenendo però continua la tensione espressiva, che è linguistica e si direbbe ideologica. L’autrice sa bene qual è il modo in cui tenere alto e costante il tono del suo discorso, anche se (e a volte malgrado) si affidi a un gioco che non sempre è condivisibile. Ma Il filo forte del liuto alla fine suona proprio come deve, e tiene duro in pugno l’animo del lettore che se ne lasci catturare. E non è difficile, per la bravura della De Filippis. Mente curiosa, la sua, che analizza e scortica gli avvenimenti (e le stesse figure umane) in cerca di legami profondi ai quali demandare la speranza di un miglior esito al bailamme quotidiano. È una donna inquieta nel guardarsi intorno, e anche dentro; e lo sa e lo dice e si aspetta risposte non occasionali. Il procedere del suo dire è franto, sincopato in più punti, eppure fa trasparire una disarmante chiarezza di intenti: non le si può negare la mano amica che chiede. Fra arditezze linguistiche e sottintesi nemmeno troppo nascosti si sfiora spesso e si tocca l’arbitrio (esempio: la punteggiatura, a volte è poca a volte è troppa). Si gioca a rimare ma in modo poco ortodosso, e ricorrenti parole chiave fanno emergere una trama tematica e inseguimenti sonori e semantici da sgrovigliare e svelare (“nastrini di carezze ingarbugliate”) in un amplesso verbale che allude (o testimonia in ambiguità di ritrosia) anche laddove si potrebbe tacere o glissare fingendo indifferenza. Ma la curiosità ha sempre il sopravvento – ed è curiosità di donna e di artista. Spirituale e sensuale insieme, tocca un vertice in “Povero Gesù”, in cui occhieggiano simboli rischiosi, giocati tra ossimoro e analogia. Da condividere la nota introduttiva di Franco Manescalchi: “una poesia fatta di sospensioni e ripartenze, di immagini che si sublimano in parole e di parole che sconfinano in improvvise emersioni di geografie interiori”…

***

Angela De Leo,  Trattenendo il respiro, Secop

Anche nei “quarantanove ” di Hemingway ce n’è qualcuno più debole, così capita in questi 37 racconti di Angela De Leo… È una fortuna che ci consente di apprezzare tutti quelli, la grande maggioranza, meglio riusciti e coinvolgenti (tenendo pur presente che apprezzare è soggettivo, che il gusto cambia nei diversi lettori…).  Ma ci sono – e sono frequenti – tra questi racconti di Trattenendo il respiro quelli in cui si accende una fulminante intensità lirica – come ci sono spunti narrativi brillanti, da strappare un sorriso e da convincere alla lettura. È un libro che merita di essere letto, da consigliare di leggerlo, da regalare. E viene da pensare, alla fine, che i pochi tasselli deboli siano messi lì apposta, a farsi voler bene come figli sfortunati da coccolare però come gli altri, da una mamma che lo sa, che il brutto anatroccolo diventerà cigno, ma intanto è bruttarello e dev’essere accettato com’è, e gli si deve voler bene come a tutti. L’autrice svela ascendenze psicologiche e sociologiche, rivelando una curata attenzione alle microstorie che fanno la storia – così, a volte, invece di scrivere un racconto (nel senso di narrazione di un fatto con personaggi e intreccio e soluzione finale della vicenda a favore di un protagonista…), invece di svolgere una trama e farcene partecipi, ci invita e ci porta a considerare insieme a lei quali potrebbero essere i motivi che hanno causato un episodio, quali forze abbiano spinto un personaggio… Ci costringe in definitiva a porci in discussione, noi stessi con lei, per stabilire o almeno comprendere non che cosa è successo, ma perché qualcosa stava per succedere o potrebbe succedere.

***

Spicchio

Rossella de Magistris, Uno spicchio di sole, Edizioni Eva

Cominciando a sistemare le decine e decine di poesie raccolte nello scorrere della sua esistenza, Rossella de Magistris ha deciso infatti di mostrarsi come donna, ricca di sé, del suo vivere stesso, della tenace volontà di vivere. E dirsi, certo, poiché scrivendo sapeva bene che prima o poi qualcuno avrebbe letto e scoperto, magari compreso, forse condiviso… la funzione del fare poesia è quella di partecipare e mettersi in comunione. Il regalo di queste quarantanove poesie è dunque appena un inizio, un primo sorso di vita vissuta e custodita sulla carta. Rossella ha selezionato e ordinato – senza troppo rigore, sembra, ma con la ferma convinzione di rendere manifesta una sua via, nella quale ha percorso i gradini non sempre agevoli del suo andare, costruendo e sperando, aspettando e risolvendo, spesso anche subendo lo schiaffo del tempo e della sorte, l’incomprensione e la delusione degli uomini. Ma comunque avanti, non è tipo da fermarsi sugli ostacoli: capace anzi di procedere pur nelle difficoltà e nelle intemperie, cui la vita ci spinge contro, anche inconsapevolmente – ma ineluttabile. Asprezza di toni e leziosità lessicali, durezza di forme, insistite ellissi: la vena lirica qui oscilla tra varie lezioni espressive, ma il tono generale è costante, essendo costante l’attenzione che Rossella de Magistris ha posto alle cose della vita, ai sentimenti del prossimo, abituata a tenersi dentro le osservazioni anche se sulla carta si assicurava che rimanessero a futura memoria, anche sua. E poi, adesso che la vita le pare pronta ad una svolta, rinnova il suo patto con il mondo, facendo i conti col passato e dunque catalizzando il brutto e il bello del suo vissuto. Incastonati nel fluire di immagini e sensazioni, certi versi isolati valgono la bellezza di questo libro: l’autrice si fa qualche volta prendere dal pathos dell’esistenza e ne risente l’armonia di qualche testo – o è da pensare che voglia proporsi proprio come ella stessa sente l’accartocciarsi della foglia esistenziale… Non ha pudore proprio perché non ha più paura di sé. Per evitare che “L’intera vita [sia] pagine scritte, / ma non su scaffale posate, / bensì al fuoco consegnate”, bisogna imparare a riconoscerla come una “Giostra senza posa [che] gira come vortice”: l’artificio poetico coglie momenti che si susseguono senza posa e ne registra – spontanea adesione – il valore di esempio. Perciò emergono – segnacoli imprescindibili nell’itinerario insieme umano e artistico – i ricordi della paziente tessitura (e delle smagliature, confessate anch’esse) di una complessa femminilità. Così, come uno “Spicchio di sole spacca le nubi”, sgorga dall’animo afflitto una parola che consola, che riapre e slarga e invita a percorrere di nuovo un sentiero dimenticato, una via sbagliata, una porta troppo a lungo rimasta chiusa. Ecco perché “Cerco” (uno dei testi più belli di questo libro) diventa un modo di essere, un desiderio di andare oltre, di non contentarsi al quia – direbbe Dante: bisogna cercare con la speranza non solo di trovare, ma perché nel cercare stesso è il trovare, la capacità di leggere nelle cose e scorgervi presenze e significati. La poesia di Rossella de Magistris, “Gabbiana stanca” che spinge “solinghi pensieri” verso orizzonti di sogno, è un bacio di sole, una lacrima di pioggia, un sorriso di alba nuova. Nella parola poetica, l’anima (“or nuda a meraviglia”) si quieta e il dolore del giorno appare cristallizzato e sopportabile: non è più un “pozzo”, l’animo, in cui celare i pensieri del male; è invece una “risposta condivisa” a chi sia capace, pronto, responsabile, al lettore cui si rivolge infine la musica soave di un palpito e da cui si aspetta però uguale forza d’animo nel decifrare i segni di un sentire comune. Intanto, sfogliando le pagine che sono il dono di queste poesie, possiamo essere certi che Rossella non ci lascerà: pegno di amicizia, ci offre stille di sua vita – genuine passioni di donna che subisce il fascino della parola poetica più di quanto voglia dominarla forzandone i sensi -, soffre nell’offrirsi scoperta delle difese dietro cui non vuole più difendersi, e vive con noi per essere la vita che vuole.

***

Francesco De Napoli, Carte da gioco, Osanna

 DeNapoli

Non la conta giusta – non del tutto, almeno – Francesco de Napoli in queste sue Carte da gioco. D’altra parte, non servono appunto a giocare, le carte, che si possono usare bleffando, barando … “Appena un po’ più a sud c’è sempre un altro sud”, per farci sentire meno legati di quel che siamo a una terra che ci offre meno di quel che sentiamo di me- ritare. E questo lo sa ogni emigrante che pure non vuole sentirselo dire! Ma dire “mai fui lucano” significa ben altro … C’è tutta una tradizione di cultura, una pesante eredità (con gli “incombenti” poeti che “ora mi posseggono”); c’è un mondo addosso che si porta con fatica ma tenendo le spalle dritte. Il peso è lieve, in fin dei conti, per quanta amarezza possa significare portarselo dietro. La sempre attualissima discussione sul tempo che passa (o non passa, secondo i punti di vista filosofici o scientifici) è antica come il tempo – in poesia può dirsi antica come la poesia. De Napoli ridà voce al se stesso di venticinque anni prima, ripubblicando insieme tre raccolte di versi, brevissime ma intense, quando già dall’uscita dell’ultima sono passati quasi dieci anni. Perché? Per cercare nel tempo di allora il se stesso di oggi (come opportunamente osserva Santoro nella sua presentaifone), verificando eventuali somiglianze scoprendo un’evoluzione che solo a distanza di tempo si può cogliere … È un po’ il gioco di tutti gli artisti: proporre personali letture esistenziali che siano guida o stimolo a prendere coscienza di sé. Il lettore dovrebbe giocare con queste Carte da gioco insieme all’autore e appunto (ri)mettersi in gioco anch’egli, in onestà. Francesco De Napoli offre la sua “Trilogia dell’infanzia” (rievocazione per nulla retorica e distaccata al punto da non apparire autoreferenziale) perché altri possa cibarsi del banchetto apparecchiato, perché il racconto del suo farsi uomo – con tutta la rabbia e la passione che gli vengono dalla consapevolezza del cammino percorso, da “uomo solo” – sia per lo meno un’ipotesi di come si possa crescere in fedeltà, mantenendosi arditamente in bilico fra l’ostinata volontà di mutare abito e l’innegabile retaggio di una forma mentis.

DeSilva

Diego De Silva, Mancarsi, Einaudi

Alla metà del libro non avviene l’incontro fra i protagonisti di questo Mancarsi che Diego De Silva organizza come un “giallo” e non può risolvere come un “rosa” – come d’altronde forse non vorrebbe. Poiché per lui “mancarsi” è appunto non riuscire a trovarsi, nemmeno sapere di potersi trovare. E non significa invece provare un sentimento di assenza per l’assenza, la mancanza di qualcuno – come pure in questa doppia storia che corre su binari paralleli si potrebbe verificare. E alla fine chissà… Il piccolo libro – ma quanto denso di pagine memorabili per la tensione dei dialoghi (veri, interiori o immaginati) e la forza descrittiva di ambienti e situazioni – alla fine sembra proporre quel che per le sue nemmeno cento paginette ha evitato schernito glissato… E allora? Ma non è la fine che deve importare, qui, ammesso che la si possa riconoscere come tale! È il succedersi di passi e tasselli sul cammino dei personaggi che si mancano senza saperlo e rischiano di non essersi trovati. Il libro è articolato in una partitura doppia: a capitoli alterni racconta le vicende parallele dei due (apparentemente) sfortunati/imbranati Irene e Nicola, vicende che ne fanno emergere progressivamente gli aspetti del carattere, che ce li fanno sentire – si direbbe con una frase fatta – “simili nella loro diversità”. Devono entrambi superare una perdita – diversa per gravità ma ugualmente fondante, poiché cambia la loro vita e impone nuove scelte, prima con difficoltà, poi con maggior sicurezza e fiducia. Ma è una fiducia al buio, figlia del caso, che infatti decide per loro. Il fatto è che la vita fa sempre le stesse proposte – bisogna avere la forza, il coraggio, la pazienza o la sfrontatezza di sapere quando vanno accettate, e quali. Essere pronti (dentro e fuori), a cogliere e sapersi cogliere, e non mancarsi.

***

Emanuele De Luca, Grognardo li Taverni e gl’altri conti da Campodimele, Quattropassi

Il libro di Emanuele De Luca suscita curiosità fin dalla elegante veste tipografica, e dal corredo di extra (la sezione culinaria e il CD allegato) che offre a chi non si accontenta mai e pensa che un libro – solo un libro – sia poca cosa da regalare… e invece questo Grognardo è un regalo bellissimo, ricco di sorprese. Ancor più appena si inizia a sfogliarlo, a scorrere le ampie pagine, spaziose e spaziate, che invitano a leggere le storie e le storielle che vi si incastrano, a familiarizzare – oddio, per questo ci vuole un po’ di benevola attenzione – con i personaggi e seguire l’intreccio linguistico espressivo lessicale – un po’ di attenzione ancor più benevola – che anima quelle storie e storielle. Emanuele De Luca si è senz’altro divertito e può darsi speri che si diverta anche il suo lettore – ma l’autore di un libro simile se non si diverte non lo scrive. C’è molto lavoro di preparazione lessicale e molta attenzione alla stessa costruzione della frase, ma soprattutto c’è il gioco di far parlare e di parlare una lingua mista e sorprendente – i calchi dal francese, dall’angloamericano, oltre le numerose espressioni dialettali, compongono una specie di avvincente, inquietante koiné. È un libro che andava scritto, uno di quei libri che è proprio necessario scrivere e far conoscere. Anche il lettore, con l’autore, può arrampicarsi fra le sue storie a volte sgangherate, e dare la mano a personaggi al limite dell’incredibile ma sono vivi e vivono le loro storie come soltanto loro potrebbero fare. Non c’è bisogno di leggere tutto il libro per capire il gioco dell’autore. Grognardo è senza dubbio il fulcro del libro, lui stesso e la sua storia che storia non è: qui si respira – in una ventina di pagine da mettere in cornice o bruciare per un accesso di rabbia iconoclastica – un’aria mefitica e salvifica; qui si coglie – oltre lo sberleffo continuo e irriverente persino in terra santa – un gusto amaro per la vita che è tale solo se goduta in pieno, corpo più che anima, anche se all’anima si finge di offrire ristoro. Grognardo in fin dei conti è l’anima stessa del luogo in cui scorrazza impunito e impenitente, ed è genius loci imprendibile e inarrestabile, accasato con i luoghi, figlio e padre al tempo stesso della sua terra, della sua gente, dello spirito di quella terra e di quella gente. Emanuele De Luca è di quegli scrittori che praticano la vita come fosse una scrittura, lo si avverte leggendo il suo libro e gustando insieme a lui i numerosi endecasillabi che si incontrano… Anche se di fronte a certe eccessive libertà viene voglia di prendere il vecchio lapis rosso e blu. Ma qui, se uno si mette a fare il professore o il purista, il lapis lo consuma subito – meglio divertirsi con Emanuele che ha certo le sue ragioni, a voler tirare così a lungo il suo esercizio letterario, chissà se e con quali intenti di imitazione, parodia o altre forme e maniere della retorica. Ed ha ragione soprattutto perché alla fine della lettura di Grognardo li Taverni e gl’altri conti si esce satolli e storditi, come da libagioni liquorose e pappatorie abbondanti, ma si esce appagati poiché la spesa è valsa l’impresa: un libro come questo è da conservare e sbocconcellare ogni tanto, e ogni tanto si accompagna con una frittata povera (con la vitalba, senza uova) o una ricca torta di mandorle… ascoltando, nel disco allegato, Dizzie Gillespie nella sua sardonica Salt peanuts, resa ancora più irriverente dalla contaminazione con i richiami dei pastori.

DeLuca E

***

Erri De Luca, In alto a sinistra, Feltrinelli

Nemmeno giovanissimo, Erri De Luca non ha sulle spalle una lunga militanza di scrittore, ma nell’arco di una decina d’anni o poco più ha inciso nel suo lavoro (come in questo volumetto pubblicato da Feltrinelli) il segno di una letteratura fatta di carne, di vita vissuta e non banalmente fatta pagina scritta, anzi, ma rivissuta nella parola per essere comunicata e lasciata in eredità, come pure nel recentissimo Come noi coi fantasmi scritto insieme a Bolaffi sulla memoria del ’68 (Bompiani). Di padre in figlio. Fortissimo (e pregnante nella sua esemplare valenza pedagogica) il legame col padre, di quelli che giocano contro il tempo e ne diventano pilastro fondante, come le parole sulla pagina, appunto, perché nei libri cresce il futuro, nel colloquio tra il passato e il presente. “Le pagine che cerco – scrive altrove De Luca – hanno questo effetto: un paio di occhiali giusti sul naso di un bambino che fino a quel momento non aveva mai saputo di essere miope”. Perciò leggere è crescere, perché consente (non soltanto ai bambini miopi, è ovvio) di scoprire con più attenzione i particolari dell’esistenza che prima erano sfuggiti. Tra vecchio e nuovo, i libri parlano la lingua di un padre affettuoso che insegna come può, quel che sa: i segni di una vita e le paure, le ferite nell’anima, le speranze riposte e  l’augurio di una vita migliore, lo slancio e le premure, parole di carne che fanno crescere nel sangue del figlio la voglia di crescere per essere padre e donare parole… E perciò pure si scrive.

***

Erri De Luca, Pianoterra, Nottetempo

“La cosa migliore che ho potuto fare nei miei quarant’anni”: così De Luca ricorda l’esperienza in Bosnia, volontario di pace. Erano i primi anni ’90, alla fine del secolo scorso, e da quei viaggi umanitari nacque un primo Pianoterra intriso di umana compassione (pubblicato nel ’95). Il desiderio di una nuova testimonianza nacque probabilmente sotto le bombe a Belgrado nel maggio del ’99. Rivisto e risistemato, il vecchio lavoro rinasce, molto accresciuto e nuovo ma fedele al primo: il punto di vista rimane quello del Pianoterra, del marciapiede, da dove meglio si considerano le prospettive umane e pure si possono “sbirciare” i grandi eventi nei loro riflessi quotidiani. Emblematica e al tempo stesso intimistica rappresentazione di come De Luca intende costruire la sua denuncia è l’episodio del mendicante e dell’operaio che si incontrano “al pianoterra di un marciapiede”. De Luca manifesta, con l’abituale discrezione (e con l’abituale rabbia anticonformista), la sua pietà che non è quella “esibita all’ora di pranzo” nei telegiornali – la pietà “è un gesto accidentale” – non vuole audience. Soprattutto la pietà va portata direttamente a chi ne ha bisogno, e lui va in Bosnia, a Mostar, dove la tregua è sfondata ogni giorno e c’è bisogno ogni giorno di sollievo, di aiuti materiali. Senza enfasi da protagonista, ma con la pacata intensità che gli è congeniale, della sventurata città di Mostar può dire: “la amo: non una riva sì e l’altra no, ma tutta” (ed è certo da condividere, chi voglia resistere al male della guerra, alla stupida cecità di certe guerre, ancora). Nel libro quindi le riflessioni sul paese in guerra, le descrizioni di incontri e sofferenze, incomprensioni e violenze, si alternano a quelle sugli avvenimenti privati componendo un grande quadro sociale e culturale. La seconda parte di Pianoterra spazia infatti tra Napoli e Palermo e altrove (pensoso il paragone Renzo-Charlot): “nel mondo c’è più sud che nord” potrebbe essere un sigillo aforistico per un lavoro intriso di malinconia (“oggi siamo persecutori e carcerieri di emigranti”). De Luca continua a colpire basso, appunto, a livello marciapiede o poco più su, con la speranza di cogliere in fallo la coscienza (sporca, in genere) del lettore benpensante.

 ***

Maria De Vivo, La saletta rossa 1963-1974. dieci anni d’arte alla Guida, Guida

Chi non ha fatto in tempo, chi c’era e ricorda, chi stava invece già dimenticando… questo imperdibile volumetto di Maria De Vivo, La saletta rossa 1963-1974. dieci anni d’arte alla Guida, farà contenti tutti, facendo rivivere, anche e soprattutto nella voce di chi fu artefice della coraggiosa e riuscita iniziativa, l’esaltante, pionieristica stagione della “saletta rossa” a Portalba. Che non era quella di ora, si sa, e fu teatro di una intensa attività espositiva soprattutto nel campo delle arti visive, promuovendo e ospitando quanto di meglio in quegli anni di grande fermento era possibile vedere in Italia, e quindi non solo a livello locale. Dalla prima collettiva del dicembre 1963 dedicata alla “Nuova grafica portoghese”, fino al dicembre del ’74 con le collettive della Prop-Art… salvo qualche interruzione, nella galleria Guida furono testimoniati quasi undici anni del panorama artistico che spaziava da Aligi Sassu alla poesia visiva del Gruppo 63, da Bonito Oliva a Pascali e Aricò… Il lavoro della De Vivo ripercorre e documenta gli anni della “rossa” attraverso una notevole serie di documenti. Non soltanto i cataloghi, i manifesti delle mostre, numerose fotografie e la bibliografia relativa agli articoli apparsi su giornali e riviste, ma – ed è davvero un piatto forte – cinque interviste a coloro che fecero la storia. In primis, Mario Guida, che racconta come venne l’idea a un gruppo di intellettuali (Prisco e Bernari, Compagnone e Stefanile…) di organizzare incontri letterari in libreria, e subito dopo le esposizioni. Alle parole dell’attuale editore fanno seguito quelle di alcuni protagonisti dell’epoca. Pellegrino Sarno fu il “padre fondatore” della “saletta rossa” e ricorda quando la libreria Guida strappò alla più blasonata Minerva i suoi giovani frequentatori, invogliandoli appunto all’incontro con l’autore (“la saletta diventò una sorta di fossa dei leoni… l’oratore che veniva a discutere del libro costretto a rispondere a domande terribili”). Achille Bonito Oliva collaborò con Sarno e poi fu da solo a dirigere lo spazio espositivo, in realtà “impegnato su due fronti”, essendo anche poeta di avanguardia nel gruppo Operativo 64. LUCA, noto animatore di vari gruppi (“dadaista costruttivo”) tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta, portò in saletta la sua vena polemica e politica, fino alla provocatoria esperienza della Prop-Art, nata nei cortei e approdata in libreria con gli slogan e i tabelloni (“tentammo di fare dell’arte azione politica” racconta Franco Cipriano che insieme a LUCA diede vita nel 1973 alla Prop-Art).

***

Simone Di Biasio, Assenti ingiustificati, EdiLet

Basta il titolo a spiegare e giustificare questo libro, poiché il titolo del libro d’esordio del giovane Di Biasio rimanda al testo che – pur non essendo in posizione dominante – è il testo eponimo del libro e comunque ne espone il tema centrale. Simone Di Biasio pubblica Assenti ingiustificati proprio per dare una bacchettata sulle mani a tutti coloro che dimenticano l’importanza della scuola… Ma la scuola qui è madre natura e, come scrive Damiani nella prefazione: ricordiamoci di “andarci, finalmente, a scuola” – troppo spesso fingiamo di sapere e dimentichiamo il dovere di imparare sempre, anche ad essere semplicemente quel che siamo. Anche la citazione in esergo dall’amato de Libero consente a Di Biasio di tirare le orecchie al lettore, che non finisca a perdere il treno giusto mentre aspetta chi non sa riconoscere. Andiamo quindi a lezione dalla natura, perché ci faccia esperti delle “cose elementari e delle cose superiori”, e ci insegni soprattutto a non essere “distratti”. Almeno, forse, ci renderemo conto di “quale inizio stiamo distruggendo”… In questo libro, una sorpresa di piccola saggezza distillata in versi, si incontra l’uomo con le sue domande e le poche risposte. Si trova la società dei consumi che si consuma (com’era bella quella “Prima della tv”! – e non è l’unica frecciata contro); e si trova il desiderio di un desiderio che sia vero (un “sorriso” che restituisca “vita ai corpi”) e non finzione telematica (di che potrebbe stupirsi un redivivo Charlot: “nei tempi postmoderni” ci sono “vite che hanno sviluppato la finzione”, abitate dall’abitudine). In definitiva, conviene accettare l’invito di Simone Di Biasio, chiedere a papà una giustificazione firmata e responsabile, e tornare a scuola: gli assenti ingiustificati poco imparano, se non imparano che la vita è studio, ma è uno specchio in cui studiamo noi stessi, se siamo onesti e riconosciamo il vuoto in cui ci stiamo sprofondando. In questo libro – che ci si deve subito augurare sia presto seguito da altre convincenti prove – troviamo una spinta a guardarci dentro che ci proietta oltre il presente.

***

Raffaele Di Monda, Attiva Napoli. Inserisci il PIN, Guida

Il titolo gioca sull’acronimo inglese che indica il numero seriale di accesso, con l’equivalente italiano di Programma Innovazione Napoli.  Il testo è una raccolta di interventi dedicati a specifici campi di ricerca  con la proposta di diverse soluzioni su sicurezza e legalità, viabilità e trapsorti, ambiente e salute… Il curatore Di Monda è fondatore e animatore della Associazione “L’Ego di Napoli” (anche qui è chiaro il gioco linguistico). Napoli ha ancora un futuro, sembra chiedersi questa inchiesta a più voci piuttosto inclemente anche perché piuttosto obiettiva. La risposta è nelle pagine del libro (pubblicato col patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività culturali): il riscatto di Napoli può nascere soltanto dal desiderio che ne ha la sua gente. Anche questo pare a volte un discorso già sentito e quindi un po’ stantio; come il gatto che si morde la coda e non sa che è la sua; come il classico circolo vizioso: ma Napoli non lo sa che c’è da fare per salvarsi? E perché non lo fa? Gli animatori come Di Monda hanno ancora fiducia – perché negargliela?

***

Lino Di Stefano, Pirandello ottant’anni dopo, Edizioni Eva

Lo stesso autore di questo libro si chiede se abbia senso “ancora un libro su Pirandello, visto che la letteratura sul grande Agrigentino è sterminata…” – ma “utile senz’altro sì”, risponde e costruisce un personale percorso di rilettura dell’amato Agrigentino, al quale peraltro aveva già dedicato cinque libri in venti anni (l’ultimo alla fine del secolo scorso). Ora Di Stefano coglie una doppia occasione: scrive a ottant’anni dalla morte di Pirandello e pubblica in occasione dei centocinquanta dalla nascita. Nei diciotto capitoli di questa raccolta di saggi analizza diversi aspetti della personalità e della produzione letteraria di Pirandello, scovando anche particolari inediti o poco noti della sua  biografia (attraverso lettere e vecchi documenti). Emergono, incuriosiscono, divertono i rapporti con altri nomi importanti del nostro panorama novecentesco: Alvaro, Tilgher, d’Annunzio, Gentile, Einstein… Si parla di “Pirandello pittore”, della sua attività di insegnamento, ovviamente di vari aspetti dell’attività teatrale. Di Stefano espone le sue argomentazioni sempre mostrando di essersi adeguatamente documentato in merito, con numerose citazioni, confrontate per di più, per essere certo di sostenere una giusta tesi. Sono molto interessanti i giudizi pirandelliani su d’Annunzio e Dante: su questo in particolare Di Stefano dimostra l’ascendenza desanctisiana e anticrociana. In definitiva, si può ancora sostenere che Pirandello ottant’anni dopo sia un libro utile, forse anche “necessario”, se riapre le vecchie polemiche su “vita e forma”, se invita a riconsiderare l’attualità di un grande, la sua indubbia influenza sul teatro contemporaneo, la stessa visione dell’umanità nell’epoca tormentata del decadentismo, tra le angosce esistenziali e le rivoluzioni sociali. Il “grande Agrigentino” visse in prima persona quelle angosce (ben note le sue vicende private) e quelle sommosse – dalla fine dell’Ottocento all’avvento del fascismo. La sua opera, complessa (tra narrativa e saggistica, teatro e poesia) e profondamente legata all’analisi dell’uomo, rimane un banco di prova ineludibile per chiunque abbia a cuore la formazione del tessuto culturale del nostro secolo recente. Fa bene Di Stefano a continuare a scavare nei suoi scaffali in cerca di testimonianze pirandelliane da condividere. [2017]

***

Georges Antoine Drano, Le mouvement interrompu, AN Diffusion

Drano GA.jpg

Un’opera contro natura, una di quelle cose che non si dovrebbero fare, eppure è un libro necessario, non soltanto perché così l’hanno sentito gli autori, ma proprio perché doveva esserci, era giusto che il lavoro di una vita fosse degnamente ricordato. E peccato che quella vita sia stata così crudelmente breve, da impedire a quel lavoro di essere apprezzato ancor più di quanto già lo fosse; peccato che sia toccato ad altri, ai genitori, il compito di mettere insieme i cocci e ricostruire una vita precocemente spezzata. Ecco perché è contro natura: tocca ai figli narrare la storia dei padri, non viceversa! Se accade, l’opera di ricostruzione è particolarmente dolorosa, certo più di quanto lo sia quella di un figlio che racconta le vicende paterne. Se Nicole e Georges Drano hanno sentito il bisogno di una biografia postuma del figlio Georges Antoine è perché hanno sentito quanto ingiusta fosse stata con lui la sorte, strappato a soli trent’anni alla vita, a una carriera già brillante – appunto quella nel loro libro hanno cercato di presentare, a quella almeno hanno voluto rendere omaggio rendendola pubblica anche per coloro che non ebbero la ventura di conoscerla. Ed era necessario farlo, poiché un “movimento interrotto” non fosse dimenticato. L’opera di Georges e Nicole ripercorre brevemente le tappe dell’esistenza terrena di GA, morto a trent’anni nel 1994; racconta delle sue esperienze scolastiche, dei viaggi con i genitori, delle amicizie, della passione per l’arte, il disegno, la moda. Il volume, di mole considerevole, è anche e soprattutto un catalogo, e presenta una vastissima raccolta di quadri, figurini (impressionante la quantità di lavori proposti nelle tecniche più varie), e foto, tante fotografie del ragazzo che non fece in tempo a diventare uomo. Dedicato a tutti coloro che l’hanno conosciuto, “amato, incoraggiato e aiutato”, il libro è necessario però specialmente per coloro che non hanno conosciuto Georges Antoine, e adesso hanno l’opportunità per farlo, nella ricognizione completa curata dai genitori, ai quali va quindi non il solito plauso come autori di un’opera ben fatta, ma il grazie di quanti vorranno apprezzare – e saranno senz’altro numerosi – la vita artistica di un giovane figlio di Francia troppo presto spenta ma da ora più che mai “jamais oubliée”.

 

Elisei – Enzensberger /Berardinelli – Errico – Fava – Ferrante – Ferri – Finelli – Filippelli – G. Fiore – P. Fiore – Forbus – Forte – Frasca – Formia (in giallo)

[488] Mario Elisei, Il no disperato, Liberilibri

Elisei

Stavolta è la ricorrenza dei duecento anni dalla nascita de “L’Infinito” a ridare slancio alle pubblicazioni leopardiane (qualora mai l’avessero perduto!) – e in questo ambito si colloca pure il saggio di Mario Elisei, breve ma corredato di ampia documentazione antologica, dal titolo inquietante e incisivo: Il no disperato, che la pregevole etichetta Liberilibri edita in bella veste. Elisei è attivo collaboratore del Centro Leopardi di Recanati e non è nuovo, anzi, delle cose leopardiane è frequentatore assiduo (cinque anni fa Il mio amico Leopardi, sui luoghi resi immortali dalle sue poesie). Qui traccia una via di lettura del pessimismo, attraverso una rapida e decisa consultazione dell’opera poetica e del pensiero filosofico dell’infelice Giacomo poco più che ventenne. Nella postfazione di Ignacio Carbajosa si afferma – e si può porre a involontario esergo di questo libro – che “il genio poetico è colui che riesce a esprimere il sentire di ognuno con parole ineffabili”: ecco appunto “L’Infinito”, un pensiero privato che sfonda l’indifferenza e proietta l’animo umano oltre la siepe dell’inconoscibile. Per integrare il percorso della sua ricerca esposto nel saggio, già ricco per abbondanza di citazioni, Elisei completa Il no disperato con un’appendice che comprende il “Canto notturno di un pastore” e altre poesie e i Dialoghi “di Tristano” e “della natura e di un’anima”. Il cammino filosofico leopardiano è essenzialmente ispirato dal rifiuto del piacere e dalla conseguente ricerca di un compenso alla sofferenza. La ragione ci inganna – è la triste convinzione –: grande è soltanto chi segue un’illusione e per lei si batte (illusione ovviamente nel senso di ideale coltivato e vissuto con impegno). Molto attento alla filosofia settecentesca del sensismo (Condillac) e dell’empirismo (Locke), “Leopardi riduce l’esperienza al solo sentire e costruisce una sua ipotesi: la negazione disperata del senso del reale”. Arrivando a definire “la noia… il più sublime dei sentimenti umani” – beninteso, sottolinea Elisei, la noia che annulla il desiderio. Poiché, tra i fattori del pessimismo, c’è appunto la teoria del desiderio, come rilevato in due fondamentali capitoli di questo “disperato” cammino leopardiano. Non si finirà mai di scrivere – anniversari a parte, per quanto utili a rinfrescarne la memoria – di Leopardi e della sua poesia “filosofica” (indimenticabile un titolo di qualche anno fa: Il pensiero poetante); ma non è colpa di chi scrive, di chi sente ancora e ancora sentirà l’esigenza di confrontarsi con il più grande “fuori scuola” della nostra letteratura, che proprio perciò è suscettibile di essere letto comunque lo si intenda giudicare. Ma rimanendo libero da ogni categoria [2019].

***

H. M. Enzensberger – M. Berardinelli, Che noia la poesia, Einaudi

…e invece no! viene subito da dire, leggendo questo “pronto soccorso per lettori stressati” (come recita il sottotitolo di Che noia è la poesia) di H. M. Enzensberger e A. Berardinelli. E si può citare subito dal libro, a caso: “nella poesia sembra che si sprigioni una forza selvaggia”… una forza catartica in grado di curare davvero non solo ogni male, ma in primis quella noia alla quale (ma è forse una litote?) si fa riferimento nel titolo. Con il supporto di decine e decine di citazioni – stampate vezzosamente in rosso – si parla affabilmente di tecnica e di cuore, si scava nelle varie forme e si fanno affiorare i sentimenti. Anche se a un certo punto emerge una paurosa affermazione (a proposito di Pound) che rischia di far passare la voglia… “non ho scritto la mia straordinaria poesia per persone ignoranti come voi”. A volte, infatti, i poeti presumono troppo e peccano di solipsismo fulminante. Ma è pur vero – e in questo libro lo si ripete spesso – che la poesia deve parlare ai lettori con le loro parole, cioè come loro riescono a percepirne il messaggio, non secondo quello che l’autore stesso pensava o cercava di trasmettere (che rimane comunque il suo, rispettabile ma remoto). Che noia la poesia è nettamente diviso in due parti: la prima (“Pronto soccorso”) è un adattamento da Lyrick nervt! di Enzensberger; la seconda (“Si può studiare la poesia?”) è di Berardinelli. Caratteristiche comuni ovviamente ci sono – il libro è compatto: entrambi gli autori, per esempio, insistono sul carattere di gioco che ha, che deve avere la poesia, anche quando comunica qualcosa, ed entrambi ritengono la scuola responsabile prima dei guasti (antipatia e/o rifiuto) nei confronti della poesia): a scuola sì, che si finisce per dire “che noia!” se si pretende dai giovani inesperti di chiarire l’inesprimibile (quando proprio ai giovani si dovrebbe far comprendere quanta libertà di segni c’è nel linguaggio poetico, che ad essi in particolare potrebbe offrire chiavi di interpretazione della propria esistenza).

 ***

Giuseppe Errico, O munaciello, Gallina

Errico

È lo stesso “munaciello” ad affermare – nel presentare a sua firma questo libro a lui dedicato – che preferisce “essere ancorato al sud e alle sue tradizioni popolari ancora esistenti”. Che sia lui a parlare è un (simpatico) vezzo dell’autore, Giuseppe Errico; ma perché – se la figura del “munaciello” è da ritenersi radicata nelle “culture dialettali” del nostro sud – Errico ha sentito il bisogno di fare tante ricerche (fruttuose!) e trovare tante corrispondenze, in verità sorprendenti? La passione per l’argomento anima certamente l’autore di O munaciello (“magie, capricci e sortilegi di uno spiritello napoletano” – dice il sottotitolo): storie vere, o almeno passate per tali, e dicerie di ambigua veridicità, leggende nordiche perfino e scongiuri di tipica marca mediterranea; c’è tutto quello che ci si potrebbe aspettare. Ma, alla fine, chi è questo misterioso essere? Appunto, un essere misterioso che appare solo quando vuole e si presenta solo a chi gli sta simpatico (oppure a chi vuol prendere in giro) – e rimane nascosto nel suo rifugio virtuale costruito di impalpabili fantasie (ma quanto concrete se riescono a manifestarsi in forma di accidenti quotidiani, e più o meno inspiegabili incidenti che accadono all’incauta malcapitata vittima dei suoi scherzi, non sempre leggeri). Errico è psicologo e psicoterapeuta: sa bene quanto sia facile costruirsi e proiettarsi “monacelli” di emergenza per le situazioni che non si sa come risolvere, a volte nemmeno affrontare. Quell’essere inafferrabile, che procura guai soprattutto ma pure qualche gioia inattesa, è dunque soltanto frutto del nostro bisogno di sicurezza? A volte, però, c’è chi è pronto a giurarlo, “O munaciello” davvero si è presentato per offrire i suoi servigi, eterno spirito della lampada… A chi credere? Leggendo il libro di Giuseppe Errico si rimane con forti dubbi – il che probabilmente è lo scopo dell’autore, napoletano e quindi (absit iniuria verbis, ma facendo i debiti scongiuri) un po’ munaciello anche lui… Da leggere per credere, almeno per riflettere, ed essere pronti all’incontro, magari capitasse.

***

Vincenza Fava, Deserti di mare, aa

Il libro di Vincenza Fava merita di essere letto, per qualche sorpresa che regala e per altri doni che lascia scorgere: è difficile giudicare un autore da un libro soltanto, ma questi Deserti di mare fanno venire almeno la voglia di saperne di più, dell’autrice, del suo lavoro (peraltro, la sua scheda biobibliografica appare piuttosto interessante, poliedrica negli interessi artistici). Nelle 86 composizioni di questa silloge (la prossima volta, con solo due pagine in più conviene mettere l’indice), Vincenza Fava si mette a nudo – come generalmente si dice di un poeta che presenta squarci riconoscibili della sua vita, del suo pensiero, del suo fare poesia – e schiude insieme orizzonti all’esistere, in cui cercare un altro sé, con il quale misurarsi e confessarsi. Un libro di poesie è un po’ come un giallo, un intrigo nel quale farsi coinvolgere per scoprire come va a finire, un percorso ad ostacoli da superare per dirsi bravo, alla fine, per aver risolto un mistero. Stiamo ricordando il ’63, quest’anno, intendo il “Gruppo”, quello di Porta e Pagliarani e Balestrini… “vogliamo tutto”, dicevano, e proponevano un modo nuovo di fare ed essere poesia. Dopo cinquant’anni, stiamo ancora a domandarci se è servito a qualcosa. Cent’anni fa, mentre i futuristi uccidevano il chiaro di luna, Saba esortava a scrivere “la poesia onesta”. Insomma, che deve fare il poeta per fare il poeta? Per “costruire quotidiana una missione” (questa è una autocitazione), cioè la sua vita che diventa – nella sua poesia – la vita degli altri… Continuiamo a chiederci, e meno male che lo facciamo, sempre che lo facciamo onestamente, qual è il ruolo del poeta, eccetera. Perché Vincenza Fava ci costringe a leggere le sue intime divagazioni e ci costringe a riconoscerci in quelle parole, che – riflettiamo bene – potrebbero davvero essere le nostre? Così torniamo al libro, a questi Deserti di mare… Ma torniamoci onestamente, per dire che in quelle pagine così scarne (poiché molto spesso i testi sono brevi o brevissimi, quasi aforistiche affermazioni di principio, riflessioni sintetiche oppure haiku descrittivi), in queste che a volte sono laceranti confidenze di un’anima inquieta, a volte sorridenti inviti a godere la vita, si trova, si legge, si vive un percorso esistenziale tormentato, un cammino di ricerca, una struggente volontà di trovarsi… “Mi resta l’inganno del tempo / e il traguardo della fine” E il libro si poteva chiudere qui – le altre cose che seguono hanno peso minore, segnano con minore incisività, rispetto a questo piccolo manifesto di poetica, che è un’esplicita dichiarazione d’amore alla poesia (la chiave) e insieme una confessione di abbandono che pure nutre l’ovvia disposizione d’animo (la molla) che fa di un artista un artista. Là dove un sentimento privato (“chiusa stanza”, “dominio del silenzio”) diventa, viene donato come la possibilità di un’apertura che faccia passare – in un “abbraccio di avidi indugi” – “la certezza dei sogni”, che si faccia quindi per tutti lievissima “piuma” e “certezza” di consolazione. Che altro? Cosa chiedere al poeta… Ma ci sono anche altre cose da notare, certo, ci sono convincenti giochi linguistici e lessicali, occorrenze e ricorrenze significative: in testi contigui si colgono a volte parole ripetute (come le pietruzze che Pollicino lasciava nel bosco), a creare una trama di riferimenti, una specie di percorso guidato – la luna e la carne, per esempio; la luna sta lì a colorare della sua pallida luce le notti in cui la carne vorrebbe risposte non banali alle domande di sempre. E c’è l’indifferenza della gente, e del cielo, all’urlo “Chi sono?” che da sempre tormenta la mente di chi pensa di non essere solo, che essere soli è brutto, pericoloso, inutile. Mille volte desisto / mille volte riparto / mille volte mi fermo… / Oh splendido desiderio di rimanere sospesa  / e non attendere invano le ore del tempo!

***

Beppe Fenoglio, Epigrammi, Einaudi

“Che ingravidato un maschio si rimanga,/ Questo potresti credere, Vitruvio,/ Ma non che per codesti epigrammucci/ Mi paga, anche se poco, l’editore”… Ecco l’arguto spirito di Fenoglio scherzare su se stesso e la sua vena epigrammatica, sottilissimo esercizio metapoetico a dire quanta e quanto sottile ironia animasse (e tendesse) le sue corde. Gli Epigrammi di Beppe Fenoglio escono per la prima volta in un volume autonomo, per la cura di Gabriele Pedullà, e ne valeva la pena: conoscere questo lato poco noto dell’autore famoso del partigiano Johnny è davvero una stimolante iniezione di benessere intellettuale. Ci si deve far guidare dalla direzione dei suoi strali, e si traguarda in vetta, si arriva al pieno possesso (alla condivisione) del suo sorriso, amaro ma pure genuino, letterario ma insieme diretto – un attacco all’apparenza e alla forma dell’apparenza. “Stufo d’epigrammare, d’aggredire/ I vizi soli, non mai le persone,/ Mi sono ubriacato e poi a Papio/ Sul naso un pugno ho dato in pieno foro” – e diamine, se ci vuole, ci vuole! Ed è giusto che sia così: basta con le chiacchiere, a volte: è necessario agire. Ma già l’epigramma è azione, è poesia sintetica che fa da esca o spoletta: basta accendere e scoppia la bomba. Qui la vena sociale di Fenoglio emerge viva e vulcanica, e colpisce a destra e a manca, a più non posso, metaforicamente e non solo. Un libretto che è un piccolo libro d’ore, da sfogliare e centellinare per (ri)trovare lo slancio ad assestare alla vita qualche cazzotto ogni tanto: non fa male, a noi, darne qualcuno – né a lei riceverlo: ci restituirà la forza di una vitalità più fresca, che nessun viagra potrebbe assicurarci. “Hai, dicono, la bocca come il culo,/ Ma di culo sei stitico, talvolta.” Debitori di stile e di lessico, e saccheggiatori di nomi finti, nei confronti della poesia classica alla quale sono pure un omaggio indiretto, ma senz’altro sentito e dovuto, questi 144 epigrammi di Fenoglio vanno letti oggi come un vademecum esistenziale, una guida ai vizi e alle debolezze di tutti quelli che conosciamo – ci aiuteranno almeno a sopportarli meglio, se non a comprenderli o giustificarli.

 ***

Marilena Ferrante, Quel che avrei potuto dirti, Volturnia

È un libro di poesie di una donna che si guarda intorno ma soprattutto guarda in se stessa e mette a fuoco la sua scaletta esistenziale, il tormento del cuore – dice –, gradino per gradino (e sembra che abbia inciampato su qualche gradino, per dir così – ma forse proprio per questo le sue poesie sono poesia, perché non sono soltanto le sue manifestazioni di vita, le testimonianze di quel che le è successo, e di come questo l’abbia segnata, ma c’è l’indeterminatezza che rende le sue parole, il suo discorso allo specchio, la sua confessione, un altro specchio, nel quale altri potrà leggere le proprie parole non dette, non ancora dette o appena pensate – questa è la poesia). Ci sono testi che da soli valgono il libro e meriterebbero di essere citati integralmente: “Parole”, “E giungo a te”, “La lettera”: “ci sarò solo se tu ci sarai”, si augura l’autrice… dove? Nella vita, al mondo, in poesia – cercando un’anima, un posto ubi consistere, un senso all’esistenza… La posizione dell’autrice di Quel che avrei potuto dirti (e che intanto – per fortuna – ci dice!) è chiaramente evidente nel suo porsi come compagna di ricerca, nella ricerca continua che è il nostro viaggio esistenziale.Il desiderio di apparire com’è, di mostrarsi nella sua schietta natura di donna curiosa e sofferente, le fa dire anche quel che probabilmente sarebbe più opportuno tener dentro (almeno filtrarlo, in modo da non esporsi direttamente al rischio della confidenza) – ma questa poetessa ancora in cerca di una dimensione pubblica sembra decisa a proporsi nella sua interezza di umana creatura prima ancora che nella costruzione lirica di un poeta da libro. I ricordi e le emozioni, l’emozione del ricordo, il ricordo/emozione che diventa poesia: procede così, spesso, il discorso creativo di Marilena Ferrante. E chi ricorda si salva – scrive – e allora è la poesia che ci salva. Siccome qualcuno disse che “la scrittura è la medicina del vivere”, se è una medicina, la poesia – che è la forma più intima dello scrivere – è quotidiana pillola di vita. Fa bene praticarla, dunque, a chi la fa e a chi la usa, e Marilena la usa mentre la fa, per cercare di stare meglio, per superare momenti non belli, per avere tregua nel giorno faticoso. “I ricordi e le emozioni hanno sempre salvato il mondo” (in “Rimembranza”). La poesia “salva sempre dalla fatica del vivere” (“Note di colore”); bisogna soltanto disporsi (chi la scrive e chi la legge) a darsi con fiducia alla parola poetica. Del resto, “solo chi dà, è destinato a ricevere” (“Incontro”).

ferrante m

***

Marilena Ferrante Un passo dal cuore Volturnia

Ferrante1.jpg

Medicina del vivere, la scrittura – lo diceva il vecchio Svevo, questo -: significa anche medicina per i sentimenti, e quindi ecco che la poesia diventa una cura omeopatica per cuori solitari. E non è comunque una facile scappatoia: scrivere, si sa, quando s’intende farlo per lasciare tracce che ad altri sembrino leggibili, di strade che ad altri riescano percorribili, è spesso di per sé un arduo cammino. Nelle pieghe del cuore di Marilena si dovrebbe entrare con cautela, ma sicuri di trovarvi calore e poesia – per lei, si potrebbe dire, la poesia è calore di cuore, senza paura nemmeno di osare l’antica (e ormai quasi aborrita) rima cuore/amore… Non ha paura di esporre i suoi sentimenti – anche se a volte sono frustrati dalle occasioni perdute o dai fallimenti più o meno sofferti – e mette a nudo il suo cuore (come pure si diceva quando già sembrava che non si dovesse più farlo), e si offre a pericolosi giudizi – non sempre il lettore vuole farsi complice. Ma l’amore qui è “coltre di speranza”, “luminosa notte” e “passione furente”, ed è “dolce profumo” e “fame di te”… qui si coniuga quello spirituale insieme a quello della carne, si sogna un incontro ideale ma si desidera un contatto reale; i sensi sono coinvolti in un gioco sottile che nella mente crea slanci e abbandoni. È un libro fisico perché l’amore è l’incontro di anime vestite di un corpo e – come dice Marilena – Tu amore, eros, passione, disegni i sentieri e perlustri i luoghi delle carezze che arriveranno all’anima. È quindi l’eros il vertice del viaggio che uomo e donna compiono insieme quando il loro incontro, anche solo per un attimo, li lega, li avvince, li convince. Se ci si mette a contare i lemmi ricorrenti in questo canzoniere d’amore (almeno la sezione centrale del libro è tale e, magari con intonazioni diverse, lo sono in qualche misura anche le altre sezioni, se è amore per l’umanità che fa scrivere certi canti dolorosi), se si va a caccia di ricorrenze, insistenze, frequenze, si trova che i termini del lessico fisico (corpo, braccia, carezze, desiderio…) compaiono molto più spesso di quelli diciamo relativi allo spirito. Pressoché assenti parole come morte, e dolore, segno di una volontà salvifica che attraverso l’espressione poetica sollevi dalle penose vicende che pur ci accadono e ci segnano. In un libro com’è questo di Marilena, va da sé che la parola amore sia la più presente, subito seguita da cuore, anima, vita e – forse non è una sorpresa – notte: la notte è infatti una complice, un’amica fidata: a lei si confidano pene e speranze. “La notte siamo noi sul cuscino delle stelle” (e anche di stelle ce ne sono tante, pronube forse più che testimoni). La misura dei testi è in genere quella breve, compatta, espressiva nell’asciutta dichiarazione di sé, di un pensiero che turba o commuove, nella descrizione calligrafica di un momento vissuto, traslato nella dimensione lirica che ne fa insieme luogo e monumento dell’anima. Pochi tratti bastano a chi sa come dare un ritratto di sé.

***

Giustino Ferri, La camminante, Edizioni Eva

Era davvero un atto dovuto la ristampa – a cura di uno dei massimi esponenti della cultura ciociara, Gerardo Vacana – del romanzo più noto, all’epoca, e da tempo fuori dal giro, di Giustino Ferri: La camminante. Nato a Picinisco, studi a Napoli e vita da giornalista mondano a Roma, l’autore ebbe molta fortuna nei suoi tempi, ma visse poco per goderne. La camminante è una storia sorprendente che fa pensare a simili prove coeve, ma pure apre a nuove considerazioni; ed è questo uno dei motivi per cui era necessario riproporlo (iniziando per di più, grazie alla disponibilità delle Edizioni Eva di Amerigo Iannacone, la pubblicazione dell’opera omnia dello scrittore ciociaro). C’è qui, soprattutto nello studio dei personaggi, nelle atmosfere nelle quali muovono i loro passi a volte incauti, spesso indolenti o del tutto sbagliati, e nei modi in cui si rapportano fra di loro e con il loro mondo (è passato un secolo e più: sospesa fuori da un’Italia che fatica a crescere, la Ciociaria periferica del libro è un microcosmo di abitudine e perbenismo di maniera), c’è in questo romanzo denso di riflessioni e descrizioni, nei dialoghi articolati e nei pensieri stessi dei protagonisti e degli attori di contorno, una chiave di lettura che fa velo a Svevo e Pirandello insieme, a Jovine, a Tozzi. Mentre i grandi dell’epoca scrivevano i loro capolavori, insomma, Giustino Ferri – che li leggesse o no importa poco – a sua volta compone un’opera che condensa di quelli le pagine migliori, e ne fa un affresco di inettitudine e conformismo. La camminante andava quindi offerta nuovamente al pubblico più avveduto, perché ne emergano le linee costruttive sapienti e l’assunto finale, che è al tempo stesso paradossalmente e malinconicamente eroico nella rinuncia al nuovo e nella custodia del vecchio. Ma infine andava ristampata un’opera simile, perché godibile ne è la lettura ancora oggi, nell’ariosa scrittura e nell’accorta gestione degli episodi, nella caratterizzazione progressiva dei personaggi in un ambiente che vive di riflesso le loro frustrazioni, l’impotenza a muoversi e il sogno cristallizzato di altre ore mai vissute.

Ferri

Renato Filippelli, Spiritualità, Guida

È bello che sia la figlia Fiammetta (alla quale il padre poeta scrisse toccanti “nuove parole” per la nascita) a consegnarci, a donarci questa piccola intensa silloge postuma di Renato Filippelli (Guida Editore). Spiritualità è un piccolo testamento per la serena accettazione della morte, nostra sorella  nell’accezione francescana, e un’aria mistica sembra aleggiare in tutto il libro, pur se intriso di carne e terra, di palpitante umanità. Nell’apparente banalità della parola “spiritualità”, riferita alla produzione poetica di un uomo eclettico, di un letterato finissimo quale egli fu, c’è invece la sola risposta che spiega la natura dell’estremo omaggio alla poesia. La parola è trasmissione di spirito – ecco la chiave. La vita è un’esperienza “senza confini”, se perdura intatta (e salvifica) quella “corrispondenza di amorosi sensi” che lega e fortifica nel legame coloro che rimangono e quelli che li hanno preceduti nell’ultimo viaggio. Qualche nota ironica, sconfinamenti nel sarcastico, ma il tono generale di questa poesia – che per lo più si manifesta nell’attenzione alla sfera privata – è la pacata riflessione. Non mancano le descrizioni di sapiente acquerello. Il “cercatore di felicità” sa dove cercare e spesso (fino agli “estremi giorni”) trova la sua (minima eppure appagante) felicità. “Sui miei versi consunsi per amore quasi tutta la vita” – dice il poeta con una punta di amaro compiacimento, perché almeno si augura che “il fiore della poesia” rimanga a ricordarlo. Come egli ricorda i cari scomparsi (la madre, il fratello) e ci consegna (non è dato sapere con quanta consapevolezza della fine ormai prossima), ci dona infine l’immagine più sua, che rimanda alle prime prove poetiche, intrise del suo mondo agreste, patriarcale, mai rinnegato in quanto vitale eredità di affetti e di valori. “Ti dico cosa sono: sono un vecchio carretto chiuso nella rimessa con le stanghe all’aria”.

***

Renato Filippelli, Dai fatti alle parole,

Dai fatti alle parole è una delle ultime pubblicazioni di Filippelli: è stato uno scrittore totale, che ha dedicato la vita alla parola scritta, non solo scrivendola, ma curandola e raccontandola, promuovendola, insegnandola… Sempre. “Di un solitario utente della felicità”…  è un esempio di come un poeta sia uomo e di come l’uomo faccia il poeta senza smettere di essere uomo. Dai fatti alle parole è un titolo emblema, un manifesto di poetica: per uno che ha esordito e ha continuato sempre con la stessa attenzione alle cose e alla natura, all’uomo… che si è affidato anche al soprannaturale ma ha sempre fatto professione di fede nei valori dell’umanità figlia della terra (Ombre dal Sud), della famiglia e dei suoi affetti più veri (Requiem per il padre). E alla parola ha dato il giusto valore di veicolo dei sentimenti e la ha custodita pertanto pura malgrado il rischio – da studioso e frequentatore delle più diverse forme espressive – di cadere nel cerebrale, nel gratuito sperimentale. Per una certa logica del paradosso, che non gli era estranea, Renato Filippelli è morto a due giorni di distanza da Edoardo Sanguineti, uno di quelli che lui non riusciva a sopportare. “Di un ex montaliano scontento”… è l’esempio alto della consapevolezza storica ma insieme dell’onestà privata di fronte all’oscurità intellettualistica a volte esibita. Infine, le parole “Di un tardivo cultore del silenzio” si rivolgono a Dio: “Tu che sai quasi adempiuta la mia storia, svezzami dalle parole, futile mia gloria; dammi il silenzio che precede e segue la vita, e veste di mistero lene gli approdi all’ultima deriva”. Ora merita che la sua voce non cada nel silenzio.

***

Riccardo Finelli, Coi binari fra le nuvole, NEO

Finelli

Una toccante intervista con la storia – un viaggio in Italia per capire come sia possibile lasciar perdere pezzi d’Italia senza soffrirne la perdita. È avvenuto così per la ferrovia Napoli-Pescara, poi Sulmona-Castel di Sangro, poi… niente, soppressa, almeno nei servizi, poiché sta tutto ancora lì, binari e stazioni come avamposti abbandonati dopo una guerra ormai ritenuta inutile da combattere. E così Riccardo Finelli ha deciso di farsela a piedi, la tratta, la traversata da Sulmona a Carpinone, proprio seguendo i binari, nei saliscendi e nelle gallerie della “transiberiana d’Italia” (come è nel sottotitolo di questo irresistibile, imperdibile libro: Coi binari fra le nuvole, NEO Edizioni di Castel di Sangro, primo numero della collana “I Nei”… ed è tutto dire, un vero programma di aggressione giornalistica alla pelle macchiata del nostro bel(?)paese). Il racconto di Finelli è un almanacco del tempo perduto, a ritroso nelle minime vite quotidiane di casellanti, ferrovieri, macchinisti, operai, con le loro famiglie, le case isolate sui monti (il treno fermava apposta al casello per portare le donne al mercato).Ci sono presenze che emergono dal passato e fanno compagnia per qualche ora, dando informazioni tecniche sulla linea, suggerimenti su come percorrerla a piedi, poi tornano nel limbo della non-storia alla quale sono ormai destinati. Il pregio di questo libro, infatti, oltre l’indovinato titolo, e la grafica di copertina (da classico del cinema neorealista), è nello stile, nella lingua che Finelli usa, e usa con ammirevole e deliziosa competenza. È una cronaca, un diario privato – sia pure ad usum… beh, chi vuole, magari vien voglia di andarci a fare una passeggiata, lassù; ma è un diario di quelli che (una volta scoperti e resi pubblici) consentono di aprire una finestra e pure un portone, sul mondo che c’è. Corredato da una mappa disegnata come quella della terra degli hobbit, Coi binari fra le nuvole ci permette di starcene per quattro giorni in giro tra Abruzzo e Molise e sognare tempi nemmeno tanto lontani, quando il treno era l’unica via di penetrazione in territori montani e selvosi, nevosi e gelati – e la lentezza, di cui è stato infine accusato, non era un male, non era percepita come un ostacolo ad incontrarsi.

 ***

Gino Fiore, Dietro la maschera, Edizioni Rari Nantes

Sarebbe d’accordo Pasquale Maffeo (che di Gino Fiore fu onesto mentore, fra i primi) a riconoscere concluso l’iter di forma­zione che – presentando L’alga – augu­rava al poeta farmacista fon­dano, anni fa? In realtà, dalla prima raccolta di versi, pubblicata nel 1986, a questa Die­tro la maschera (che è la terza e mantiene il ritmo trien­nale delle usci­te, Trasparenze, la seconda, essendo ap­parsa nel 1989), il cam­mino è in effetti stato sicuro, e le promesse, perché c’erano, mante­nute. Gino Fiore continua a crescere – e guai se così non fosse, perché davvero in arte chi si ferma è finito – ma il suo tono è ormai media­mente alto, e consapevole è diventato il registro espressivo ad ac­compagnare, sostenere, esaltare quei contenuti che fin dall’inizio si apprezzavano nella sua produzione in versi. Le tematiche alle quali Fiore porge più volentieri l’attenzione sono d’altronde quelle che lo interessano anche come autore di teatro (e attore): l’onestà in­tellet­tuale che lo contraddistingue gli im­pe­direbbe di par­lare di ciò che non conosce o che non lo interessa, nel pur poliedrico suo ap­proccio alle forme artistiche intese come messaggio di comunica­zione so­ciale ol­tre che sentimen­tale. In quest’ultimo libro di versi (ed escono intanto anche le sue commedie, in lingua e in vernacolo fondano) Fiore non riesce a stac­carsi da quella che probabilmente è la sua natura più vera, quella parte di sé che più lo soddisfa, la ma­schera,  cioè la sua vo­cazione al teatro. Fin dal titolo scelto per la raccolta, che è il titolo di uno dei testi meglio cali­brati, il richiamo all’attore, alla scena, è evidente, ma di­venta insieme un simbolo e una metafora del rap­porto con l’esi­stenza. Per convincersene, basta scoprire l’uso dello stilema (dietro la ma­schera)   in un altro testo, “Di memoria in memoria”, in cui ap­punto è indicatore di un comporta­mento, di un’abitudine alla re­cita che, fuori dell’esigenza teatrale, diventa “inutile festino”, fin­zione perpetuata per l’incapacità di rico­noscere la propria modestia. Come riesce al poeta “davanti ad uno specchio”, quando si mette d’istinto a recitare, con la sua bambina in braccio, e si sente da lei confessare che “non im­porta” cosa le faccia ascoltare, perché: “sto senten­do il tuo cuore!” “Non importa”  è infatti la risposta/rivincita del poeta sull’at­tore, e nel te­stimoniarla Fiore offre ancora una prova della sua o­ne­stà di artista. La memoria è un’altra delle componenti essenziali di questo li­bro. Presente in qualche titolo (“Travaso di memo­ria”, “Di memo­ria in memoria”, “Il tuo ricordo”), è soprat­tutto presente in una serie di testi dedicati alla madre (“Ma­dre”:  “Solo il mio grido regge le fila/ di un esercito di pen­sieri/ coniati alla fucina di un tempo”) e ad altre as­senze/presenze comunque avvertite nell’inarrestabile flusso dei ri­cordi che nei momenti di pausa prende l’uomo altri­menti travolto dal­l’esi­stere frenetico: “Tutto è vivo”, “Nel diluvio”, “Quando”. Testi come “Ansia”, “Diciotto anni”, “Pupille”  svilup­pano in­fine il tema del tem­po, del rap­porto con la vita, an­ch’esso fonda­men­tale nella produzione poetica di Gino Fiore; ma lo sviluppano in modo che risultino emblemati­che, più dello stesso tema, certe figure in cui il tempo as­sume valore paradigmatico (il figlio che diventa maggio­renne: “hanno stabilito: da oggi sei uomo”; i “due che si te­nevano per mano/ occhi senza tempo/ semplicemente,/ con la voglia pazza di andare senza meta/ a rovistare nel profondo”).

 ***

Gino Fiore, Sulla fronte degli anni, L’Aperia       

Se basta una sola poesia a rendere importante un libro (“se vi piace un solo verso, un testo è poesia”: dicevo ai miei studenti, un po’ col gusto del paradosso, ma per incitarli almeno a scoprire cogliere gustare un’espressione sentita e convincente), se basta una poesia ben riuscita, in questo libro di Gino Fiore ce n’è più d’una, ce ne sono molte. Scaltrito dall’uso pluridecennale della parola, sulla carta e sulla scena (essendo anche un fecondo artista di teatro), l’autore di Sulla fronte degli anni offre buona prova delle sue abilità linguistiche espressive comunicative. Al sesto libro, in poco più di vent’anni, è inevitabile porsi il problema estetico – non solo privato, non solo retorico – del rapporto con il tempo. In questo libro sono molti gli esempi della riflessione (intima e sociale) sul tempo (“Bianco e nero”, esemplare testo di apertura; “Sogni”, “Un battito di ciglia”…), ma c’è pure il nostro mondo che ne è riflesso terribile, inquietante. Gino Fiore pone domande e propone risposte, come un civile abitante della terra deve fare – è poeta, però, e le domande e le risposte si fanno discorso e messaggio. Così nei testi più riusciti (“Fuga in Egitto” l’esempio migliore), costruiti come una mini sceneggiatura, sorprende la trasfigurazione del reale, come la semplice testimonianza (“Prima pagina”), che ne fissa emblematici episodi. Lo stile di Gino Fiore si caratterizza ormai nel suo colloquiare alto, nella scioltezza che è semplicità solo apparente, ma è consapevole traguardo di scavo e ricerca. La pratica lo aiuta ma certo lo sorregge l’intimo slancio a una purezza di sentimenti che si insieme dettato asciutto e pregnante, icona proiettata sullo schermo dell’esistenza. La vita è sogno, si disse, e il mondo è un gran teatro. “Sulla fronte degli anni” si avvertono le rughe della vita, si legge quindi il peso degli anni, ma la fronte è forte e alta, regge l’urto del tempo che incalza. Il grande attore non invecchia, se adatta alla platea la misura del suo spettacolo: Gino Fiore, davanti agli anni che avanzano, pone fissi paletti insuperabili (per gli altri e per se stesso), per nulla intimorito dall’incombere degli eventi. Nelle parole del poeta, peraltro consolato e rassicurato dalla fede (diversi e profondi sono i richiami), si avverte la ferma volontà – e la certezza di poterci arrivare – di mantenersi dignitosamente uomo, in un mondo che spesso dimentica “che i miracoli esistono” proprio perché l’uomo può agire per conto di Dio: basta ricordare (“È Natale oggi!”) che ”Colui che è nato è dentro voi da sempre”.

***

Paolo Fiore, Solo sabbia tranne il nome, Manni

Fiore Paolo

Paolo Fiore è un tipo curioso, e non si accontenta di sapere quello che sa: nemmeno si accontenta di curiosare qua e là – soprattutto negli impervi domini della filosofia (suo studio d’elezione) – ma la sua curiosità vuole che diventi un campo di studio (o di gioco) per i suoi lettori, certo quelli che lo conoscono, e quanti ancora vorranno avvicinarsi a questa sua nuova prova letteraria. Fin dall’inizio il lettore è coinvolto in un turbine di situazioni sensazioni suggestioni, con personaggi che si rincorrono, si trovano, e a volte devono evitarsi; infine non finiscono come ci si aspetterebbe (chi fosse riuscito ad immaginare per proprio conto un finis per un plot così stravagante): alla fine certo non raccontiamo come rimanga aperta questa storia, ma più di un pertugio rimane scoperto e ci si potrebbero infilare soluzioni alternative. Non è un racconto, questo di Paolo Fiore, che si possa accennare, tanto meno riassumere. Va letto, gustato nelle sue cento facce – che sono quelle dei personaggi, maggiori e minori, che vi si incontrano, più o meno ben delineati a seconda del ruolo che hanno nell’evolversi delle vicende (non senza – opportunamente – i necessari silenzi quando svelare troppo smorzerebbe la voglia di sapere “che succede poi”). Ma ci sono cento facce anche perché tante sono le citazioni dai filosofi amati dal nostro autore – non vale la pena nominarli: almeno uno, però, fa d’uopo, ed è Benjamin; ma ci sono i classici come Platone e San Paolo e Spinoza e tanti altri, citati con una frase o più volte richiamati per le loro teorie. Al dottor Fiore fare il medico non basta; si è capito leggendo qualche altro suo libro (molto bello – e questo sì che ha un titolo di rara pregnanza – Fu chiaro appena oltre lo zenith, palestra di conoscenze storiche, stavolta). Gli piace dunque arare e seminare e mettere a frutto i campi del sapere. I risultati lo premiano, per il livello delle sue prove narrative – e pubblicare adesso con Manni è anche questo segno di buon livello diciamo così di visibilità editoriale. Chissà quanto è fortemente voluta la scelta di San Paolo, così tanto presente fra i testimoni del messaggio universale di umanità (“Un gigante, questo Paolo!”), chissà se proprio l’apostolo delle genti – ma non perché si chiama come il nostro dottore – debba essere accolto come il simbolo, con la sua “personalità cosmopolita”, del bisogno di comunicare che affratella l’uomo. Oggi come sempre – o forse più (e chissà che non sia un messaggio subliminale di Solo sabbia tranne il nome) – c’è bisogno di parole dette bene, che rimangano a fare da cerniera favorendo le connessioni, poiché fluida e fugace si è fatta la trama delle nostre relazioni (“liquida”, direbbe qualcuno che Paolo Fiore conosce molto bene). [2017]

***

[502] Jason Forbus, Tesori nascosti a Gaeta, Ali ribelli

Ci voleva proprio! ce ne fossero libri così da sbattere in faccia ai distratti, agli indifferenti, agli incompetenti (che poi qualcuno di questi occupa anche posti in cui dovrebbe saperne un po’ di più…)! Addirittura banale, quindi, fare (solo) i complimenti all’autore di Tesori nascosti a Gaeta: Jason R. Forbus è da molto tempo un accorto esploratore – e, si direbbe, un cantore appassionato, con le corde che gli sono congeniali, quelle della scrittura, narrativa soprattutto – di cose belle che non vedono il sole. Dirgli bravo oggi è soltanto un acconto di quello che gli si augura (a lui e al suo prezioso lavoro): scuotere animi e coscienze, invitare alla conoscenza, alla scoperta, al recupero e – perché no? – all’utilizzo socio-culturale di un patrimonio lasciato da secoli alla cura (non sempre benigna) di madre natura. Chissà però se l’uomo sarebbe in grado – ora, dopo secoli di abbandono – di rimettere ordine e permettere al viandante curioso, allo studioso, all’ignaro abitante di questo “museo a cielo aperto” che è Gaeta (lo si ripete spesso, spesso a chiacchiere), di tornare a godere dei suoi beni, dei “tesori nascosti” che Jason R. Forbus ha così ben documentato. Questo volume è uno dei più belli pubblicati dalla sua etichetta editoriale “Ali ribelli”, essendo ricco peraltro di suggestive illustrazioni (molte sono foto scattate per l’occasione anche con l’aiuto del drone, oggi indispensabile per certe documentazioni) e corredato pure da alcune piccole poesie – poiché l’autore non dimentica di essersi cimentato anche nell’espressione poetica – alle quali è forse affidato il compito di alleggerire un po’ il tono della presentazione storica e artistica dei monumenti raccontati, peraltro con tono sempre discorsivo anche quando si offrono contenuti di notevole livello scientifico [2019].

Jason Forbus, Il blu silente, Ali ribelli

Fin dalla icastica sinestesia del titolo – che è pure il titolo di un breve testo dedicato a Gaeta (“è in silenzio che il blu, succo amaro del cielo, inonda le strade e l’osteria solitaria”) – fin dal titolo è un inno al coraggio questo Blu silente di J.R. Forbus (e coraggiosamente, o quanto inconsapevolmente, si firma in copertina con le poco poetiche iniziali che ricordano un odioso personaggio televisivo). Come fa un colore ad essere “silenzioso”, se non perché è l’immagine di un ambiente, di un mondo, e della condizione stessa in cui ci si rapporta con il tutto? La “stagione” più vera di questo piccolo strano libro (suddiviso appunto in sezioni che l’autore chiama “stagioni”) è proprio quella dell’amore. Un amore cantato mentre viene sognato, sognato mentre viene vissuto, vissuto… sì, vissuto e perciò cantato. Qui non c’è astrazione, i sensi sono accarezzati carnalmente dalla carne amata, e la poesia può solo esserne testimone. Qui la parola del poeta è veramente “riga di carne che la carta incide”. Sembra perdersi continuamente il contatto con il reale (paesaggi, cose, corpi cedono subito alle loro immagini, alle sensazioni prodotte, al pensiero che ne scaturisce), ma la tensione umana è forte, costante – l’individuo poeta Forbus sa bene qual è il suo posto nel mondo (anche se si definisce “bardo giramondo”, “l’ultimo bardo”) e gioca con le muse, con l’ispirazione e la natura stessa del suo essere poeta. Così, spericolatamente, cadendo a volte di palo in frasca, il giovane Forbus costruisce il suo cammino di artista men- tre affina il suo carattere di uomo (o viceversa: è ancora uno di quelli che credono nella missione umana dell’arte). Adagiando, come lui dice, queste 35 poesie sul fondo del mare, Jason Forbus le affida all’andare dolce delle onde, quasi messaggi affidati alla bottiglia del destino – “destino di non destino”… prova a chiosare civettuolo, ma sa bene che è tutto segnato: la via della poesia è là, aperta: aspetta chi ha coraggio, e lui ce l’ha…

Forbus

Jason Forbus, La rivolta degli scheletri nell’armadio, Ali ribelli

Lettura per adulti e non soltanto per ragazzi (certo, almeno i ragazzi che sappiano leggere – che sappiano scorgere in quel che leggono non soltanto la storiella, la trama, il finale stravagante): La rivolta degli scheletri nell’armadio è un libro pensato e costruito nella sua struttura perché abbia un senso, perché dia un senso a quel che sembra non averne. La rivolta degli scheletri nell’armadio ovviamente non esiste in realtà (anche se a qualcuno ogni tanto gli rumoreggia l’armadio, se non lo tiene in ordine o lo riempie troppo)… Eppure, la vicenda surreale che inventa e racconta Jason Forbus fa pensare che potrebbe accadere – o magari accadesse davvero! Gli scheletri e gli altri (peraltro simpatici) mostri che popolano le pagine di questo libro possono – mutatis mutandis! è proprio il caso di dirlo – rappresentare i reietti e gli offesi, i diversi e gli oppressi che vediamo ogni giorno, o dei quali abbiamo notizia. Difficile identificare chi potrebbe nascondersi dietro i personaggi creati da Forbus (peraltro si avverte la lezione della grande tradizione del pamphlet politico inglese): troppo personaggi funzionali alla storia e troppo poco figure di persone riconoscibili. Ma nell’insieme la verosimiglianza esiste: gruppi di sfruttati potrebbero davvero organizzarsi (e chissà unirsi ad altri) per ribellarsi ad un sistema che li ghettizza. Forse nel libro romanzesco che Forbus ci propone è azzardato cercare simili suggestioni, o suggerimenti, ma pure è possibile immaginare panorami socio politici – nemmeno tanto distanti da noi – ai quali somigliare gli episodi qui sviluppati con dovizia di particolari e dettagli psicologici. Il giovane autore, in vista dei trent’anni ma già da un po’ di anni attivo nella diffusione di idee originali e provocatorie, alla sua prima prova di ampio respiro, mostra di avere il fiato per tenere il passo e senz’altro non si fermerà. Avendo al suo attivo anche la frequentazione del mondo poetico, resta da vedere quale strada vorrà percorrere e con quali frecce alimenterà il suo arco. Certo, conviene fare attenzione: gli scheletri del suo armadio sembrano pronti a dare battaglia per far valere i propri diritti di uguaglianza sociale – e Jason Forbus non sembra tipo da lasciarli soli.

Forbus s

Jason R. Forbus, Cantasogni,  Ali ribelli

Suggestiva e illuminante, l’apertura di questo Cantasogni:  fin dall’inizio, si presenta chiaro il cammino che faremo leggendo, ri-vivendo le parole/sogni del poeta Forbus. “Anno di un domani incerto” si augura “ricordami ancora di quei giorni […] quando le speranze erano acerbe e i sogni maturi”. È una finzione leopardiana (probabilmente anche inconsapevole), ma va oltre il naufragare, per quanto dolce, oltre la siepe dei ricordi. Forbus qui propone una lezione esistenziale che si fonda – beato lui – ancora su brevi tempi di memoria, mentre avanti “ci chiama” un lungo viaggio da sognare prima ancora di arrischiarsi a viverlo. Sta crescendo, il poeta appena trentenne che dipingeva “il blu silente”, già peraltro autore di varie prove letterarie (narrativa e grafica sono i campi nei quali a preferenza si esprime, di là della poesia). Sta crescendo, Forbus, e questo Cantasogni lo mostra più attento ai mezzi espressivi e acceso di volontà comunicativa: asciutto il linguaggio, articolata la maniera del verso, convincente il messaggio, personale ma aperto a prospettive in cui non è difficile affacciarsi. Il gioco della doppia versione linguistica, congeniale alla sua natura di bilingue, aiuta a comprendere del poeta la versatile natura: sa esprimersi in entrambe le lingue che propone in questo piccolo libro (appena venti poesie) e si diverte a cambiare senso passando da una lingua all’altra, in qualche modo ri-creando il testo, a volte quindi ottenendo quasi una poesia nuova, per cui alla fine può presentarne anche più di quelle che sono qui raccolte – cambiando una parola, o un nesso sintattico, muta lievemente, ma cambia anche il senso di quello che scrive. Il risultato complessivo è godibile, da far subito desiderare una nuova prova poetica di uno scrittore che sta sicuramente affinando le sue capacità e sarà presto in grado di mostrarsi in altre vesti.

 ***

 Emanuele Gaetano Forte, Rumore di cicale, Il Foglio

“Rumore di cicale”: il libro con questo titolo ha un vecchio televisore in copertina – potrebbe alludere al cicalare che oggi proprio alla televisione si rimprovera. Il fastidioso “rumore” che d’estate le cicale ci regalano è almeno indice di bella stagione, di aria aperta, di sole. Quello che emerge dalle dieci storie raccolte in questo libro del giovanissimo Emanuele Gaetano Forte è invece un rumore troppo noto per infastidirci, perché dovremmo ammettere di saper ancora provare un sentimento (il fastidio, appunto) per quello che d’altronde è il nostro mondo, il quotidiano bla bla che ci culla e ci ottunde. Il motivo conduttore di Rumore di cicale è infatti la riflessione a stretto raggio sull’esistenza (uno spaccato di vita provinciale che si fa comunque simbolo di condizione umana contemporanea). Che a riflettere in tal modo sia un ragazzo di vent’anni (e in chiave narrativa, agilmente variata) deve far riflettere anche noi. Che poi possa pensare che si possa (almeno cercare di) cambiare il mondo scrivendo un libro è ancor più sorprendente. Emanuele Gaetano Forte, appassionato e disincantato al tempo stesso, è capace di leggere nel mondo semplicemente quel che è, perché lo guarda con gli occhi del mondo (in soggettiva, si direbbe), gli occhi che il mondo sta dimenticando di avere, smarrito in un vortice di abitudini assimilate. Ci sono pagine qui di lancinante bellezza, di struggente slancio umano – magari mascherato da una freddezza che fa solo il verso all’indifferenza comune. Eppure non è difficile scoprire la cattiveria di un autore che – malgrado la giovane età – mostra una conoscenza delle cose della vita di sorprendente complessità. La sua capacità di analisi ha il pregio della chiarezza, senza fronzoli retorici. Ci sono figure in queste storie (resoconto di vita vissuta: difficile dire che “qualsiasi riferimento è casuale”) emblematiche e indimenticabili: come Federico (il piccolo grassottello innamorato perso che invano chiede a Gesu una grazia impossibile). L’apocalittica (profetica? chissà) “Ultima lettera” prepara la conclusione – è una conclusione. Anche se la fine del libro è segnata dalle terribili parole pronunciate da Esenin prima di suicidarsi (una citazione/ossimoro, perché vuole il contrario di quello che dice).

***

Gabriele Frasca, Lime, Einaudi

Non parliamo più di moda o di facile gabbia in cui proteggere (o nascondere) una difficoltà di essere liberi – nel dettato poetico – e credibili al tempo stesso. Deve avere comunque un senso e una ragione il ritorno (ma se ne era mai davvero usciti?) alla forma poetica chiusa: probabilmente vi si tempra una giocosa abilità nel dover essere. Napoletano quarantenne, Gabriele Frasca ha all’attivo – oltre il lavoro di poeta – importanti prove saggistiche, a testimonianza del suo impegno e della fiducia nel dire che nel libro della bianca di Einaudi in varie misure si manifesta. C’è una sezione di sestine, una di Quartetti (quartine di versi a rima tronca), ci sono i sonetti e i trismi (novenari); e testi con traduzione in inglese e francese. Lo stesso titolo Lime, che allude all’antico labor che produce il giusto modus nella poetica classica, è ancora un gioco tra passato remoto, e prossimo, e presente, sperimentando il nuovo con i vecchi strumenti: I Need To Leave My Behind In The Past è un titolo che dice tutto, nella sezione facili rime. Un esempio soltanto (dai trismi): mi basta no ancora ridammi  / l’appena sottratto la pena  / del fatto che finge programmi / futuri trascorsi poi mena / invece di questo sottile / limare quel colpo di scena / che possa spezzare le file / di tutta la rabbia rimasta / nel mentre che il fondo più vile / ripete mi piace mi basta [1998]

***

[481] Autori vari, Formia in giallo, Ali ribelli

Alla sua quarta edizione, il Concorso per racconti “gialli” ambientati a Formia, pubblica come sempre i sei finalisti in un volume da conservare. Inquietante anche la copertina firmata Renato Marchese, ma nelle edizioni Ali Ribelli la raccolta dei sei racconti ha un bell’aspetto. Gli autori antologizzati, quasi tutti alla prima esperienza narrativa, in realtà sono sette, poiché “Ritorno” è scritto a quattro mani, quelle di Silvana De Palma e Titti Corrado. Gli altri sono: “L’indagine del giovane Caio” di Antonio De Meo (formiano, vincitore con merito del concorso “Formia in giallo 2019”), “Nitrobacter Hormianus” di Francesco Di Chiappari, “Frammenti di ricordi” di Carmela Paone, “Problemi di toponomastica” di M.Rosaria Perna e “Sulle strade del mondo” di Maurizio Matrullo. Di lunghezza molto variabile (il più esteso è proprio quello che ha vinto) e di varia ambientazione, questi racconti interpretano liberamente il tema del concorso, oscillando dalla chiave delle memorie personali a quella scientifica e storica: l’archeologo De Meo, pur esordiente nella narrativa, costruisce una credibilissima vicenda con personaggi della storia romana realmente vissuti a Formia (Cicerone, Mamurra), squadernando una documentata conoscenza del territorio, della società romana augustea, della cultura latina. C’è chi unisce alla vena “gialla” anche un pizzico di amara ironia, come si avverte nei “Problemi di toponomastica” e nel “Nitrobacter Hormianus”; chi fa prevalere una malinconica nostalgia per la Formia che non c’è più – e si leggono diversi esempi di “quant’era bella Formia una volta”. In definitiva, oltre ad essere una raccolta da leggere per scoprire “come va a finire” una storia, questo libro può leggersi per avere un quadro socioambientale su cui riflettere: con più o meno intenzione, gli autori dei sei racconti propongono uno spaccato del tessuto umano formiano molto realistico. Le vicende narrate, d’altronde, inventate o meno, potrebbero accadere anche altrove, ma qui si coglie (al di là dell’impostazione “gialla” che in effetti non è dominante) il respiro dei luoghi, e della gente, in un comune desiderio – negli autori tutti – di rendere omaggio a una terra, a una città. E forse lo scopo del Concorso, curato dall’Associazione “Formia Turismo”, è proprio quello di richiamare l’attenzione, più che sulla semplice dimensione agonistica della scrittura, sulla necessità di non distogliere lo sguardo dai problemi di gestione di un complesso microcosmo ricco di testimonianze storiche e culturali [2019].

D’Ambrosio – D’Angiò – D’Aniello – De Angelis – De Lucia – De Santis – Di Nitto – Di Ciaccio – Di Biasio R. – Di Spigno – Di Mare

Leone D’Ambrosio, Sulla via di Damasco, Genesi

Fa venir voglia di giocare, la poesia di Leone D’Ambrosio, invita al gioco nobile della variazione, spinge al confronto, a misurarsi con uno stile, un linguaggio, che sa di vette conquistate al termine di faticose ascese, sa di un cammino consapevolmente arduo… e di compleanni stramazzati sotto il cielo di illunate primavere. Questo probabilmente per l’autore di un libro è un complimento piuttosto cerebrale, che poco soddisfa chi abbia scritto per solleticare sentimenti comuni e interessa invece chi poco si cura del plauso banalmente tributato dal lettore in pantofole… D’Ambrosio continua a crescere, non ovviamente soltanto anagraficamente, ma nell’impegno e nella qualità espressiva della sua produzione poetica. Ora (chissà poi perché) “sulla via di Damasco” è ancora più denso il suo dettato, e si avverte, nell’uso di verbi coniati in modo allusivo ma insieme fortemente connotativo, di certi aggettivi che sanno di nomi e di verbi in modo inequivocabilmente retorico, di citazioni più o meno esplicite o memoriali… insomma una gamma e un repertorio di strumenti e attrezzature di prim’ordine, che impongono attenzione e però fanno alla fine contento chi legga con l’attenzione che un simile testo merita. Forse “sulla via di Damasco” il poeta è rimasto accecato proprio dalla visione di sé, di un sé migliore che lo ha chiamato a lavorare con lo slancio più deciso di cui aveva bisogno la nuova creatura in gestazione: la poesia adulta si misura dalla volontà con cui la si pratica e la si propone – Leone si è fatto ormai davvero leone, sa come sbranare il lettore distratto, sa come catturare proseliti al suo stile. Forse non gioca lui, ma giocare con lui è rischio di esaltazione (è per questo che si è messo su quella “via”? per attirare i compagni di viaggio a viaggiare con lui verso la meta più ambita?). La figura del padre – del padre del poeta e del poeta/padre – è emblematica, nella raccolta (vi sono esempi mirabili: “La Dauphine di mio padre”, un graffio d’amore dedicato allo scomodo martire di un’età perduta, Luigi Tenco ; “Stagione felice”, che è presentimento ed esorcismo di morte; “Figlio mio”, una miniatura che infiamma); lo è anche perché essa pure richiede una presa di coscienza che solo su certe “vie” si sa come accettare e affrontare? Potrebbe essere chissà una chiave di lettura dell’intero libro. Che peraltro vive di numerose indicazioni tematiche e ideologiche, poetiche e sociologiche, da tenere in debito conto poiché costituiscono un tessuto compatto nel quale la personalità dell’autore si fa guida amichevole, testimone e lettore al tempo stesso dell’uomo che è, dell’uomo che vorrebbe (essere/avere). Il sentimento del tempo (e non a caso questo libro esce in una collana intitolata Le Scommesse) è un altro motivo conduttore che regge nel lavoro di D’Ambrosio: vivere oltre, non è questo il desiderio comune di chi lavora per darsi, e per amore della parola coniuga il proprio, limitato, con il tempo (incommensurabile) che verrà? In questa “via di Damasco” il poeta affonda passi decisivi in direzione della verità, sapendo che difficilmente sarà solo, ma la compagnia sarà di quelle di cui diffidare, considerato come va il mondo, come scorrono gli eventi, come la storia si ripieghi ingrata su se stessa, mai contenta (è la matrigna leopardiana che ancora ci perseguita, moloch insaziabile?)… il Novecento – che pure s’era aperto con le “lettere piene d’amore” scritte sul Carso tormentato dal giovane Ungaretti – è stato un susseguirsi impietoso di drammi che stordiscono la mente, feriscono l’animo, invitano a piangere anche per quelli che gli occhi non riescono più ad aprirli, per essere rimasti folgorati troppo lontano dalla “via di Damasco”. [2002]

***

Leone D’Ambrosio, Amore segreto, Edizioni Menna

Come è bello crescere e maturare! Leone D’Ambrosio sarà d’accordo certamente nel cogliere questo dato inequivocabile nel suo fare poesia oggi, ben lontano da certi esperimenti degli esordi, ormai lontani. Si cresce, si cambia: nulla di più normale, ma pure si conserva una cifra che consente di riconoscere, nel mutamento stesso che si avverte, il dettato personale. D’Ambrosio non ha perduto infatti il gusto per una ardita scansione del verso, per un lessico scelto, anche se tutto adesso gli scorre più lievemente, più dolce si è fatta la sua trama espressiva. Qui rinuncia anche ai titoli, perché nasca e si sviluppi un flusso ininterrotto di pensieri e immagini, che si faccia strada nella mente e nell’anima, in cerca di una verità ultima… se esiste. “È una finestra socchiusa la verità” – ma è dentro o fuori che si guarda? Siamo attori o spettatori di quella verità? “Ho il tuo cuore per nascondiglio” – fra i tanti riferimenti alla triste e dolorosa realtà (Beslan e Madrid, Najaf e Gerusalemme), ci si vuole scoprire ancora capaci di sentimenti genuini, portatori di valori irrinunciabili: “voglio amarti con le mie diffidenze” – è impossibile dimenticare la profezia di una nascita solare e una sorte scritta sulle pietre calde ove il mare accarezza un ospite/messaggero. Questo Amore segreto (ne è forse un malizioso ossimoro la figura che si scopre in copertina?) è un libro maturo, di un autore consapevole della propria forza, proprio mentre gioca a rimpiattino con se stesso, a gatto e topo col suo cuore e col cuore di… chissà quale segreto amore, se non dobbiamo pensare che in fondo a tutte le strade che portano all’uomo adulto, attento al male del mondo, c’è ancora il bambino che di quel male si stupisce e in quelle strade vorrebbe ancora giocare a nascondino senza farsi trovare…   “affido a te la mia corsa contro il vento”…

 ***

D'Amb

Leone D’Ambrosio, La parola scura, Azimut

Spaventa appena il titolo (che fa temere qualche vezzo post-ermetico) ma qui è tutto chiaro, in questo libro di Leone D’Ambrosio: La parola scura è tale forse più in chiave tardo-scapigliata… La parola si fa “scura” poiché costretta a guardare un mondo al quale sempre più si sente estranea, e nel quale pur vorrebbe incidere – ma l’uomo che ascolta fa più che mai fatica ad ascoltare (a leggere, a capire)… Le 50 poesie di questo suo sesto volumetto di versi confermano il D’Ambrosio ormai noto alla critica: accorto utilizzatore di ricercatezze lessicali (a volte anche ardite) in mezzo a squarci di profonda riflessione (echi di frequentazioni filosofiche?). In effetti è predominante – seppure a volte criptato, latente, sotteso – il gioco sulla parola: quasi un ossimoro fra il primo e l’ultimo titolo della raccolta, “La parola scura” e “La parola che si scrive”… significa forse che scuro è quel che si scrive?  forse, appunto, se è vero che fa scuro sotto il ciglio della notte e chissà se un nuovo giorno porterà davvero luce nuova (quando sarà passata la nottata!): infatti, “l’alba è un ciglio alzato”. La silloge proposta da Leone D’Ambrosio, per di più suffragata da una vasta campionatura di testimonianze e giudizi critici, è particolarmente densa e distesa: ci si respira insieme una convinta maturità espressiva (non autoreferenziale) e una serena tensione ad approdi lontani (ma non tanto: “Non è penitenza la strada in salita”). Qui ci si offre piuttosto ai sentimenti buoni (svetta una toccante lirica per il padre – “Mi siedo sulle tue ginocchia stanche / per avere in cambio / un anticipo di stagione passata” – e presenti sono pure altri affetti privati) e si cerca – con passione, con forza – di correre insieme al tempo incalzante (altro tema portante del libro: “per fuggire dai miei compleanni”) per esorcizzarne la paura e la malia, per superarne i guasti e gli sprechi (“bisogna stare negli anni / con la morte sotto il letto”). Infine, la posizione del poeta, per quanto ambigua l’esistenza possa sembrare, spinta/illusa da sirene incantatrici, deve essere ferma e chiara, “da quale parte stare non si sceglie” – si è purtroppo semplicemente se stessi, offerti a chi (“forestiero di notizie”) potrebbe ancora chiedere se quella “parola scura”, decifrata, assaporata, possa far luce, un poco, per l’aspro cammino in attesa.

Leone D’Ambrosio, Il canto di Erato, Azimut

È difficile l’arte dell’incontro – ma è bello incontrarsi. Il canto di Erato non è un libro che ti cattura subito, ma devi lasciarti prendere – ne vale la pena, attendere una seconda lettura e scendere con cautela nelle infinite trappole linguistiche, nei trabocchetti dei sensi che sono la trama lirica e sonora di questo canto. Ha ragione la Spaziani nella sua presentazione: questo libro “merita di chiamarsi Canto”. Si rincorrono e si chiamano parole da un testo all’altro (diverse volte capita di incontrare all’inizio di una poesia una parola che era alla fine della precedente) – si accostano e si legano parole in sequenze probabilmente nate dentro e accettate in uscita come dono di un canto della mente. I lemmi del morire, lungi dall’essere una triste nenia, si coniugano insieme ai termini più dolci e delicati, rispondendo all’armonia del dettato. Il procedere nei versi è segno di elegante agilità inventiva, capacità di orchestrare insieme immagini e sogni, abilità ormai assimilata all’esercizio stesso della vita. Si diceva una volta che poeta si nasce; ma poi – bisognava aggiungere – non si doveva dimenticare di esserlo. D’ambrosio lo sa, non vuole dimenticare di aver fatto una buona scuola e ne mette a frutto gli insegnamenti, provandosi a superare i maestri. Va detto infine che di recente D’Ambrosio ha vinto un importante premio a Marsiglia, dove è stata pubblicata una sua raccolta, tradotta in francese da lui stesso, che a Marsiglia è nato 50 anni fa – e auguri per questa ricorrenza doppiamente felice.

Leone D’Ambrosio, Anticlea è mia sposa, BAE

“Anticlea è mia sposa”, dice Leone D’Ambrosio in questo suo ultimo libro di poesie (arricchito anche da una penetrante nota introduttiva di Andrea Gareffi), che appunto ha quel titolo e riporta in copertina (altro arricchimento) una figura erotica di Normanno Soscia. Perché la scelta di Anticlea, non è chiaro subito, ma chi ricorda l’omerica figura della madre di Ulisse meglio comprende il senso di questa dedica… Questa raccolta di versi (ormai sono una decina i lavori pubblicati da D’Ambrosio in un quarto di secolo) è un colloquio, che si vorrebbe – e non è – dimesso, appunto colloquiale nei modi e nell’espressione – che risentono inevitabilmente di alte ascendenze letterarie. Parole ricorrenti legano i testi (terra e radice, ad esempio, e dolore e amore) in una (probabilmente voluta) contiguità tematica ed espressiva. Ma è un finto colloquiare, poiché il tono è sostenuto e spesso il linguaggio si fa aspro, ricercato nel lessico e spericolato nella scansione. A chi ci si potrebbe rivolgere così? Forse alla madre ideale che tutto comprende poiché del figlio è radice e sogno perpetuo… “Il nostro tempo è dolore… quieto nel petto / che a te affido radice”. Lei, l’altra, chiunque sia, risponde comunque col silenzio, in silenzio… e la si può sentire quindi non come materica voce ma come “ombra muta”… Sembrerebbe dunque poca cosa la “quantità di te” che si può possedere, ma basta a fortificare l’animo schiudendo la voce al poeta. Dandogli non solo la voglia (esigenza) di aprirsi e comunicare ad altri il suo sentire privato, ma la volontà di misurare il suo dire nella misura mitica è nuova forza, necessaria in tempi di bilanci poetici, ed esistenziali al tempo stesso.

D'Amb Anticlea

Leone D’ambrosio, Liturgia de amor (poesias 2002-2012), La Garùa

Opportuna e accurata, questa scelta poetica che Leone D’Ambrosio ha affidato a Carlos Vitale per la traduzione in spagnolo; opportuna perché (con una decina di libri alle spalle) comincia ad essere tempo di bilanci per l’autore pontino, il quale peraltro ha personalmente curato la composizione della silloge, attingendo in prevalenza dalle sue ultime pubblicazioni. Questa Liturgia de amor (che esce direttamente con testo a fronte per le edizioni La Garùa di Barcellona) è, quindi, una toccante sintesi di almeno un decennio di lavoro (lo dice il sottotitolo): amori ed umori di un uomo che cresce nel farsi poeta, sensazioni e sentimenti da condividere por amor de la palabra. D’Ambrosio infatti è un artigiano paziente, che crede nel valore della parola – e le affida il succo delle sue radici perché non si esaurisca in lui la forza di una pesante eredità. Poiché sa di avere una lunga tradizione alla quale soddisfare la sua sete – e da quella sua sete soddisfatta altri potranno ereditare la forza per essere se stessi. Così egli rievoca i propri cari appena scomparsi e ne coglie “l’impronta” (che è “l’impronta della parola”), la “carezza” (che è memoria di assenza). Così infine sente di potersi augurare (convinto di aver dato prova di onestà intellettuale) che rimanga la sua voce oltre il suo tempo, sulla via di un cielo ancora distante da raggiungere. Chi conosce l’autore, trova in questo prezioso libretto (peccato, appena 32 poesie, a costituire comunque una trama di forte coerenza tematica) le espressioni più alte del suo dire e il messaggio più attento: “Se ti do i miei anni allora tu moltiplicali a festa”. È quello in fin dei conti il primo scopo da raggiungere, l’obiettivo dichiarato di un raccontarsi senza false vergogne, anche nell’intimo del dolore privato. Leone D’Ambrosio guarda lontano e non gli interessa una “festa breve” (a breve) che magari gli dia un sollievo momentaneo; punta alla “grande festa” che è la comunione spirituale con il prossimo, se – leggendo la sua poesia – saprà “lietamente” ascoltarlo. Non sembri eccessivo leggere qui un’eco di Francesco, se il poeta dichiara “Sarò liturgia d’amore per te”, se conosce i sentieri faticosi del dire per dirsi e darsi come può.

***

Leone D’Ambrosio, La stanza dIppocrate,  G. Laterza

Entrato nel suo sessantesimo anno di vita, l’ex ragazzo Leone, che esordì piuttosto giovane facendo poesia sperimentale (quanto remoto, quel tempo!), si è messo a rovistare nei cassetti dela memoria e ne ha tratto ritratti custoditi amorevolmente, suggestioni e sensazioni da condividere. Come in un armadio delle medicine – forse il titolo di questo libro, La stanza dIppocrate, allude anche a questo – si conservano quelle utili e quelle che magari si spera di non dover usare… qui invece è tutto in ordine e serve a tenersi su mentre il mondo pare perdere consistenza nei suoi valori e negli scopi stessi dell’esistenza. Qui un nome – e insieme ai nomi episodi e momenti che hanno costruito una vita – è già un’etichetta rassicurante. È appena il caso di notare come siano presenti, accomunati da identico affetto, i familiari e gli amici di penna, i numi tutelari e chissà quali e quanti altri che non è dato riconoscere – ma tutti qui abitano insieme quella “stanza” miracolosa, un girotondo intorno al cuore che fa bene alla mente. Perciò La stanza dIppocrate è un libro d’ore, un repertorio di cose buone che fanno ricca la casa del poeta. Leone D’Ambrosio sa come orientarsi nel suo privato museo e sa guidare il lettore attraverso gli spazi che costituiscono il suo stesso farsi poeta, vivo della vita che in quei frammenti memoriali si fa vera, la sua, la nostra [2016].

***

Enrichetto D’Angiò, Ricordi all’ombra del campanile, sip

 

Enrichetto

Lo stesso D’Angiò sottolinea – raccontando uno degli episodi più toccanti del libro – che “l’umanità è composta da tanti piccoli gesti e non solo da grandi imprese”. Encomiabile il suo lavoro di ricerca e sistemazione dei tanti frammenti di storia locale, tutti scrupolosamente documentati (che si incastrano in quella nazionale, specie quando si tratta della dolorosa ricostruzione degli eventi bellici, particolarmente luttuosi nella nostra zona). Ma – conoscendolo – si può essere sicuri che Enrichetto si accontenta di un semplice grazie da parte di chi, leggendo queste pagine e magari commuovendosi anche un po’ (ritrovando nomi e fatti conosciuti, notizie su parenti ormai scomparsi), ne coglierà lo spirito che le anima: abbiamo solcato mari tempestosi e territori ostili, abbiamo versato lacrime e sudato sangue – ora è tempo di memorie, sì, ma pure di rinnovato coraggio per andare avanti. A scorrere i rapidi e densi capitoletti di questo repertorio dell’anima, si rimane spesso colpiti dalla apparente freddezza dei dati, delle date, dei nomi, dei soprannomi… ma tuto è vita, poiché ad ogni numero corrisponde una persona, un episodio della sua tormentata esistenza (quanti morti, purtroppo, bisogna numerare – specie nel periodo bellico, ma pure per la sfortuna che ha colpito alcuni, a volte ancora giovani!). Lo scrupolo della personale analisi compiuta dall’autore di questo libro è suffragato dalle numerosissime immagini che lo corredano; a voler ancor più e meglio precisare: questo è lui, questa è lei, qui è com’era e qui è com’è. Sono imperdibili le pagine dedicate alle vecchie usanze del paese, da ricordare ad esempio alle nuove generazioni – come si dice abitualmente, con un pizzico, amaro, di speranza: i giovani oggi difficilmente si accostano alle cose di casa, se hanno più di qualche ora di vita. Qui si coniuga invece il passato col futuro e ai giovani questo discorso non va tanto a genio, presi come sono – i più – in un presente banale che li paralizza e toglie loro il gusto della storia. Nella rivisitazione, accurata e accorata, delle vicende umane del suo piccolo paese (Trivio, frazioncina del Comune di Formia), Enrichetto D’Angiò esercita la pazienza infinita dell’innamorato che vuole custodire un patrimonio comune di memorie, non soltanto perché altri le possano consultare e confrontare, ma proprio per amore, poiché egli mostra di amare davvero la sua terra e la sua gente, per quello che la storia ha concesso loro di vivere (faticosamente, per lo più), e gli dispiacerebbe vederne le piccole gesta sciogliersi nell’oblio. Ama tutti quelli che hanno vissuto le vicende che sono racchiuse nelle pagine di questo libro, somma di minuscole esperienze consegnate alla grande Storia [2017].

***

Romina D’Aniello, La bambina che non sapeva giocare, Ciolfi

È la storia di un’esperienza di vita con la guerra di mezzo e tanta fatica, dopo, per recuperare dignità e credibilità, identità, personalità. È quindi un libro, questo di Romina D’Aniello, in cui si parla di storie (con la minuscola) che fanno la Storia (maiuscola), ed è bello quando la Storia (maiuscola) si accorge di essere fatta, di avere bisogno delle piccole storie quotidiane. È il rispetto che si deve a chi ha faticato per costruire, con la propria, anche la storia del suo paese, della sua gente, contribuendo al cammino della grande Storia. Se è vero – in qualche modo lo disse già Svevo – che occorre pubblicare solo i libri necessari, ma necessari a chi? Questo racconto della bambina che non sapeva giocare (penso a quante come lei furono educate, votate a fare solo quello che serviva, non a giocare) a chi serve? All’autrice, forse, che – con forza e dolcezza – ha affrontato il compito di scrivere non per sé, ha fatto vivere un’altra donna come se l’avesse inventata lei nelle sue pagine (per bravura di scrittrice) e invece ha ridato vita a una vita vera, vissuta, che rischiava di essere solo sua, di chi appunto l’aveva vissuta (quasi miracolosamente, sfuggendo alla morte una o forse due volte) – e invece, ecco la necessità, ed ecco l’amore, anche, invece Romina D’Aniello ha preso carta e penna(o gli altri aggeggi che usa) e ha rivissuto insieme alla protagonista una pesante esperienza esistenziale che adesso – in questo libro – servirà a tutti coloro che sapranno leggervi (filtrata dalla scrittura ma vera nella sua necessità di comunicare) la Storia che è quella di tutti, poiché ciascuno ne fa un pezzetto, e per amore (l’amore che ha consentito a Romina di firmare una cosa ormai sua poiché per amore la signora Anna, la vera protagonista, gliela aveva donata), la si vive anche soffrendo tutti insieme. Questo in definitiva il senso di un’operazione giornalistica – come in effetti è nata – diventata letteratura perché capace di testimoniare in altra forma una storia privata fatta modello, ricca di episodi e persone, non personaggi, verificabili eppure ormai patrimonio collettivo come un romanzo, come una storia che (aiutando a guardarsi dentro) diventidi chiunque la legga.

Romina rg

 ***

Filippo De Angelis, Peraforte de na ota e de mo, Eva

È una pregevole sintesi l’ouverture storica “A Peraforte”… “contrada solinga, sul poggio sopita”, che i giovani abbandonano “sognando la luna”. Come fece anche l’autore, il quale ricorda che da giovane “ti voltai le spalle”, “sperando che altrove trovasse fortuna”. A qualcuno è riuscito, magari con fatica, con la fatica che in paese pareva eccessiva e in altri luoghi è stata comunque necessaria; a qualcuno è riuscito di cambiar vita ed ora ritorna a parlare con i vecchi, rimasti i soli custodi delle quattro pietre (“ste quattru casi”), rimaste senza vagiti (possente immagine di solitudine! Figure e mestieri “de ‘na ota” sono raccontati con didascalica partecipazione descrittiva, con i dettagli linguistici che caratterizzavano le attività della mietitura (“A mete… a mete…” è un piccolo capolavoro di manualistica lessicale), della trebbiatura, della vendemmia, e i lavori del canestraio, del calzolaio, del fabbro… non c’era la lavatrice, a Peraforte, e fare il bucato era anch’esso un avvenimento da preparare con le dovute attenzioni… come la panificazione in casa (e quei biscotti rubati ancora caldi nelle teglie sono un momento di finissima delicatezza nel ricordo del tempo passato). Il senso del tempo che passa è evidente, sottende quasi tutta la silloge, costruita proprio sul rapporto prima-oggi (doloroso anche se non privo di ironia). “Ritorno a Peraforte” è un esempio di questo rapporto vissuto in prima persona e testimoniato senza pudore: “più passa tempo e più me faccio vecchiu / e più revaio arreto co la mente… dolce paese meu retrovatu / ognunu qui da te troa se stessu… e allora vaffanculu lu progressu”. Il primo segnale che si coglie in queste pagine di De Angelis – commosse quasi sempre e commoventi spesso – è che “niente è mutato”, malgrado le apparenze, nonostante il progresso abbia eliminato certe sacche di ignoranza e povertà. Ma le vecchie cattive abitudini, quelle no, resistono ai mutamenti – si sa – se si può approfittare di circostanze favorevoli, di coperture e mascherature varie. Tanto “paga Pantalone”… È sempre stato così, quando si tira a risparmiarsi sul lavoro, perché tanto c’è chi provvede (“allora come mone / se lavoraa pocu, pocu assai / se a pagà ce stea Pantalone”); amara osservazione che d’altronde è un po’ il filo conduttore dell’analisi sociologica che De Angelis propone sotto forma di giochino memoriale.

De Ang Peraf.jpg

***

Filippo De Angelis, Viaggi, Mangiaparole

Se avesse voluto scrivere un’epigrafe personale, sintetizzando il senso dell’operazione poetica compiuta in questo suo quarto libro di versi, Filippo De Angelis avrebbe potuto usare la chiusa della poesia (quasi) eponima, che in effetti apre il libro: “Viaggio”: “non sono mai mute le orme del passato” è una chiave passepartout da tenere in seria considerazione per leggere questa prova lirica di un inguaribile sognatore. E sognatore in questo caso è nel senso di nostalgico laudator temporis acti, di raccoglitore e custode appassionato delle memorie più belle – eredità non lieve di una vita a lungo errabonda, e di una inguaribile curiosità. La vita, in fondo, è un “infinito viaggio”… fatta di viaggi e paesaggi, paesi mete di viaggi o ipotesi di ritorno (paesaggi itinerari dell’anima)… ma infine non sappiamo dove andare, seppure ricor­diamo l’origine del nostro andare, le prime tappe, i primi traguardi: ora, bilanci, progetti nuovi, diventa tutto più difficile, più pesante il bagaglio che sentiamo addosso. C’è un tempo (i viaggiatori abituali lo sanno) in cui si rimane con se stessi, come in pausa, incerti sul da farsi. Quando “solo noi restati, già vecchi / e i ricordi”… si cercano in un vecchio “Album fotografico” le prove di un vissuto che addirittura sembra esistere soltanto perché ce ne ri­cordiamo. Osserva tutto, in questi suoi Viaggi, De Angelis: i “viottoli inghiottiti dai cespugli”, lo stanco tornare a riva della “barche bianche”, “il tappeto delle foglie morte” e “lo scop­piettio del ceppo nel camino”… E all’occorrenza cambia stile: sa bene come si scrive, poiché si avverte l’eco della letteratura, della poesia che ha frequentato… Tuttavia, mantiene a prefe­renza un profilo basso, personale e ormai riconoscibile, chi conosca le sue prove precedenti (in lingua e in vernacolo): il suo intento è in primis farsi capire e seguire dal lettore. Compagni di viaggio, sì, ma ognuno col suo biglietto: ciascuno, invitato a bordo, sappia che dovrà pa­gare il costo del suo tragitto, facendo attenzione a quel che vede, a chi incontra per via. È una specie di caccia al tesoro: il tesoro però è la caccia stessa, poiché alla fine si vince l’esperienza che se ne ricava. Così, appunto, è la vita.

***

Filippo De Angelis, E non è mai troppo lungo il giorno, Edzioni Eva

 De Angelis

E non è mai troppo lungo il giorno lusinga fin dal titolo: qui si avverte anzi si coglie, appena velata dallo scanzonato incedere da finto dilettante (e certo nel diletto di chi sa bene dove mettere i piedi sul terreno minato della metrica e della retorica), qui c’è la poesia, ed è facile prenderne bocconi salu­tari. Finge nonchalance, l’autore, nell’uso delle forme, ma sa bene che la forma è sostanza, in poesia, e sa bene che usare certe forme deve pur sembrare casuale, ma non lo è mai. Così troviamo uno straordinario controsonetto, con le terzine avanti alle quartine (“L’albicocco disubbidiente”), e subito dopo un sonetto all’inglese (“Fukushima”)… ma ci sono i sonetti di struttura classica ed altre combinazioni di versi. Ci sono vertici di poesia in questo libro che si possono senz’altro condividere: “Pensionati” e “Un poeta”, ad esempio – sintesi neorealistica alla Umberto D, la prima, e reminiscenza di cantautore ispirato (alla Locasciulli) la seconda. Ci sono comunque pagine ove cogli sicuro il canto dell’animo provato, di un animo anche esacerbato per certi aspetti eppure capace di sorridere e addirittura scherzare anche con le brutture della vita. In una superiore accettazione che sa di Orazio sabino, e sa molto di persona seria – consapevole di non dover tradire una missione onesta, qual è quella del poeta. Il poeta è un ragno che tesse reti e vi cattura il lettore, non per mangiarselo, piuttosto per farsi mangiare: paradosso di masochista. Che bel gioco di citazioni involontarie è “Autoritratto”, un testo che potrebbe essere insieme di Palazzeschi e Corazzini, cioè il meglio del minimalismo fatto manifesto. Il tempo la fa da padrone in questo libro (va detto quanto sia allusivo il titolo), con le diffuse memorie dell’infanzia – l’età in cui tutto sembra fuori del tempo – e i ricordi vivi e toccanti di una giovinezza fortemente vissuta e ancora sentita dentro: “Odio il tempo che fugge! mi sorpassano le ore, i giorni, a destra, a sinistra, irriverenti…” (in “Tempus fugit”). “Giro ogni sera quel foglio che al mattino era bianco / e ogni sera stupisco del corso dei giorni e dei pensieri / È solo un promemoria da consultare il giorno del giudizio”. Questo breve testo – quasi in chiusura del libro – ne fissa cardini e chiavi di lettura: inutile sforzarsi, è improduttivo credere che ci possa cascare addosso una bella mela come capitò a qualcuno… tutto va conquistato, annotato e registrato: ci sarà alla fine un rendiconto o un redde rationem, per chi ci creda, e bisogna arrivare puliti, tanto dato e tanto avuto, meglio se “nudo come all’arrivo”, per avere un “processo equo” alla porta della fine. Amarezze? No – sempre meglio prepararsi per tempo a qualsiasi viaggio (figuriamoci ad un viaggio nel, o oltre il tempo!). Se non si dovesse pensare alla forza dell’invenzione, se il poeta non fosse spesso un costruttore di sogni ai quali credere, deluso da una vita ormai priva di sogni – questo libro di Filippo De Angelis farebbe nascere il sospetto (forse anch’esso alimentato ad arte) che ci troviamo di fronte un impenitente dongiovanni! tante le manifestazioni e descrizioni di tentazioni e soddisfazioni più o meno appagate. Fermiamoci a quel che vediamo e ci basti l’idea senza toccare i dettagli, ma ce n’è d’avanzo per un altro libro. Che potrebbe avere titolo “In un mondo diverso” (dove incontrare al bar una bella ragazza e portarsela a fare una passeggiata innocente, dove assaporare la freschezza assassina di una carne invitante e proibita…): in un mondo diverso abita la fantasia e il poeta ci va spesso a ristorarsi, quando gli torna l’appetito, quello che umanamente si abitua a contenere o reprimere… Al poeta sono consentiti sogni più reali della realtà, e per questo il suo giorno è sempre così lungo (“mai troppo”, però), perché sa come viverlo, e raccontarlo, come potesse essere vero anche per chi ne legga il suo racconto. Di questo va sempre ringraziato.

***

Gianluca De Lucia, Transgredior, Edizioni Eva

Transgredior

Il giovane Gianluca De Lucia si affaccia con timore alla scena editoriale ma pure consapevole dei suoi mezzi – che devono essere affinati, certo, ma gli consentono già qualche momento di sicura presa espressiva. Il titolo del libro di esordio è già un biglietto da visita con il quale poi si dovranno fare i conti. Ci si butta nell’arena e ci si dichiara: è una sfida e insieme una maschera – chi sono io per aver deciso di uscire in fra la gente e farmi valutare come poeta? Allora transgredior significa proprio questo: eccomi pronto a sfidare le regole e giocare con voi che mi leggete. Gianluca d’altronde si rimette apertamente al suo lettore ideale, al quale chiede perfino di essere aiutato a comprendere il senso della sua poesia. Ed è bello, da parte di un giovane (oggi, si sa, i giovani sono diventati un tantino arroganti); è bello vedere in un giovane alle prime armi, alla prima pubblicazione, lo sforzo di farsi capire, il timore di non essere compreso, la speranza di trovarsi nel giudizio del lettore. Questa raccolta di Gianluca De Lucia si compone di 46 testi, scritti in un arco di anni considerevole, visto che le prime cose qui presentate risalgono alla prima adolescenza. Nel complesso, il libro c’è, si dipana in una serie di temi connessi alle dinamiche esistenziali, agli affetti provati, alla voglia di conoscere il mondo. Conviene che ad un libro di esordio si perdoni qualche leggerezza, ma qui ce ne sono di lievi davvero – ingenuità formali che non tolgono peso al dettato lirico, abbastanza controllato. L’autore di Transgredior sembra avviato a correre con rinnovato slancio le vie della scrittura: non gli mancano gli strumenti, per quanto ancora debbano essere migliorate certe maniere di approcciare le forme espressive. Non gli manca soprattutto l’onestà (anch’essa rara, ormai) di confrontarsi e di accettare consigli – bisogna leggerlo con la stessa onestà

***

[464] Massimo De Santis, Occhi di fuoco, Fondazione M. Luzi

Può la poesia farsi voce di un’anima inquieta, di una mente indagatrice – può mettersi al servizio di un’idea? Ma è vero che la poesia serve a chi ne ha bisogno, a chi sente urgere dentro di sé, e montare fino a chiedere di aprirsi al dialogo, un pensiero creativo che pone istanze nuove su cui misurarsi. È un atto d’amore, la poesia, un darsi a chi riceve, ma con l’augurio che dall’incontro si generi vita nuova – magari un’idea condivisa da riprendere e riproporre ancora. Massimo De Santis di idee ne ha tante, e voglia di esporle, pure, e trovare compagni di strada ai quali porre domande sul comune sentire. Settimo libro in dieci anni di attività, Occhi di fuoco – scrive Mattia Leombruno nella nota di copertina – “affronta, in continuità dialettica, la dimensione più impalpabile e fuggevole della nostra vita…”, sviluppando quindi un intimo discorso convinto e seducente, nel segno dell’amore, del generoso slancio che ci fa uomini. La parola amore è tra le più presenti, nelle pagine di questo libro che ne conta un centinaio, insieme alle sue varianti sentimentali: De Santis conosce bene il suo terreno: “Mi muovo dolente in mezzo ai naufragi dell’anima”; sa che all’amore non c’è rimedio e soffrirne è condizione necessaria per viverlo (“ancor più doloroso è conformarsi all’Amore” e a volte “passò l’Amore ma pochi lo scorsero”). C’è qui una casistica impressionante che farebbe invidia a Don Giovanni, con eguale disincanto, forse, con la vissuta consapevolezza di un’impresa che rischia di essere fine a se stessa, poiché di rado s’intravede uno scampo al male di essere come si è: innamorarsi, amare, farsi amare è un gioco crudele. L’autore di questi Occhi di fuoco non pare abbia voglia di cincischiare e trastullarsi: De Santis mira al cuore e non si cura dei dettagli; espone i suoi temi quasi sempre con piglio deciso, tono assiomatico, poi si interroga (e coinvolge il lettore interrogandolo) sulle questioni che lo assillano (articolando la scansione dei versi in modo che definire spericolato è già un eufemismo), ma gli importa dire e non come lo dice – rischia anche la prosa, e non se ne preoccupa: ciò che conta per lui è schiudere porte e mostrare ambienti nuovi, nei quali accomodarsi a scambiare due chiacchiere e conoscersi meglio. De Santis ha netta la percezione di sé (“da solo io non mi bastavo”) e presume che tutti la abbiano, che siano disposti a correre e cercare “un’altra via”, puntando ad una soddisfazione non effimera. Ci si può aiutare a vicenda? Il poeta prova a farsi sodale e solidale; prova a dare indicazioni: chi può, chi vuole, chi sa ne fa l’uso che il suo caso gli suggerirà [2018].

***

Franco Di Mare, Il cecchino e la bambina, Rizzoli

È più facile parlare di ieri o di oggi? Quando si scrive per mestiere, conviene dire quello che si vede o quello che si pensa? Sono le domande che si pone il reporter, o si poneva, ammesso poi che esista ancora il reporter che scrive dal teatro delle operazioni, come si diceva una volta. Oggi che c’è tanta televisione e i notiziari stessi arrivano via internet… ma la figura dell’inviato che sta nei luoghi in cui si svolgono avvenimenti che passeranno alla storia, ancora ha un senso, ancora fa “audience” anche sulla carta stampata. Alcuni di questi, poi, con gli articoli già pubblicati, e/o con altre riflessioni sulle proprie esperienze, fanno un libro. È il caso di Franco Di Mare, giornalista napoletano inviato di guerra per vent’anni e conduttore di trasmissioni giornalistiche televisive: non si scappa dal racconto del quotidiano, chi l’abbia fatto per mestiere, sulla carta o in video, rimane un testimone diretto che non rinuncia a dire la sua. A volte è una sofferenza, poiché l’animo umano si fa piccolo di fronte al dolore del prossimo e il giornalista non riesce a starsene distaccato e a raccontare con freddezza quel che l’uomo vede e intende comunicare. Così Di Mare scrive un libro di memorie che è un atto di accusa: Il cecchino e la bambina (subito vincitore del Premio “Città di Gaeta”), fin dal titolo, terribile, quasi un ossimoro (“come si fa a inquadrare nel mirino del fucile di precisione un bambino che sta giocando e decidere di premere il grilletto e far partire un proiettile calibro 9?”)… e il primo dei ventuno capitoli, “Amira”, appunto è la storia di una bambina uccisa da un cecchino a Sarajevo. Gli altri venti capitoli, scritti fra il 1992 e il 2003, raccontano episodi vissuti fra la Bosnia e l’Afghanistan, il Kosovo e l’Iraq, Ceylon e Israele… Il cronista si trasforma però involontariamente in giudice e dice la sua, spara le sue parole come proiettili sperando che colpiscano davvero al cuore chi dovrebbe capire e fermarsi. Il quotidiano passa così dalla cronaca alla storia, anche i piccoli traumi personali sono specchio per leggere i grandi drammi dell’umanità.

DiMare

***

Lino Di Nitto, Come un soffio che vive, deComporre

Come un soffio che vive è un buon libro – malgrado la mole (adatta a lui, ma insolita nella stessa collana in cui appare) –: non tutto è alla stessa altezza, è ovvio, ma si fa leggere, per la ricchezza tematica, per la compattezza dello stile. Diversi sono i nuclei che si possono evidenziare ed è l’autore stesso a farceli notare. Di Nitto, infatti, lavora molto alla composizione di un  libro: ricordo “L’ultimo album”, allestito davvero come fosse un cd musicale, addirittura con la ghost track, la traccia “nascosta” dopo le 7 pagine vuote… Questo Come un soffio che vive è anch’esso organizzato in maniera attenta, diviso in tre parti pressoché uguali, ma articolato in piccole sezioni disomogenee – probabilmente però, una logica interna ce l’ha anche l’apparente disomogeneità. Il paratesto comunque sembra contare per Lino Di Nitto, che intitola le tre parti del suo libro: Come può accadere – cosa può accadere – accade. E si rimane infine sospesi a cercare di capire cosa veramente accada, che cosa sia accaduto anche a noi stessi nel corso della lettura… C’è una dedica a Pavese, e in poesia non è abitudine ricorrente; una sezione poi si intitola “alcool”, ma Apollinaire per fortuna è lontano, come pure Bukowski… Non sembrano lontani invece altri nomi (ma può sempre darsi che siano vicinanze scoperte dal lettore, implicite però e quindi valide ugualmente: in poesia non esiste il caso – è che siamo tutti della stessa pasta –: se si scopre qualcosa per caso, è perché doveva esserci e ci aspettava). “Ho fatto della mia vita una leziosa cavia”, è scritto in uno degli ultimi testi: fa pensare a tanti punitori di se stessi, e fa pensare a Svevo, che scrisse – a suo incredibile dire! – “Una autobiografia che non è la mia” (a proposito della Coscienza di Zeno)… Il sottotitolo: vita parallela, che Lino dà al suo libro può semplicemente essere la metafora della poesia: o il tentativo di fingersi un altro (o di pensarsi in un oltre diverso da qui) – o è paura, discrezione, modestia, umiltà… nel descrivere la vita di un altro (sia pure in parallelo) per non esibire la propria, non volendo proporre, non pensando di poterla imporre come modello (è un gioco, e le regole le ha fatte lui: fingiamo pure noi di starci e seguiamolo, accettiamo la sfida). Il silenzio è un tema ricorrente in questo libro (e forse è proprio “come un soffio che vive” – giusto il titolo): “il silenzio pace di ogni spirito folle assicura distese di calma inebriante […] ma chi in segreto coltiva la sua ombra ha solo la sua ombra con cui parlare” – si deve fare attenzione: “il silenzio non è sempre quando un uomo è solo”, ma “il silenzio è in me” e “il silenzio è una fragranza”… citazioni un po’ alla rinfusa, per dare il senso di questo intenso rapporto con il silenzio che Di Nitto ha quasi come un anti-rifugio: se lo sente dentro e ci convive, ma al tempo stesso ha paura di esserne travolto sopraffatto sconfitto, annichilito.

***

Lino Di Nitto, Sulla distanza, deComporre

Notevoli gli spunti di riflessione che propone questo libro – che certamente serve al suo autore (autore ormai di una decina di libri in genere di notevole sostanza) per fare i conti con il suo processo esistenziale – e può dare coordinate di lettura a chi voglia e sappia mettersi in gioco e giocare al tavolo della vita. La consapevolezza del poeta Di Nitto è sempre più evidente: d’altronde non ha mai mandato a dire quel che aveva da dire, perché si è sempre espresso con chiarezza. Qui, Sulla distanza, si misura appunto la sua tenuta lirica e la sua capacità di misurarsi reggendo al tempo (la distanza infatti è più una questione di tempo che di spazio). È “quasi una vergogna di sé” accorgersi, riguardando i percorsi vissuti, di quanti errori abbiamo commesso e però dobbiamo cercare di emendare. Ma c’è una via di salvezza: una “vita parallela” è quella che ci tocca in sorte se appena la scorgiamo oltre le quinte di questo palcoscenico che è la vita, alla quale prestiamo una maschera quotidiana. Così Di Nitto si arrovella e si arrampica in cerca di un ubi consistere più soddisfacente. Pertanto, proprio sentendosi “uomo di esperienza”, capace di “additare ogni cosa col proprio nome”, al tempo stesso ha paura delle cose, come ha paura degli uomini; è sazio di espedienti e a mala pena sa come tirare avanti per sé, senza impegnarsi troppo per il prossimo. Da poeta, sembrerebbe una rinuncia, ma è probabile che – nel gioco del dire e non dare – Lino abbia ormai raggiunto anche una linea di emergenza: addirittura non vorrebbe “fare figli”, e questo pure appare segno di rinuncia, considerato che, a suo dire, “riprodursi dovrebbe avvenire per vocazione” – e la vocazione è la chiamata del poeta ad un lettore responsabile, a sentirsi un po’ figlio delle sue parole. Ecco quindi perché il libro si chiude con un’epigrafe apotropaica, poiché giocata sull’antinomia: “Non consolateci poeti” – da non crederci, è ovvio, dal momento che il gioco è tanto evidente: “parlateci chiaro” – che è una dichiarazione di intenti, non di presunte sconfitte.

CCI07082016

***

Pasquale Di Nitto, Atroce in privato, deComporre

Ci siamo! Verrebbe da dire, conoscendo l’autore, avendone seguito la crescita attraverso gli anni e le diverse nutrite pubblicazioni. Pasquale Di Nitto è maturato, è diventato più attento all’espressione (comunque mai poco curata nelle sue prove precedenti) e più sincero, forse, meno preso da certi giochi linguistici comunque usati prima (ma con misura, senza compiaciuta indulgenza). Atroce in privato è un libro che ben festeggia l’arrivo dei quarant’anni per un poeta non più ragazzo e consapevolmente adulto. Di Nitto si concede (“Confessione”,  “Condanna”,  “Espiazione”) al giudizio proprio, prima che a quello del lettore, senza tema di ferirsi, anzi volendo da solo fare giustizia delle proprie debolezze. È una ferma proposta di onesta riflessione umana. Senza eccedere in lacrime o sospiri, senza ambire a ricompense… Ci sono vette di profonda autolettura, in queste poesie appena pubblicate, che risalgono ad un breve giro di tempo, non lontano essendo l’ultima pubblicazione (due anni orsono). Testi come “La parola presepe” e “La madre defunta” meritano il plauso per l’intensa e chiara affermazione di principio: dal “sogno dei miei nonni” al “presagio di morte” passa una vita vissuta sul bordo delle aspirazioni di cui ci si sente fallacemente vittima. In definitiva, “Atroce in privato” sembra essere il poeta con se stesso (e diversi sono i testi di metapoesia che invitano a considerazioni in proposito: “Poeti”, “In camera”…): cattivo quanto basta per punirsi delle menzogne che pure lo hanno salvato in certe occasioni, riconoscendosi allora carnefice della sua stessa esperienza artistica.  Cinquantasei le poesie presentate in  questo volumetto della nuova coraggiosissima editrice “deComporre”, cinquantasei stazioni sulla via del possesso di sé, che ci si augura sia sempre più convinto, e poeticamente convincente.

***

DiSpigno n

Stelvio Di Spigno, La nudità, peQuod

Forse lo stesso titolo, La nudità, allude – o esplicitamente conduce – alla voglia/necessità di raccontarsi e, facendo questo, trovare “compagni al duolo”. Si può tranquillamente citare Dante poiché lo fa anche lui. In fin dei conti, la ricerca di altri è un disperato bisogno di altri orizzonti ma pure di rinnovata conoscenza di sé: “cerco qualcosa che sia io” (in “Animazione”), “perché da più me stessi se ne formi almeno uno” (in “Identificazione”). Non che sia necessario andare in cerca di ascendenze – ma sono dichiarate, certe liaisons, da un lettore (com’egli è) onnivoro nel campo della poesia classica e contemporanea: si può facilmente salire fino a Seneca per tornare a Pirandello. Per quanto si possa aspirare alla comunicazione con un prossimo più vicino, nell’espressione poetica si fissa – o si indica – un cammino personale di iniziazione, salvazione e auto-agnizione che poi, ma solo poi, si propone a modello per coloro che volessero potessero sapessero farne buon uso. È per questo che ci si mette a nudo, piaccia o no la franchezza della dichiarazione, convinca o meno il messaggio, ma con un libro di poesia si intende essenzialmente fare il punto sulla propria esistenza e farne oggetto di testimonianza – altro da sé quello che era in sé. La citazione da San Paolo in epigrafe alla sezione “Lo specchio di Dite” sembra suffragare questa chiave di lettura: “Adesso vediamo come in uno specchio… allora vedremo faccia a faccia… Adesso conosco in parte, ma allora conoscerò perfettamente…” – adesso, allora: da soli, insieme – non si cresce senza conoscersi negli altri, senza proporsi al prossimo. Frequentatore da sempre di libri, specie libri di poesia, Stelvio Di Spigno sa bene quanto sia importante il paratesto, tutto quello che accompagna, in un libro, il testo vero e proprio; in questo caso, le poesie nella loro nuda successione (ecco un segno del titolo: La nudità è proprio quella della poesia che tale si offre se è bella, se è giusta, se è utile). Il paratesto, dunque, ha la sua necessaria presenza: così il titolo, i titoli delle sezioni in cui si articola il libro (ardita “Giorno dopo giorno”!), l’epigrafe iniziale (dantesca, dal “Purgatorio”), la dedica “agli amici delle Marche” e la postfazione di Fernando Marchiori. Tutto si tiene: in poesia non esiste la casualità.

***

Stelvio Di Spigno, Mattinale, Caramanica

Non più giovanissimo – oggi che vanno di moda già i ventenni – Stelvio Di Spigno propone un libro che è comunque giovane, poiché comprende testi scritti tra l’inizio del 1995 (quando in effetti compiva vent’anni) e il maggio del 2003. questo Mattinale dunque, anche se vede la luce dopo una lunga gestazione compositiva e poi editoriale, è una specie di opera prima (pur avendo avuto nel 2002 una “edizione pubblicata pressoché clandestinamente a Mantova” alla quale, anche formalmente ritoccata, risultano “aggiunti ventuno nuovi testi”). È l’autore a fornire, in postfazione, tutti i riferimenti necessari alla lettura del suo libro, che – seppure (o proprio perché) considerato riassuntivo e conclusivo di una stagione creativa ormai trascorsa (ma è la prima stagione) – gli sta molto a cuore, e certo gli fa piacere uscire in una collana ricca di bei nomi, peraltro tutti più anziani di lui. Di Spigno non teme infatti, anzi auspica i confronti: la sua poesia è dichiaratamente debitrice di “una civiltà poetica scomparsa” (è sempre lui a dirlo) – appena trentenne, il poeta mostra di avere un armamentario di tutto rispetto, che trae linfa e stile da una tradizione riconosciuta maestra. Il paesaggio cittadino (scorci di Napoli e delle città del golfo di Gaeta) e la formazione sentimentale sono i temi dominanti, fino a potersi dire che ormai al paesaggio stato d’animo si va sostituendo un (insostenibile) sentimento dell’ambiente; malgrado in parte respinto e comunque difficilmente assimilabile, qui l’ambiente è sentimento. Articolato in sezioni più o meno estese (non è dato sapere, ad eccezione di “Intermezzo e diario”, se composte con testi coevi), il volume ha una sostanziale compattezza e una chiara tensione espressiva. La sezione che dà il titolo al libro, “Mattinale”, è tra le più corpose ed è la più felicemente risolta in chiave lirica. Vi si leggono brevi componimenti nei quali appare agevolmente superato il procedere poematico che caratterizza buona parte degli altri lavori: a beneficio dell’immediatezza comunicativa. Nel “brusio poetico collettivo” che oggi è diventata la civiltà letteraria, massificata anch’essa nelle catene di successo o costretta (ed è la parte migliore, la più seria e genuina) nelle piccole esperienze dei cenacoli alla periferia dell’impero editoriale, nella difficile e pericolosa sopravvivenza in una giungla di parole buttate allo sbaraglio, Di Spigno ha forza e fede per credere – ha ancora voglia di ritrovare se stesso “nella parola che non si prevede”, bella definizione (alla Valéry) del fare poesia. Si è formato caparbio in un percorso di letture denso e proficuo: ha filtrato secoli di poesia scolastica e antiaccademica, padroneggiandone gli esiti come fossero sue cose (e nella sua attività di ricercatore universitario ha prodotto interessanti contributi su Dante, Leopardi e Montale). Può darsi che ci si ritrovi ad essere “un folle in cerca d’estasi / con in mano il becco della tua viltà” (in “Le parole” – forse una sensazione di rabbiosa impotenza, comprensibile in chi vive per la parola, attraverso e a causa di). Lo scoramento è sovrano, talvolta, nell’arido panorama che lo circonda, eppure spiragli e pertugi si intravedono e invitano ad altre rincorse, barlumi di speranza. È vero, “il tempo: un’ombra che non passa”, e certe volte “non so se e come arrendermi o sparire”, anche “perché ormai è spenta la virtù del gioco” – ma è proprio un gioco virtuoso quello che chiama il poeta a guardare attraverso i fatti comunque siano e farsene ostia di vita.

***

DiSpigno

Stelvio Di Spigno (e Carla Saracino): Qualcosa di inabitato,  Edb Edizioni

Perseguito con intenzionale consapevolezza (non senza una piccola dose di sana autoironia, malgrado la malinconia di fondo che farebbe piuttosto gridare all’ossimoro della logica), il cosiddetto “grado zero della poesia” –  che l’avvicina alla prosa, volendo appunto scendere di grado, cioè rinunciare a salire e scalare le vette impervie dell’espressione lirica (come s’era intesa) – è anche un modo, preterintenzionale e paradossalmente prematuro, di evitare il “male di vivere” (come più tardi sarebbe stato inteso).Non tutti lo seppero, se ne resero conto, lo vollero – ma è così che un secolo fa andavano le cose della poesia (magari perché si voleva farla “onesta”, qualcuno). Oggi, un secolo dopo, dopo tanto nascondersi nelle torri o dietro barriere di oscurità, e poi dopo tanto sfoggio di bravura metrica e abilità pseudo-retorica, si torna a scrivere poesia come si parlasse ad un amico (magari quello che è dentro lo specchio), in semplicità, e in profondità. Così anche chi a lungo si è esercitato nelle forme – diciamo classiche – novecentesche, in maniera post-ermetica o comunque montaliana (si doveva, per dimostrare di essere qualcosa), capita che si ritrovi in una dimensione, ancora sofferta, ma minimalista, appunto, sfiorando il “grado zero” di quella poesia prima praticata ad altri, alti livelli. Capita, o si fa voto di rinuncia all’esperimento azzardoso per essere almeno se stesso, riconoscibile da chi ascolta.Capita, sembra stia capitando, anche a Stelvio Di Spigno. Dopo già alcuni anni di silenzio, e in attesa di un suo libro autonomo (inteso come regesto di un periodo lavorativo da testimoniare), il quasi quarantenne autore napoletano esce con una piccola silloge (13 poesie) pubblicata per le Edb Edizioni insieme a Carla Saracino, proponendo, dice il titolo collettivo: Qualcosa di inabitato. Sarà forse il territorio della mente che si va spopolando? Sarà la vecchia “Napoli rivisitata” (“come se fossi una madonna abbandonata in una delle mille edicole di quartiere”… come pure ce ne sono a Gaeta, altro suo luogo di elezione) o altre plaghe della memoria? Forse non basta a scoprirlo il materiale a disposizione – piuttosto limitata la sua proposta – ma indicativo di un disagio consapevolmente contenuto. Uno spaesamento che si ammette, poiché lo si percepisce, al tempo stesso come una perdita, un distacco, e la ricerca, aspirazione alla possibilità di abitare, ubi consistere… Ubi bonum est, possibilmente. Nelle sue 13 poesie, Di Spigno propone comunque un breve ma significativo itinerario che lo porta sempre più nettamente fuori dalla sua primitiva maniera di esprimersi, al recupero di una dizione chiara, diretta, in un racconto (per lo più biografico) che fluisce liberamente, fuori schema, senza rete, nemmeno la protezione esteriore che dà l’aspetto di una forma nota. Qui è lui che si comunica.

 ***

Stelvio Di Spigno, Formazione del bianco, Manni

Cresce la costruzione dell’opera poetica, e non solo (esemplare il suo lavoro critico su Le memorie della mia vita di Leopardi) dell’ancora giovane Stelvio Di Spigno. Formazione del bianco raccoglie la recente produzione in versi che racconta un triennio tormentato di formazione, di superamento e – forse – di nuovo autoriconoscimento: chi lo segue dall’inizio sa che il poeta Di Spigno ha tempi lunghi e lavora per tappe decise, costante in una sua ricerca e conquista progressiva di una dimensione artistica, ma esistenziale insieme, non facile (volutamente: la sua cifra espressiva lo manifesta – ma i richiami alla tradizione codificata sono meno evidenti, ormai, segno di una più convinta adesione ad una linea privata, accettata e proposta come esempio). Questa nuova silloge è articolata in otto brevi, brevissime sezioni, anche di un solo testo (l’iniziale “Ripresa” e la finale “Leg- genda”). Una sezione soltanto ha un’epigrafe – che potrebbe essere stata scritta dallo stesso autore del libro – “Agnosci nequeunt aevi monumenta prioris”, ed è di Rutilio Nama- ziano; la sezione ha titolo “Civiltà” – sembra tutto un gioco, uno di quei giochi amari cui la poesia ci prepara, se è la poesia ricca di dolorose agnizioni e di cosmiche pene irri- solte, come è la poesia di Stelvio Di Spigno. I luoghi frequentati, conosciuti, scoperti, diventano e rimangono luoghi dell’anima – le esperienze personali specchiano altre realtà e nel farsi logos vengono proposte come paradigma. Nella Formazione del bianco Gaeta e Napoli si descrivono come due poli (difficile però dire quale veramente positivo – forse uno è un po’ meno negativo dell’altro?) ai quali orientare un’esistenza raminga in se stessa (“o forse di un altro me stesso”) alla continua ricerca di un agognato ma impossibile ubi consistere. Se in poesia tutto è possibile, se ogni desiderio è già verbo incarnato, qui si ha la netta sensazione di un oltre inarrivabile, poiché troppo bene conosciuto e rimosso – almeno nel desiderio, nel fissaggio del verso. La crepuscolare ammissione di “scrivere versi che non piaceranno” (in “A ben guardare”, che inizia con “una finestra sul mare” di chiara derivazione) è superata nella consapevole maturità acquisita frequentando ben altre scuole. Come pure è lancinante la ferita di un amore perduto (“dentro me c’è una stanza semiaperta /dove continui a vivere e a morire”), anch’esso percepito in chiave crepuscolare (“i miei anni come sono / come sono passati senza passare”) ma senza compiacimento disfattista (“avrei voluto essere […] /qualcosa che il tempo non disperde, non umilia”). Forse la formazione del bianco è proprio il superamento di un buio della coscienza – e/o di una certa esperienza artistica – nel desiderio di una pulizia nuova dell’anima e della parola.

***

DiSpigno F

Stelvio Di Spigno, Fermata del tempo, Marcos y Marcos

Al doppiare la boa dei 40 – e giunto alla quinta pubblicazione personale di poesia – Stelvio Di Spigno (si) racconta (a) se stesso. Compie cioè l’operazione classica (Svevo docet) di chi – pur avendo chiara idea del domani, almeno potendosi a quello dedicare – continua a guardarsi indietro per capire come affrontare quel domani partendo da oggi, evitando di “rincorrere ieri nel domani”, evitando allora di pensare al futuro come una soddisfazione al passato, se l’oggi non è del tutto appagante, non quanto ci si sarebbe aspettati. Perché, “rimboccando le coperte al domani” (dice il poeta, in un verso emblematico), si avverte che “niente è reale di ciò che verrà dopo”. Ma, per citare Saffo, tutto devo osare… Non ci si può sedere ad aspettare sulla riva del fiume, non usa più. Fermata del tempo, dunque… Magari si potesse! Ambiguità di un titolo: il tempo non si ferma; possiamo provare noi a fissarlo sulla carta (Svevo sempre docet!), appunto fermandoci nella memoria su episodi e persone che al tempo nostro hanno dato corpo. E sono tempo ormai eterno se altri potrà leggerne e condividerne occorrenze e sembianze. Sono luci ed ombre, sono lapidi e vessilli. Qui c’è un racconto fatto in primis a se stesso, di sé, per fare – come si dice ma come conviene – il punto, a un punto di svolta esistenziale. Si ripercorre la strada ben nota, si richiamano a vita gli amici e i parenti, si rivivono anche situazioni che a volte sarebbe meglio rimanessero sotto il fondo della memoria (ma fa d’uopo misurarsi anche con i fallimenti)… C’è il coraggio di un intellettuale che sa bene a qual prezzo si può vendere l’anima, se la vita ci fa incontrare “la felicità promessa” senza essere in grado di goderla. “Sono uno che non viaggia”, confessa (pur “Senza vergogna”, dice altrove) – “Ma intanto passano i treni e gli anni”. Comunque “è prosa” – direbbe qualcuno che non riconosce la poesia se non canta intonando un peana accompagnandola dorate buccine – e spesso prosa in realtà sembra (e forse è) questa fluente inarrestabile eruzione verbale nella quale si cerca (riuscendovi, sì) di coniugare memoria e futuro, madre e figlio, evanescenza e forma: in una parola, vita e morte. C’è anche l’amore. L’amore per Napoli (banale dire: odio-amore, ma è così, forse appena un po’ più amore, ma la rabbia per come si è ridotto un simbolo è forte, cocente la delusione per quanto male sia capace di regalarsi). “Ma questa è solo una poesia” – dice Di Spigno in un testo che dal titolo (“Sega circolare”) già vorrebbe farsi giustizia e non può che guardare il mondo girare in tondo sempre in tondo a sconfiggere la voglia di cambiare. Forse un po’ di speranza, “alla fine, si riaffaccia” (scrive Fiori in copertina) – davvero? E quanto costa? Conviene? L’umanità di questa storia sembra appagarsi di un mezzo fallimento e puntare almeno a qualche mezza soddisfazione ogni tanto. Poi – dopo leggere e rileggere – si trova, si (ri)scopre la poesia. Ci sono pagine di altissima commozione. Ma perché allora ci sono tanti testi che paiono buttati lì come panni dismessi che – si sa (forse nemmeno) – i poveri vorranno indossare? Ma i poveri non leggono poesie.

***

Stelvio Di Spigno, Le Memorie della mia vita di Giacomo Leopardi. Analisi cognitivo-comportamentale dei disegni letterari…, L’Orientale Editrice

Appassionato lavoro da erudito, ma insieme atto d’amore per un’anima sorella: così potrebbe in sintesi definirsi questo lavoro encomiabile soprattutto per l’infinita pazienza che certo ne ha consentito la realizzazione. Il sottotitolo è la sintesi dei titoli dei due capitoli che compongono il volume: 1. La polizzina Memorie della mia vita: tradizione autobiografica e disegni letterari. 2. Memorie della mia vita: analisi psicologica cognitivo comportamentale. Scrivere di Leopardi è sempre una sfida, un azzardo, un rischio (può darsi che sia calcolato) – almeno vanno scelti percorsi critici e/o ipotesi interpretative alquanto inusuali. Qui, del desiderio leopardiano di costruire una biografia di sé che avesse valore paradigmatico Stelvio Di Spigno ci parla con la necessaria competenza e con ammirevole semplicità, pur essendo il suo un discorso chiaramente accademico, di alto profilo espressivo – diciamo che gli è congeniale. Pochi autori come Leopardi hanno parlato di sé in modo così ossessivo, e persuasivo. Pochi hanno lasciato così tante e chiare tracce, e leggibili nonostante a volte l’incompletezza o l’affastellarsi dei progetti renda problematica la definizione dell’idea guida dei progetti stessi. Nella disamina proposta da Di Spigno si ipotizza e si giustifica come spesso progetti di studi ambiziosi finiscano per trasformarsi assumendo aspetti e sfociando in esiti ben diversi da come l’animo del poeta se li era figurati: così un libro sulla serenità ad imitazione di Marco Aurelio “cederà il passo al ventottesimo dei Canti, intitolato, naturalmente, A se stesso […] che ribadisce il distacco dalle proprie passioni, consumato [senza la] saggezza stoica che Marco Aurelio suggellava”. Così anche nelle Operette la costruzione (inguaribilmente spontanea, malgrado il presunto controllo filosofico) di un ideale obbliga a smascherare i referenti storici o letterari nei quali Leopardi cerca un conforto o un alibi. In altre parole, è possibile vedere questa “figura referente calata nel proprio contesto ma non fino al punto di non essere utilizzabile dall’organigramma concettuale di Leopardi…”. Una maschera che si scopre dunque più vera del proprio volto. È quindi ben documentata in questo lavoro la smania organizzatrice di una mente irrequieta e insaziabile, il progressivo cercare, trovare, riconoscere se stesso, parlandosi in continuazione come dal di fuori. Anche il distacco dalla famiglia, dal padre, è il segno inequivocabile della volontà di uscire per entrare di nuovo, di separarsi per incontrarsi ancora. È una progressiva coscienza di sé in una sorta di autoanalisi ben prima dell’analisi: anche in questo, certo, Leopardi anticipa, è in anticipo sul tempi e si proietta – però inconsapevolmente – verso un futuro che ignora (ma che molto dovrà misurarsi con lui e con le sue analisi). L’io, inquieto insoddisfatto infelice, del poeta recanatese è infine un quaderno aperto, solo che si voglia guardarci dentro, però con le capacità affinate da un adeguato strumentario culturale – Di Spigno mostra le carte in regola: è uno studioso giovane e già esperto di biblioteche, inoltre è un poeta che sente la vita à la Leopardi, uggioso il suo rapporto col mondo e col genere umano. Tutto è documentato con filologica attenzione alle fonti, lo Zibaldone principalmente, da cui attingere le chiavi giuste per cercare di aprire la via all’interpretazione spesso ardua di quelli che erano i desideri operativi di Leopardi. Una corposa bibliografia chiude il volume, testimoniando che Di Spigno ha lavorato su tavoli attrezzatissimi, filtrando con acume i materiali a disposizione: in particolare la terza parte della bibliografia è un vasto e allettante repertorio di materiali specialistici. Lo scopo di questo volume leopardiano è per Di Spigno evidente (e raggiunto): chiarire, non solo dopo un’attenta lettura dei testi dell’autore (per ricavarne segni e segnali di intenzioni e risultati nel merito) ma pure di altre opere memorialistiche e scientifiche sui comportamenti cognitivi, chiarire i rapporti sottili che consentono di scoprire il sé in sé, attraverso la comparazione di altre ipotesi esistenziali.

***

Rodolfo Di Biasio, Patmos, Stamperia dell’arancio

È forse inevitabile, chi vada in Grecia “ad ispirarsi”, come Rodolfo Di Biasio, ine­briarsi di retorica più di quanto abitualmente non gli capiti di fare? ma della retorica che non lo è come ora si potrebbe intendere, bensì quella classica arte del dire che lega le parole alle cose… Forse perché più non parliamo / o se crediamo di parlare / ci facciamo remoti bozzoli / chiuse conchiglie / Ci condanna al silenzio / l’usura di un polverio di voci / senza radici e scopi. Per questo, forse L’anima si fa spenta marea. Certo, se uno se ne va a Patmos – e non si tuffa nel bel mondo in vacanza usa e getta (ormai lì pure di casa), ma ci va pro­prio perché lì si respira il tempo e del tempo si coglie l’agostiniano presente immoto e perpetuo -, c’è il rischio di scrivere poemetti, più o meno frammen­tati ma comunque ricchi di pathos… come lo sono appunto quelli che Di Biasio ha composto componendo il suo ultimo libro di versi, che prende il nome dall’isola greca (ove peraltro fu scritto il libro dell’Apocalisse: non è questo un altro se­gno – e se­gnale, che è pure augurio/invito – di una pace che è solo un velo al tormento della vita?… non dimentichiamo che da quelle parti una volta nascevano le dee, e le grazie, più o meno nude; e poi qualcuno le coprì e protesse con un velo pudico). La scelta dell’isola non è forse anch’essa un segno in qualche modo contraddittorio? perché Di Biasio è un terragnolo verace (e per questo sì scontroso e ‘isolato’ a suo modo), e perché comunque vuole comunicare (via via che compone, camminando la sua strada, un iter che altri possa seguire)… La contraddizione, proprio se appa­rente e apparentemente decifrabile, è in fondo un passepartout che a tutti consente di entrare nel gioco: poi ciascuno ridiventa se stesso, appena abbia compreso le regole. Nemmeno definitiva appare la scrittura di questo libro, ed è già segno di gioco retorico nelle indicazioni che l’autore propone a chi lo segua nel viaggio della parola: “frammenti per il poemetto di Patmos” si intitola il primo dei sette testi che compongono il volu­metto. Tutto giocato sull’ossimoro, sul dire che non è suono e sul rombo del mare che diventa luce nelle tenebre dell’inesprimibile, il testo conduce di­rettamente all’infinito leopardiano, passando (o tor­nando) per il Medi­terraneo montaliano. Il contrasto esterno-eterno (che è dunque in­terno), silenzio-suono (rumore delle stagioni), l’ac­qua e i ciottoli… Il rombo stesso è il suono del mondo che  nel mare si smorza e trova pace, quiete, concentrando in un punto mentale l’immenso altrimenti inesprimibile il nostro lento amore delle cose. Perché poi ‘frammenti’? se – come gli altri, del resto – il poe­metto appare ‘completo’… Dobbiamo aspettarci un seguito, visto che Di Biasio torna a Patmos per altre vacanze… Altro vertice della raccolta è il Poemetto del sonno dedicato “a S.M.” (che è lo scomparso Salvatore Mignano: perché non dirlo? gli amici lo capiscono sùbito e si commuovono a quel ‘Palinuro’ che tanto esalta di Salvatore le capacità di ‘gubernator’, nocchiero di una nave in gran tempesta… che non ebbe il tempo di addormentarsi… o che troppo presto fu strappato alla sua rotta…). E’ un vertice per la compattezza che lo caratterizza, per la pienezza del rapporto parola-immagine. Sonno-morte che forse è vita; senza dubbio anzi è così: l’amico tuffato nel mare (“cuore che serra progetti nostalgie”) trova “matrice” e “memoria”, tentando “astrali connessioni”. Importante comunque è che il dettato sia infine pulito, quelle pa­role e non altre (ne è garanzia il proverbiale lavoro di sfoltimento che l’autore ha sempre dichiarato come sua caratteristica metodolo­gica): nella ricerca di porti sereni, anche se “molto di me non è an­cora approdato”, Patmos potrebbe avere indicato al Di Biasio reduce dalla camminata a ritroso sulla via degli emigranti un faro di rife­rimento per il nuovo cammino da fare  frecce/parole all’arco dei giorni / – tese oltre i giorni  / arco di orizzonte [1995]

***

Rodolfo Di Biasio, La strega di Pasqua, Bastogi 

Quando si accetta di vivere, quando si di­vie­ne consapevoli del viaggio che si sta percorrendo in com­pagnia di altri viaggiatori, più o meno consapevoli, è quasi sempre tardi per modificarne la rotta: tanto vale adattarsi e seguire la corrente, cercando di non su­bi­re danni irreparabili da scosse troppo violente. Più ci si muove, più si agitano intorno le acque, più si rischia di annegarvi. Sem­bra il clas­sico circolo vizioso: noi de­sideriamo più spa­zio, e intorno la vora­gi­ne ci in­ghiotte; ci serve più tempo, e la vec­chiaia ci sclerotizza; aspet­tia­mo qualcuno, e la folla tormenta la no­stra intimità. Si nasce per cre­scere, certo, e ci fu detto di moltipli­car­ci, è pur vero, e i beni della terra vanno guadagnati con fatica, giusto! ma qual è il limite, il segno oltre il quale non c’e nemmeno più gusto a cer­care, a godere, a vivere? Qui è la terra dei leoni che ci affascina an­cora, l’America, la luna, qui le colonne d’Ercole del­l’im­maginazione, se l’Ip­pogrifo ancora non ha smesso di volare, scalpi­tan­do inquieto nella no­stra fantasia. Qui vive la vita…  ahinoi, e lo sappiamo. Ecco, la verità è che noi siamo fin trop­po consapevoli della no­stra limita­tez­za, della no­stra pochezza: il poco fango che siamo, che dovrebbe farci ri­flettere sulla vanità dei nostri sforzi per misu­rare l’intero mondo che cono­sciamo. Al quale invece vo­gliamo sem­pre misurarci, quasi a sfida che ci appa­ghi di noi stessi: chi va in­contro all’ignoto, non cerca di scoprire l’ignoto – vuole solo dimo­strare (a se stesso più che agli altri) di aver avuto co­rag­gio a suffi­cienza per intra­prendere il viaggio nuovo, per concepire il sogno a portata di mano. Chissà, chissà quali molle fanno scattare le serrature del­l’animo, della coscienza, della volontà, quando infiliamo quella magica chiave nella toppa arrugginita e – miracolo! – sentiamo che gira, che la porta si apre ancora e fuori c’è altra vita da conquistare. Chiodo piantato ben fermo nella nostra testa, la fan­ta­sia fa perno nei nostri sogni e si avvita fino a penetrare il cuore, fino a sfondarci il petto per la brama di uscire, fino ad incontrare, all’orizzonte del no­stro orizzonte, nuove ma­ri­ne remote, altri lidi, approdi instabili ep­pure agognati con sete ine­stin­guibile di naufrago che ha creduto nel de­stino. Se Rodolfo Di Biasio ha deciso di fuggire da se stesso è per­ché sapeva – lo sap­piamo tutti che ab­biamo appena un briciolo di curio­sità, oltre il coraggio della paura – sapeva che avrebbe incon­trato an­cora se stesso, magari più curvo sotto il peso degli anni, ma non di­verso da quello che fu. Chi abbia ac­cet­tato il fardello della vita, e per di più riconoscendo in sé la luce che è l’in­con­tro di sé negli altri; chi abbia deciso di rac­contarsi perché vita sia vita e non si esaurisca nel volgere degli an­ni; chi abbia co­min­ciato a piantare semi che non iste­riliscano la pianta, tutto questo lo sa. E ne fa la sua bandiera, non ha paura della sorte, non teme la morte. L’eredità della Strega di Pa­squa, ammesso che esistano ancora le streghe e che a Pasqua di­ventino buone, a­miche dei bimbi e dei puri di cuore; l’eredità del li­bro che Di Biasio ha lasciato a sua fi­glia, ai suoi figli, ai figli che si di­sperdono per il mondo, l’eredità della vita è il ri­spetto per la vita. La lezione che Di Biasio propone con il suo racconto, dolo­roso ma sereno, lan­cinante nei ri­cordi perché lucida nella lettura del pre­sente è la lente attraverso la qua­le li si legge, la lezione della Strega di Pasqua, am­messo che nei fumi dell’alcool ancora si possa avere chia­rezza d’intenti, è l’invito a credere nel mondo, nel nostro mondo, di cui, per essere si­gnori, dobbiamo essere a­rtefici – e prepa­rarci subito a non farcene vit­time.

***

Rodolfo Di Biasio, I quattro camminanti, Sansoni

Da molti anni, ormai, Rodolfo Di Biasio va tessendo una sua tela di memorie che lo lega, in una dimensione dell’anima quasi, all’America, o meglio – come la chiama lui – all’america, con la minuscola (e basta leggere la prima pagina del suo libro per capire il perché). Forse è un luogo della mente, la sua america, che gli è cresciuta dentro fin da quando, ragazzino appena, ascoltava in famiglia i racconti dei parenti e sui parenti, emigrati verso quel lontano continente in cerca di fortuna, lontano dai patimenti cui li aveva abituati l’avara terra natia, l’ultima landa del Lazio meridionale in faccia al Garigliano. Autobiografia riflessa, dunque, e viene da pensare a Svevo il quale sosteneva che La coscienza era un’autobiografia, ma non la sua; anche nella narrativa di Di Biasio c’è autobiografia, e sia pure di seconda mana, ma è la sua, in qualche modo, perché anch’egli provò un tempo a varcare l’oceano per “fare l’america”…Rodolfo Di Biasio propone con I quattro camminanti la sua prima opera narrativa di lungo respiro. È un romanzo breve proiettato verso altri mondi, altri spazi, perché appunto la vita è cammino e ricerca, non sempre soddisfatta, di strade le più adatte e le più agevoli da percorrere, per correre ad altri lidi pieni di promesse. I quattro protagonisti sono gli zii dell’autore, che uno ad uno emigrano negli Stati Uniti, conservando sempre accesa nella mente, forse ancora più che nel cuore, l’immagine della terra da cui vengono, della terra madre, e della madre. Ed è proprio la figura della madre che rimane infine astagliarsi, immutabile nel tempo, sul panorama delle memorie e sullo stesso paesaggio, fisico e mentale, che è l’ambiente nel quale è situata la vicenda narrata, di qui e di là del mare – in lei l’autore vede conservata la fedeltà allavita, che è la trama portante della storia.Già nella raccolta di racconti Il pacco dall’America, Di Biasio aveva toccato in più punti i temi che sono i cardini strutturali de I quattro camminanti. Il viaggio, che i camminanti compiranno verso un destino diverso, era ancora lontano, ma aveva il suo magico carattere da amarcord felliniano: “la nave: noi che le avevamo viste solo sui libri, ci spalancavano lontananze e mistero”, e la lingua volutamente sconnessa è scommessa di appartenenza ad un codice espressivo che non si vuole rinnegare malgrado il distacco necessario.Il tempo (già allora nel rapporto generazionale) e la natura, anch’essa molto spesso specchio del tempo e degli uomini, erano strettamente collegati: “molte volte solo il nipote coglie le ulive degli alberi piantati dal nonno”. E nel libro successivo, La strega di Pasqua (ancora una raccolta di racconti legati da un filo conduttore: la visita al paese natale in compagnia della sua bambina, un’altra occasione per parlare di America, scritta con la maiuscola ma pronunciata con la minuscola),c’è un’altra spia narratologica di chiara impronta sveviana: “è il tempo che colloca ogni avvenimento nella giusta prospettiva”.Quasi a sfida che ci appaghi di noi stessi, chi va incontro all’ignoto non cerca di scoprire l’ignoto: vuole solo dimostrare (a se tesso più che agli altri) di aver avuto coraggio a sufficienza per intraprendere il viaggio nuovo, per concepire il sogno. È strano come ci si lasci catturare dall’immenso quando il minuscolo non soddisfa più. Ma è per questo allora che, dopo, si continua a sognare il “ritorno”, anche se “quasi sempre quelle partenze furono senza ritorno”. È per questo che Di Biasio scrive una raccolta di versi alla quale dà il titolo  I ritorni? È forse un bisogno, è la voglia di ritornare bambini nel proprio paese, che i ha fatti crescere troppo presto, ed è un’esigenza che aiuta a vivere, perché fa sperare. Il cordone ombelicale con la madrepatria non viene reciso, dunque, anche se si riduce a sottile spago della memoria… Nella nave che lo porta verso gli Stati Uniti, il giovane contadino (che nel libro di Di Biasio è un Sancosimese, ma è simbolo di tutti quelli che dal nostro Sud hanno avuto il coraggio di staccarsi) vive una catartica metamorfosi: si imbozzola e si fa larva di nuova vita, perché oltreoceano avrà davvero ali di farfalla per vivere una vita nuova. [1994]

***

Rodolfo Di Biasio, Poemetti elementari, Il labirinto

Inutile andare in cerca di ascendenze (che pure ci sono, ci sono e si potrebbero individuare nella scabra scansione e nella rarefazione della parola che lega Ungaretti e Caproni, fra gli altri) – ma Rodolfo Di Biasio in questi Poemetti elementari si dimostra appunto “elementare”, e così vuol essere, probabilmente. Se ricordiamo “la dottrina dell’estremo principiante” del vecchio maestro Luzi, comprendiamo perché: questi poemetti nascono da una ricerca di parola e sulla parola che è nella natura stessa di Rodolfo Di Biasio (l’autore de I ritorni, di Patmos), avendolo accompagnato dalle origini, quando tentava “sorti” e sfidava la storia della poesia interrogandosi sulla strada più giusta da seguire per essere se stesso, pur “dentro l’orma” dei padri. Ora, a settant’anni e dopo un lungo silenzio, dopo aver camminato in lungo e in largo per le vie della letteratura (è stato professore, critico, animatore culturale), ora ha voluto un’altra volta misurarsi con se stesso. Come un principiante, appunto – poiché il poeta lo è sempre, se cresce in onestà –, ed è tornato (ma è rimasto fedele) agli elementi della sua formazione, della sua vita di autore. “Elementari” significa semplici (ed è chiaro dall’aspetto stesso della pagina di questa plaquette che comprende sette poemetti articolati ciascuno in tre momenti – pagina scarna, essenziale: una semplicità di arrivo); ma si farebbe torto alla sua intelligenza linguistica se ci si fermasse qui: “elementari” è proprio degli elementi, cioè della naturale forza che troviamo negli elementi intorno a noi: acqua, terra… il mare, il fiume, l’ulivo, la cenere, e il tempo, sovrano. E siccome tutto ritorna, la lezione degli elementi è flusso di memoria che diventa viatico per le piccole orecchie di chi ascolta: qui c’è il nipotino David, al quale si racconta dell’infanzia e delle radici (“ineludibili”), in un “poemetto dell’ulivo” inebriato da una “luce” che “è dentro e non smuore”. E c’è il tempo delle “corrispondenze” (“silenzi sempre più lunghi” e “abrasa memoria delle cose” – che pure furono “le rose della vita”): quando “le irrisolte strade” sono ormai “alle spalle” e si impone una “tregua”…  Infine, “è questo il tempo delle interrogazioni”, quando tutto ritorna, si incastra, nell’essere quello che era, elemento e parola che lo dice. Il piccolo libro appare nella collana “Tarsie” delle Edizioni Il Labirinto.

***

Pasquale Di Ciaccio, La luce blu, Novecento

La luce blu è uno di quei libri in cui la trama finisce per interessare poco, la trama come successione di grandi fatti e intersecazione di fatterelli di contorno: qui è tutto di contorno e tutto diventa grande (la nitidezza di certi episodi li scolpisce nella pagina cesellandone i particolari). I personaggi principali sono sommersi da una pletora di figuranti, da un vero coro di compaesani che ne scandiscono i giorni, impotenti ad impicciarsi dei fatti propri – tipico di certi paesi, o di certi rioni di città anche grandi. Nella Gaeta “d’altri tempi”, che Di Ciaccio racconta con abilità estrema di conoscitore disincantato e testimone addolorato (è stato anche giornalista pungente, elzevirista di taglio classico), in quella Gaeta di Via Indipendenza che della città è rimasta forse la parte meno contaminata dalle successive trasformazioni urbanistiche, l’esistenza ha ritmi lenti e si svolge in attesa di scadenze ineluttabili, come il mutare delle stagioni, e le feste religiose. I primi turbamenti e le curiosità dei ragazzini (e le difficoltà della scuola e la necessità di un lavoro); il ricordo, nell’età adulta, dei tempi spensierati (“Gli immutati aspetti dei vichi lo inteneriscono. Ritrova le sparse memorie dell’infanzia, tutta ribollente di desideri inappagati; riassapora intimità e gioie remote”); la saggezza dei vecchi (che però sconfina a volte nella saccenteria, ostentata e spesso non apprezzata), e “la vecchiaia che ha sterilmente sciupato la giovinezza ed ora è astiosa verso la fiorente giovinezza altrui”; il conformismo e l’ipocrisia delle “bizzoche”, il “dovere di un padre” e la sottomissione delle donne… e il mito dell’America lontana (ma in fondo più vicina di Milano: “Mancano gli informatori da quella città, che per molti aspetti è più remota di Somerville-Mass.” – meglio conosciuta, quest’ultima, attraverso i racconti degli emigrati)… Sono questi i temi portanti, intorno a questi nuclei narrativi si addensano e a volte si stemperano i disordinati frammenti della vita di paese. La storia minima di un borgo del secolo scorso (qui siamo tra le due Guerre, negli anni Venti ricchi di contraddizioni sociali) si snoda e si riannoda continuamente attraverso i racconti di Lorenzino e Nunziatina, di Giannetta e don Diego, e Rosetta e Nanninella e Pietruccio… È passato quasi un secolo, adesso, da quei racconti, eppure sono vivi e balzano prepotenti sulla scena quei protagonisti con tutte le loro vicende variamente intrecciate, consegnati alla memoria custode che illumina quei vicoli di Via Indipendenza, cuore del vecchio Borgo. Solo sullo sfondo si avverte l’eco delle trasformazioni in corso: le ferite della guerra, l’emigrazione, l’affermarsi del fascismo; i problemi della pesca, il commercio, l’apertura della direttissima Roma-Napoli. Di Ciaccio appare in un cantuccio a suggerire, orchestrare, fa finta di non esserci, vorrebbe fare il narratore onnisciente alla maniera verista, e finisce un po’ per somigliare al Bernari di Speranzella (tanto per trovare affinità caratterizzanti), ma poi non è necessario cercare archetipi o modelli – il suo stile è il suo, fluido, sapido, essenziale. Quasi un limite, secondo una certa critica; un pregio, secondo altri, proprio per la capacità di affrescare immagini a tinte forti e con tratti decisi, o (se l’episodio ha i toni dimessi del sentimento meno esibito) con i tenui pastelli di un acquarello di Magliozzi. Lacerti di vitalissima umanità costituiscono il connettivo da cui La luce blu è sorretto, le nervature di un discorso esistenziale al quale possiamo affidarci, sicuri di trovarvi intatta la dimensione umana che ci appartiene: qui siamo vivi anche noi, tutti interi con le nostre debolezze e le nostre illusioni, le nostre magagne e le pene che a quelle conseguono; ci siamo noi, aggrappati allo scoglio, sospesi sul dirupo… una mano ci salverà, quella del nostro simile che saprà riconoscere nei suoi problemi i nostri e ci aiuterà a risolverli, insieme. Perché è la solidarietà la molla che ci spingerà oltre, oltre la banalità del male, oltre la precarietà del quotidiano.